Cass. Sez. III n. 57989 del 21 dicembre 2018 (Ud 4 ott 2018)
Pres. Aceto Est. Reynaud Ric. Di Sabatino
Urbanistica. Modifica della destinazione d’uso giuridicamente rilevante
Nel caso in cui sia contestata e ritenuta la modifica della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, le opere che rendono necessario il previo rilascio del permesso di costruire e che, in mancanza, integrano gli estremi del reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001 (o lett. c, quando il fatto avvenga in zone vincolate) non sono quelle che, di per sé considerate, giustificherebbero la necessità di ottenere quel titolo abilitativo, essendo invece sufficienti opere anche modeste, riconducibili a ciascuno degli “interventi edilizi” sugli edifici considerati nell’art. 3, comma 1, lett. da a) a d), d.P.R. 380 del 2001.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza dell’11 dicembre 2017, la Corte d’appello di Ancona, decidendo il gravame proposto dall’odierno ricorrente, ha integralmente confermato la sentenza con cui il Tribunale di Ascoli Piceno lo aveva ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.
2. Avverso la sentenza di appello, ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
3. Con il primo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., la violazione dell’art. 552, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. – prevista a pena di nullità ai sensi del comma successivo – per indeterminatezza del capo di imputazione e conseguente violazione del diritto di difesa e del diritto al giusto processo anche in relazione agli artt. 111 Cost. e 6, paragrafo 3, lett. a), C.E.D.U. Detta nullità – eccepita nel giudizio di primo grado, disattesa dal tribunale con ordinanza impugnata unitamente alla sentenza ed esclusa anche dalla Corte territoriale – discenderebbe dalla mancata indicazione della fattispecie incriminatrice contestata, essendovi in imputazione il solo riferimento all’art. 44 d.P.R. 380/2001, senza specificazione della lettera (a, b o c) contenente la contravvenzione ascritta. L’indeterminatezza del capo di imputazione sarebbe evidente poiché, a fronte di della qualificazione intesa dalla difesa come contestazione dell’ipotesi di cui alla lett. a) - vale a dire la realizzazione di una modifica di destinazione d’uso formale in violazione dello strumento urbanistico - il tribunale ha invece ritenuto la più grave ipotesi di cui alla lett. b), per essere state realizzate opere in assenza del permesso di costruire, e la Corte d’appello ha qualificato il fatto come violazione della lett. c), ritenendo essersi trattato di un intervento edilizio senza permesso in zona sottoposta a vincolo storico.
4. Con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., la violazione dell’art. 552, comma 2, cod. proc. pen. ed il difetto di correlazione tra accusa e sentenza. In relazione a quanto osservato nel primo motivo, lamenta il ricorrente che nel giudizio di merito il fatto ascritto sia stato modificato, a sorpresa, tanto nel giudizio di primo grado, quanto in quello d’appello, non essendogli mai stato contestato di aver eseguito lavori o opere di alcun genere.
5. Con il terzo motivo si deduce inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 44 d.P.R. 380 del 2001 e dell’art. 530 cod. proc. pen. – anche per travisamento del fatto e delle risultanze istruttorie – per essere stato ritenuto il reato di esecuzione di lavori o intervento edilizio senza permesso di costruire benché non fosse emerso in istruttoria che lavori di sorta siano stati eseguiti nel locale seminterrato adibito a sala colazioni, essendo stati ivi effettuati lavori di ampliamento e ristrutturazione sanati nell’anno 2005 senza interventi successivi, non potendo essere ritenuto tale il mero posizionamento di mobili ed arredi.
Si sarebbe trattato, dunque, di un mutamento di destinazione d’uso formale, o senza opere, peraltro avvenuto tra categorie edilizie omogenee, cioè da C/2 a C/1, avendo l’imputato continuato ad utilizzare il locale già classificato C/1 come sotto-negozio pur dopo che la classificazione era stata mutata in C/2 (deposito-magazzino), essendo peraltro stato indotto in errore dal Comune, che, ancora nel 2011, ne aveva certificato l’agibilità considerandolo come avente destinazione commerciale.
6. Con il quinto motivo di ricorso si deduce inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 157, 158, 160 e 161 cod. pen. per non essere stata dichiarata la prescrizione del reato, accertato in data 11 maggio 2012: trattandosi di reato istantaneo, avrebbe errato la Corte territoriale nel ritenerne la permanenza ancora alla data del sopralluogo del 30 aprile 2013, essendo dunque la contravvenzione prescritta già alla data della sentenza d’appello
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso – pur apparentemente articolato – propone motivi, in larga parte riproduttivi di quelli dedotti nel gravame, che sono tutti inammissibili per le ragioni di seguito indicate e che non affrontano specificamente le pur non semplici questioni di diritto penale urbanistico che la fattispecie solleva.
