Cass. Sez. III n. 6126 del 15 febbraio 2016 (Ud 21 gen 2016)
Pres. Ramacci Est. Mengoni Ric. Caredda
Urbanistica.Elementi significativi della responsabilità del proprietario dell'area non committente
In tema di reati edilizi, la responsabilità del proprietario o comproprietario non committente non può essere oggettivamente dedotta dal diritto sul bene né può essere configurata come responsabilità omissiva per difetto di vigilanza, attesa l'inapplicabilità dell'art. 40, secondo comma, cod. pen., ma dev'essere dedotta da indizi ulteriori rispetto all'interesse insito nel diritto dì proprietà, idonei a sostenere la sua compartecipazione, anche morale, al reato. In particolare, si è evidenziato che questa responsabilità può dedursi da elementi quali la piena disponibilità della superficie edificata, l'interesse alla trasformazione del territorio, i rapporti di parentela o affinità con l'esecutore del manufatto, la presenza e la vigilanza durante lo svolgimento dei lavori, il deposito di provvedimenti abilitativi (anche in sanatoria), la fruizione dell'immobile secondo le norme civilistiche sull'accessione, nonché tutti quei comportamenti (positivi o negativi) da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione - anche morale - alla realizzazione del fabbricato; una responsabilità, dunque, che può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria e la cui valutazione si sottrae al sindacato di legittimità, se congruamente motivata.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza dell'8/4/2015, la Corte di appello di Cagliari confermava la pronuncia emessa il 12/12/2013 dal Tribunale di Lanusei, con la quale C.A. era stato condannato alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione in ordine per il delitto cui al D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, artt. 157 e 181, venendo invece prosciolto - per intervenuta prescrizione - quanto alle violazioni di cui all'art. 81 cpv. cod. pen., D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, comma 1, lett. c); allo stesso - in concorso con altri - era contestato di aver realizzato una struttura in ferro con copertura (superficie di circa 120 mq.) in assenza di concessione edilizia ed in assenza del nulla osta paesaggistico, necessario attesa la zona sottoposta a vincolo.
2. Propone ricorso per cassazione il C., a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
- violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 29 e 44 e D.Lgs. n. 42 del 2004, artt. 157 e 181. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna del ricorrente pur difettando qualsivoglia elemento a conferma del concorso nell'abuso, invero riferibile soltanto alla committente P.G.; il rapporto di coniugio tra i due costituirebbe, al riguardo, un elemento del tutto neutro ed insuscettibile - di per sè solo - di fondare il giudizio di responsabilità;
- violazione dell'art. 63 c.p.p., commi 1 e 2, art. 64c.p.p., comma 3-bis e art. 350 cod. proc. pen.. La Corte avrebbe giudicato di "dubbia utilizzabilità" le dichiarazioni rese da C.V. T., esecutore materiale dei lavori, il cui contenuto scagionerebbe interamente il ricorrente; tale inutilizzabilità, peraltro, non sussisterebbe nei confronti del C., potendo al più valere contro sè (dichiarazioni autoindizianti) e contro la P.;
- contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. La sentenza avrebbe prima ritenuto non sufficiente la condizione di mero proprietario dell'area, quindi avrebbe confermato la condanna solo in forza di questa; così trasformando il rapporto di coniugio con la P. in una presunzione di concorso e, pertanto, di colpevolezza;
- violazione degli artt. 40 e 42 cod. pen. in rapporto alle norme contestate. La sentenza avrebbe ravvisato, a carico del C., un inesistente obbligo di impedire l'evento (l'abuso), per poi ravvisare il concorso nell'abuso in forza di una mera tolleranza delle scelte operate autonomamente dalla moglie;
- violazione dell'art. 27 Cost., commi 1 e 2. La sentenza avrebbe invertito l'onere della prova, imponendo al ricorrente di dimostrare la sua estraneità al reato, anzichè provandone la colpevolezza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso risulta manifestamente infondato; al riguardo, peraltro, le doglianze - le medesime già sollevate in sede di merito - possono essere esaminate congiuntamente, attesane la sostanziale identità di ratio.
