Cass. Sez. III n. 5735 del 11 febbraio 2016 (Cc 21 gen 2016)
Pres. Ramacci Est. Mengoni Ric. Cuomo
Urbanistica. Natura dell'ordine di demolizione delle opere abusive

L'ordine di demolizione impartito dal giudice costituisce un provvedimento accessorio rispetto alla
condanna principale, esplicitazione di un potere sanzionatorio non residuale o sostitutivo, ma autonomo rispetto a quello dell'autorità amministrativa, attribuito dalla legge al giudice penale: Esso al pari delle altre statuizioni contenute nella sentenza definitiva, è soggetto all'esecuzione nelle forme previste da codice di procedura penale, avendo natura di provvedimento giurisdizionale, ancorché applicativo di sanzione amministrativa); trattasi, ancora, di una sanzione amministrativa di tipo ablatorio (non di una pena accessoria, né di una misura di sicurezza patrimoniale), caratterizzata dalla natura giurisdizionale dell'organo istituzionale al quale ne è attribuita l'applicazione, la cui catalogazione fra i provvedimenti giurisdizionali trova ragione giuridica proprio nella sua accessività alla "sentenza di condanna

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 26/2-5/3/2015, la Corte di appello di Salerno rigettava la richiesta - avanzata da C.T. - volta alla sospensione dell'ingiunzione di demolizione emessa dal Procuratore generale presso lo stesso Ufficio in relazione alla sentenza della Corte medesima a data 10/2/2009, irrevocabile l'8/4/2009; la C. era stata condannata per violazioni in materia urbanistica ed edilizia, con riguardo ad opere realizzate abusivamente in (OMISSIS).

2. Propone ricorso per cassazione la stessa imputata, a mezzo del proprio difensore, deducendo tre motivi:

- inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 118 Cost., artt. 20 e 666 c.p.p., D.L. n. 269 del 2003, art. 32, comma 25 e L. n. 47 del 1985, art. 38, comma 3.

La Corte di appello avrebbe negato la sospensione dell'ordine di demolizione sull'assunto che le opere in esame non fossero sanabili; tale conclusione sarebbe però del tutto errata, come ben evincibile da numerosi atti amministrativi prodotti, quale il permesso di costruire n. 11/2014, la presentazione di numerose pratiche di condono e l'imminente definizione di altre.

Il Collegio, inoltre, avrebbe attribuito peso decisivo ad una consulenza di ufficio invero del tutto disattesa dal tecnico di parte. In forza di tutto ciò, il Giudice ordinario si sarebbe indebitamente sostituito alla pubblica amministrazione e, in seconda battuta, al Tribunale amministrativo. Ancora, la Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto non sanabili le opere in oggetto, pur risultando dagli atti la piena conformità delle stesse alle domande di condono e, in termini generali, la sanabilità degli interventi, come confermato dalla comunicazione del Comune di San Marzano sul Sarno, avente ad oggetto la richiesta di documentazione integrativa;

- mancata assunzione di prova decisiva. Il Collegio di merito non avrebbe assunto una prova decisiva, quale una perizia redatta da un tecnico imparziale, volta a verificare 1) la corrispondenza tra l'intervento in contestazione e la domanda di condono poi confluita nel permesso di costruire n. 11 del 2014; la corrispondenza fra l'altra parte di intervento e la domanda di condono presentata il 10/12/2004; l'impedimento alla demolizione, costituito dallo stato dei luoghi;

- mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione. La Corte, in forza di quanto precede, avrebbe steso una motivazione gravemente viziata, con la quale, peraltro, avrebbe erroneamente affermato che talune opere non avrebbero carattere pertinenziale, quel che mai sarebbe stato dedotto.

3. Con requisitoria scritta del 24/6/2015, il Procuratore generale presso questa Corte ha chiesto rigettarsi il ricorso, negando ogni censura all'ordinanza impugnata.


CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è manifestamente infondato.

La L. n. 47 del 1985, art. 7, u.c., disponeva che, per le opere abusive eseguite in assenza di concessione o in totale difformità o con variazioni essenziali, "il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui alla L. 28 gennaio 1977, n. 10, art. 17, lett. b), come modificato dal successivo art. 20 della presente legge, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita"; questa disposizione è stata poi riprodotta nel D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31, comma 8, nel quale si afferma che "per le opere abusive di cui al presente articolo (interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire ovvero in totale difformità o con variazioni essenziali, n.d.r.), il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita". Questo ordine costituisce un provvedimento accessorio rispetto alla condanna principale, esplicitazione di un potere sanzionatorio non residuale o sostitutivo, ma autonomo rispetto a quello dell'autorità amministrativa, attribuito dalla legge al giudice penale (per tutte, Sez. U, n. 15 del 1976/1996, Monterisi, Rv. 205336, a mente della quale l'ordine di demolizione adottato dal giudice ai sensi dell'art. 7 legge 28 febbraio 1985, n. 47, al pari delle altre statuizioni contenute nella sentenza definitiva, è soggetto all'esecuzione nelle forme previste da codice di procedura penale, avendo natura di provvedimento giurisdizionale, ancorchè applicativo di sanzione amministrativa); trattasi, ancora, di una sanzione amministrativa di tipo ablatorio (non di una pena accessoria, nè di una misura di sicurezza patrimoniale), caratterizzata dalla natura giurisdizionale dell'organo istituzionale al quale ne è attribuita l'applicazione, la cui catalogazione fra i provvedimenti giurisdizionali trova ragione giuridica proprio nella sua accessività alla "sentenza di condanna" (vedi, in tal senso, Cass., Sez. U, Monterisi, cit.).