Quanto ai primi due motivi ricorso concernenti questioni processuali – da trattarsi congiuntamente perché obiettivamente connessi – gli stessi sono manifestamente infondati.
E’ bensì vero che all’imputato è stato contestato il reato di cui all’art. 44 d.P.R. 380 del 2001 senza indicazione della lettera – a), b) o c) – che nella predetta disposizione individua distinte figure di reato di differente gravità, ma la descrizione del fatto depone univocamente nel senso che la fattispecie contestata sia quella della realizzazione di un intervento (nella specie, modifica della destinazione d’uso di un immobile da magazzino/deposito a negozio) «senza permesso di costruire», con l’ulteriore indicazione che ciò era avvenuto «in palese violazione delle norme del piano particolareggiato del Centro Storico». Il riferimento all’assenza di permesso di costruire consentiva, pertanto, di individuare agevolmente la fattispecie in quella di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001, come esattamente ritenuto dal giudice di primo grado, non essendo stato contestato – ciò che invece avrebbe imposto di ricondurre l’addebito all’ipotesi prevista nella successiva lett. c) – che l’abuso fosse avvenuto «nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale». Poiché la condanna è stata in appello confermata, è del tutto irrilevante la notazione, contenuta nella motivazione della sentenza impugnata, secondo cui, a parere del giudice d’appello, sarebbe invece stata configurabile l’ipotesi di cui alla lett. c) essendo il fatto avvenuto nel centro storico (ciò che, osserva per incidens il Collegio, non vale di per sé a far ritenere che sussista il “vincolo storico” evocato dalla disposizione): le doglianze al proposito svolte in ricorso, dunque, sono all’evidenza inammissibili per mancanza d’interesse.
A fronte di un fatto compiutamente descritto sul piano naturalistico e ricondotto ad una disposizione penale incriminatrice esattamente indicata e la cui fattispecie di reato in essa contenuta era agevolmente individuabile – ed è stata, anche in concreto, individuata, avendo al proposito l’imputato spiegato compiutamente le proprie difese nel corso del processo - non sussiste, pertanto, la contestata indeterminatezza del capo d’imputazione, come hanno correttamente ritenuto entrambi i giudici di merito.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, di fatti, non sussiste alcuna incertezza sull'imputazione, quando questa contenga con adeguata specificità i tratti essenziali del fatto di reato contestato in modo da consentire un completo contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa; la contestazione, inoltre, non va riferita soltanto al capo di imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono l'imputato in condizione di conoscere in modo ampio l'addebito (Sez. 2, n. 2741 del 11/12/2015, dep. 2016, Ferrante, Rv. 265825; Sez. 2, n. 36438 del 21/07/2015, Bilotta e aa., Rv. 264772; Sez. 5, n. 51248 del 05/11/2014, Cutrera, Rv. 261741). Non è, peraltro, necessaria una indicazione assolutamente dettagliata dell'imputazione stessa (Sez. 3, n. 35964 del 04/11/2014, dep. 2015, B. e aa., Rv. 264877), ciò che vale sia per l’enunciazione del fatto, sia per l’ulteriore elemento di cui il decreto di citazione a giudizio si compone, vale a dire «l’indicazione dei relativi articoli di legge» (art. 552, comma 1, lett. c, cod. proc. pen.). Il riferimento all’art. 44 d.P.R. 380 del 2001 e alla contestazione circa la mancanza del permesso di costruire era dunque certamente sufficiente a rendere determinata la contestazione sì da escludere la nullità di cui all’art. 552, comma 2, cod. proc. pen.
1.1. Quanto appena argomentato fa comprendere come non si sia in alcun modo verificato un difetto di correlazione fra accusa e sentenza. Non solo – come meglio più oltre si dirà - non è mutato il fatto storico sussunto nell'ambito della contestazione (Sez. 3, n. 5463 del 05/12/2013, Diouf, Rv. 258975), ma non v’è neppure stata riqualificazione giuridica dello stesso: l’imputato è stato condannato per il reato sin dall’origine addebitatogli.