Con riguardo al primo motivo, questa Corte ha ripetutamente affermato che, in tema di reati edilizi, la responsabilità del proprietario o comproprietario non committente non può essere oggettivamente dedotta dal diritto sul bene nè può essere configurata come responsabilità omissiva per difetto di vigilanza, attesa l'inapplicabilità dell'art. 40 c.p., comma 2, ma dev'essere dedotta da indizi ulteriori rispetto all'interesse insito nel diritto di proprietà, idonei a sostenere la sua compartecipazione, anche morale, al reato (Sez. 3, n. 44202 del 10/10/2013, Menditto, Rv. 275625). In particolare, si è evidenziato che questa responsabilità può dedursi da elementi quali la piena disponibilità della superficie edificata, l'interesse alla trasformazione del territorio, i rapporti di parentela o affinità con l'esecutore del manufatto, la presenza e la vigilanza durante lo svolgimento dei lavori, il deposito di provvedimenti abilitativi (anche in sanatoria), la fruizione dell'immobile secondo le norme civilistiche sull'accessione, nonchè tutti quei comportamenti (positivi o negativi) da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione - anche morale - alla realizzazione del fabbricato (Sez. 3, n. 25669 del 30/5/2012, Zeno, Rv. 253065; Sez. 3, n. 15926 del 24/2/2009, Damiano, Rv. 243467); una responsabilità, dunque, che può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria e la cui valutazione si sottrae al sindacato di legittimità, se congruamente motivata.
4. Orbene, proprio in questi termini risultano gli argomenti stesi dalla Corte di appello, la quale - investita della medesima questione - ha evidenziato, in modo logico, plurimi elementi indiziari a sostegno dell'ipotesi accusatoria. In particolare, la sentenza ha sottolineato, oltre al titolo di proprietario esclusivo dell'area in capo al C., con piena disponibilità giuridica e materiale della stessa, 1) che i lavori erano stati commissionati dalla moglie, convivente, con la quale deve presuntivamente ipotizzarsi una piena comunanza di interessi e di scelte, specie se significative sotto un profilo economico, come nel caso di specie, e coinvolgenti beni di comune impiego (casa per le vacanze sfruttata congiuntamente da entrambi); 2) che, nell'ottobre 2004, il ricorrente aveva sottoscritto un contratto di somministrazione di energia elettrica proprio in ordine al terreno in oggetto, verosimilmente necessario per l'imminente cantiere (il primo sopralluogo era avvenuto a giugno 2005, con individuazione di opere già avanzate); 3) che, ricevuto l'ordine di sospensione dei lavori in data 24/7/2006, il ricorrente si era recato presso il Comando di Polizia Municipale per ottenere chiarimenti, senza affatto invocare la propria estraneità agli abusi; 4) che, di seguito, lo stesso aveva acconsentito ad ulteriore progressione delle opere medesime, come accertato infine nel luglio 2007.
In tal modo, quindi, e con argomento del tutto logico, la sentenza ha evidenziato plurimi profili indiziari - di carattere positivo e negativo - che, valutati congiuntamente, fanno emergere con ogni verosimiglianza la colpevolezza del C.; responsabilità piena e non già ex art. 40 cpv. cod. pen., invero giammai menzionato nella sentenza a differenza di quanto sostenuto nel ricorso con il quarto motivo. E senza potersi ravvisare, ancora, il difetto motivazionale contestato con la terza doglianza, non ravvisandosi alcuna contraddittorietà o manifesta illogicità degli argomenti impiegati, nel senso di ritenere prima insufficiente il titolo dominicale, quindi condannare il ricorrente soltanto in forza di questo; ed invero, la pronuncia, in adesione al citato canone ermeneutico, ha individuato molti argomenti logici che superano - senza peraltro contraddirlo - quello inerente al rapporto di coniugio.
Non solo.
5. La sentenza di appello ha preso in considerazione anche la tesi difensiva e, in tal senso, le parole del coimputato C.V. T., che aveva riferito ogni responsabilità alla sola P..
Orbene, osserva questa Corte, al riguardo, che il secondo motivo di doglianza - relativo alla presunta inutilizzabilità di queste dichiarazioni - risulta palesemente infondato, atteso che il Collegio di merito le ha comunque valutate nel loro contenuto, senza arrestarsi al presunto vizio che le connoterebbe; e, sul punto, la sentenza ne ha svilito la portata, ritenendole irrilevanti se lette in rapporto a tutte le risultanze sopra richiamate, logicamente valutate come espressione della responsabilità concorsuale del C..
6. Da ultimo, risulta del tutto infondata anche la quarta doglianza, con la quale si contesta una presunta inversione dell'onere della prova. Ed invero, il compendio istruttorio - per come riportato nella sentenza - ha provato la realizzazione di un abuso edilizio su un'area di proprietà esclusiva del ricorrente e nella sua piena disponibilità (circostanza pacifica); lo stesso, pertanto, è stato onerato soltanto di dedurre elementi che, con eguale o maggior consistenza, potessero evidenziare la propria estraneità all'esecuzione dell'opera, senza compiere alcuna inversione probatoria o violazione dei precetti costituzionali dedotti.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2016.