Ciò premesso, la fase dell'esecuzione costituisce la sede nella quale, se del caso, l'ordine di demolizione in esame (che, avendo natura amministrativa, non è coperto dal giudicato) può esser revocato, specie allorquando - come invoca l'odierna ricorrente - lo stesso non sia più compatibile con situazioni di fatto o di diritto sopravvenute, quali ad esempio atti amministrativi che abbiano assegnato al bene una diversa destinazione, o l'abbiano sanato.

Orbene, se questa è la premessa, occorre però sottolineare che - per principio costante di questa Corte - tale incompatibilità deve essere effettiva ed attuale, non già futura e meramente eventuale, non essendo consentito paralizzare in modo indefinito il ripristino dell'assetto urbanistico violato (Sez. 3, n. 13746 del 29/1/2013, Falco, Rv. 254752; Sez. 3, n. 11419 del 29/1/2013, Bene, Rv. 254421); esattamente quel che ha riconosciuto la Corte di appello di Salerno, nel corpo di una motivazione del tutto adeguata, logica ed insuscettibile di censura in questa sede.

4. Ed invero, rispondendo alle medesime doglianze qui riproposte, il Collegio di merito ha evidenziato che, nel caso di specie, difettano tanto la possibilità di una definizione sollecita della procedura di condono avanzata dalla ricorrente (in ordine alla quale nessun elemento è stato allegato), quanto - ed a monte - l'astratta accoglibilità dell'istanza medesima, atteso che "le opere abusive in ampliamento di un preesistente manufatto era risultate ancora in itinere al 31/3/2003", termine ultimo di completamento degli interventi per beneficiare del condono.

"Opere, quindi, in radice non condonabili, nè sanabili".

Di seguito, l'ordinanza ha evidenziato che i permessi di costruire già rilasciati dal Comune interessato - e menzionati anche nel presente ricorso a dimostrazione di un prevedibile esito favorevole di altri - si riferiscono ad immobili diversi da quelli in argomento, come da perizia di un tecnico nominato d'ufficio.

Ancora rispondendo a deduzioni difensive, la Corte ha poi negato il carattere pertinenziale delle opere abusive di cui al piano terra e primo dell'immobile, difettandone i requisiti. In tal modo, l'ordinanza ha quindi fatto buon governo del principio, costantemente affermato in questa sede, per cui in materia edilizia, affinchè un manufatto presenti il carattere della pertinenza, si richiede che abbia una propria individualità, che sia oggettivamente preordinato a soddisfare le esigenze di un edificio principale legittimamente edificato, che sia sfornito di autonomo valore di mercato, che abbia ridotte dimensioni, che sia insuscettibile di destinazione autonoma e che non si ponga in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti (per tutte, Sez. 3, n. 25669 del 30/5/2012, Zeno, Rv. 253064); elementi non riscontrati nel caso in esame.

Da ultimo, quanto all'asserita impossibilità tecnica della demolizione, causa la pericolosità dell'intervento, la stessa è stata negata dall'ordinanza con riferimento all'accertamento espletato dal consulente del Procuratore generale, "senza determinare pericoli sotto il profilo della statica per il preesistente fabbricato".

Orbene, a fronte di una motivazione così ampia, logica e fondata su oggettive risultanze istruttorie, il ricorso si limita a reiterare le medesime doglianze già sollevate innanzi alla Corte di appello, in particolare richiamando le varie pratiche di condono presentate nel corso degli anni e ribadendo, per talune di esse, la previsione - meramente asserita - di un'imminente definizione. Ancora, il gravame afferma che, a fronte di queste procedure, il Giudice di merito avrebbe dovuto "cedere" il passo alla pubblica amministrazione ed al magistrato amministrativo; con ciò, quindi, disattendendo la costante giurisprudenza di questa Corte in tema di ordine di demolizione impartito in sede di condanna, come sopra richiamata. Del tutto fattuali, poi, risultano le censure in punto di sanabilità degli immobili, con le quali la ricorrente invoca al Giudice di legittimità una nuova e diversa valutazione delle medesime risultanze istruttorie già valutate in sede di merito; quel che non è consentito alla Corte.

5. Palesemente generica, poi, risulta la seconda doglianza, con la quale si deduce la mancata assunzione di prova decisiva.

Al riguardo, occorre premettere che - per constante e condiviso indirizzo giurisprudenziale - deve ritenersi "decisiva", secondo la previsione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), la prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (Sez. 4, n. 6783 del 23/1/2014, Di Meglio, Rv. 259323; Sez. 3, n. 27851 del 15/6/2010, M., Rv. 248105; Sez. 6, n. 14916 del 25/3/2010, Brustenghi, Rv. 246667). Orbene, tale non può certo qualificarsi quella invocata dalla ricorrente, la quale si limita a richiedere una perizia "di un tecnico imparziale che esaminasse lo stato dei luoghi e delle pratiche amministrative, così da verificarne la legittimità" (e, in particolare, la corrispondenza tra una parte dell'intervento in oggetto ed il permesso di costruire n. 11/2014; la corrispondenza tra l'altra parte di intervento e la domanda di condono in corso; l'impedimento ad ogni intervento di demolizione).

Un'incombente, dunque, meramente "esplorativo", ipotetico, privo in radice del carattere della decisività come sopra individuato.

6. Le considerazioni appena esposte, da ultimo, privano di ogni fondamento anche il terzo motivo, con il quale è dedotto il vizio motivazionale con riguardo ai punti che precedono; la doglianza, infatti, risulta generica, riproduttiva delle censure già esaminate e del tutto priva di riferimenti agli argomenti logico-giuridici esposti dal Collegio di merito, invero privi dei dedotti difetti.

Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., l'onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 1.000,00.


P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2016.