Del tutto inconferente, dunque, è il richiamo, genericamente operato in ricorso, alla necessità del rispetto dell’art. 6 C.E.D.U., con particolare riguardo ai principi affermati dalla Corte E.D.U. nel caso Drassich c. Italia (che, com’è noto, ha determinato da parte della Corte di Strasburgo due decisioni, la prima dell’11 dicembre 2007 e la seconda del 22 febbraio 2018). A prescindere dal fatto che, appunto, non si è verificata alcuna riqualificazione del fatto ascritto, ciò sarebbe comunque stato consentito, come previsto, in primo grado, dall’art. 521, comma 1, cod. proc. pen.. e, in grado d’appello, dall’art. 597, comma 3, dello stesso codice, non essendo certo “imprevedibile” che, in relazione ad un reato urbanistico contestato con riguardo ad una ben determinata condotta, la stessa possa essere diversamente qualificata nell’ambito delle fattispecie penali previste nell’art. 44 d.P.R. 380 del 2001, il cui campo di applicazione è spesso in parte sovrapponibile. Nel caso di specie, poi, l’imputato è stato in grado di far valere le proprie ragioni in merito alla definizione giuridica del fatto – e in concreto lo ha fatto – sin dal giudizio di primo grado.
1.2. Quanto al rilievo che il capo d’imputazione non farebbe riferimento all’esecuzione di opere, ma ad una mera modifica della destinazione d’uso dei locali, sicché la condanna sarebbe intervenuta per un fatto diverso da quello contestato, basti richiamare il consolidato principio secondo cui, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051). La violazione del principio di correlazione tra l'accusa e l'accertamento contenuto in sentenza, invero, si verifica solo quando il fatto accertato si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale tale da recare un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. 4, n. 4497 del 16/12/2015, dep. 2016, Addio e aa., Rv. 265946; Sez. 1, n. 28877 del 04/06/2013, Colletti, Rv. 256785; Sez. 3, n. 36817 del 14/06/2011, T., Rv. 251081). Il ricorrente deduce soltanto genericamente la lesione del diritto di difesa, senza allegare in cosa ciò si sarebbe sostanziato, essendosi in tutto il corso del processo egli difeso in relazione alla contestazione di non aver richiesto il permesso di costruire con riguardo alla modifica della destinazione d’uso dell’immobile – che, si legge nel capo d’imputazione, sarebbe stata realizzata «allocandovi il servizio di prima colazione e servizi annessi» - adducendo che tale condotta non aveva comportato la realizzazione di opere.
2. Venendo, dunque, al terzo motivo di ricorso, e rispondendo alle critiche proprio al proposito sollevate con il gravame, la sentenza impugnata attesta che – contrariamente a quanto lamentato dall’appellante - la modifica di destinazione d’uso in questione aveva comportato «anche la realizzazione di alcune opere – come descritte nel verbale di sopralluogo del 30 aprile 2013 eseguito dal personale tecnico del Comune di Ascoli Piceno (cfr. pgg. 18 e sgg.)».
Sul punto il ricorrente deduce il “travisamento del fatto” rilevando che nell’immobile in questione erano bensì stati effettuati lavori, ma in epoca lontana e condonati nel 2005. La doglianza, tuttavia, è inammissibile, perché proposta per un motivo non consentito.
Ed invero, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il controllo di legittimità consentito sulla motivazione del provvedimento impugnato non concerne né la ricostruzione dei fatti, né l'apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell'atto impugnato contenga l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo sorreggono, che il discorso giustificativo sia effettivo e non meramente apparente (cioè idoneo a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata), che nella motivazione non siano riscontrabili contraddizioni, né illogicità evidenti (cfr. Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, Longo, Rv. 251516).
Quanto alla illogicità della motivazione come vizio denunciabile, la menzionata disposizione vuole che essa sia manifesta, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, restando ininfluenti le minime incongruenze e dovendosi considerare disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, appaiano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Sez. 2, n. 1405 del 10/12/2013, Cento e a., Rv. 259643). L'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione, inoltre, ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali e senza che sia possibile dedurre nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto (Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099). Alla Corte di cassazione, invero, sono precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482).
E’ invece deducibile il vizio di travisamento della prova, che ricorre quando nella motivazione si fa uso di un'informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva (Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499). Il vizio deve tuttavia risultare dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti processuali specificamente indicati nei motivi di gravame ed è ravvisabile ed efficace solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio travisato od omesso (Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio e a., Rv. 258774). Quanto al primo dei cennati profili, il relativo apprezzamento va effettuato considerando che la sentenza deve essere coerente e logica rispetto agli elementi di prova in essa rappresentati ed alla conseguente valutazione effettuata dal giudice di merito, che si presta a censura soltanto se, appunto, manifestamente contrastante e incompatibile con i principi della logica. Sotto il secondo profilo, la motivazione non deve risultare incompatibile con altri atti del processo indicati in modo specifico ed esaustivo dal ricorrente nei motivi del suo ricorso (c.d. autosufficienza), in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (cfr. Sez. 2, n. 38800 del 01/10/2008, Gagliardo e a., Rv. 241449).
Nel caso di specie, a fronte della specifica indicazione, fatta in sentenza, della fonte di prova attestante l’esecuzione di alcune opere (il verbale di sopralluogo del 30 aprile 2013 , pagg. 18 ss.), il ricorrente avrebbe dunque dovuto dedurre il travisamento di quel dato probatorio e allegare al ricorso gli atti processuali che consentissero a questa Corte di ravvisare il vizio. Non avendolo fatto, ci si trova, appunto, di fronte ad un’inammissibile censura attinente ad un apprezzamento di fatto che non può essere dedotta in questa sede.
2.1 Deve ritenersi accertato, pertanto, che la condanna è intervenuta per un mutamento di destinazione d’uso attuato con opere, dunque qualificabile come materiale e non meramente formale, ed il requisito di specificità del ricorso delineato sub §. 2 avrebbe in particolare imposto al ricorrente di dedurre e dimostrare il travisamento della prova rispetto al fatto che la consistenza delle stesse non era tale da raggiungere quel minimo di rilevanza richiesto per poter nella fattispecie ravvisare la contravvenzione contestata. Sul punto, ad avviso del Collegio, va affermato il principio giusta il quale, nel caso in cui sia contestata e ritenuta la modifica della destinazione d’uso giuridicamente rilevante, le opere che rendono necessario il previo rilascio del permesso di costruire e che, in mancanza, integrano gli estremi del reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001 (o lett. c, quando il fatto avvenga in zone vincolate) non sono quelle che, di per sé considerate, giustificherebbero la necessità di ottenere quel titolo abilitativo, essendo invece sufficienti opere anche modeste, riconducibili a ciascuno degli “interventi edilizi” sugli edifici considerati nell’art. 3, comma 1, lett. da a) a d), d.P.R. 380 del 2001.
Le definizioni di detti interventi edilizi, di fatti, hanno un tratto comune chiaro ed imprescindibile: qualsiasi intervento su edifici preesistenti, per poter essere realizzato con s.c.i.a. (o con c.i.l.), piuttosto che con permesso di costruire, non deve portare ad una modifica della destinazione d’uso del fabbricato. La conclusione si trae dalle definizioni della manutenzione straordinaria (che postula che «si mantenga l’originaria destinazione d’uso»: art. 3, comma 1, lett. b, d.P.R. 380 del 2001), del restauro o risanamento conservativo (le cui modifiche all’organismo edilizio debbono consentire «destinazioni d’uso…compatibili»: art. 3, comma 1, lett. c, d.P.R. 380 del 2001), e pure della ristrutturazione edilizia. Benché il rispetto della destinazione d’uso non sia espressamente contemplato dalla definizione contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. d, d.P.R. 380 del 2001, la consolidata giurisprudenza di questa Corte, operando una ricostruzione sistematica, lo ha infatti affermato, attribuendo un particolare significato alla definizione degli interventi di ristrutturazione edilizia c.d. “pesante” contenuta nell’art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001, che subordina al permesso di costruire quelle ristrutturazioni edilizie che, oltre a possedere le altre caratteristiche enunciate dalla norma, «limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso». Ritenendosi, correttamente, irrazionale che, fuori dai centri storici, il mutamento della destinazione d’uso, inteso tra categorie edilizie funzionalmente diverse, non sia vietato nelle ristrutturazioni edilizie c.d. “leggere”, tuttora soggette a s.c.i.a. – mentre certamente lo è, come si è visto, per interventi minori quali la manutenzione straordinaria ed il restauro e risanamento conservativo – questa Corte ha tempo affermato in via interpretativa quella conclusione, assegnando al citato disposto di cui all’art. 10, comma 1, lett. c), d.p.r. 380/2001 il significato di richiedere il permesso di costruire anche nel caso in cui, limitatamente ai centri storici, il mutamento di destinazione d’uso si realizzi pure all’interno della stessa categoria funzionale, ciò che, al di fuori di tale ambito comunale, non postula invece il rilascio di quel titolo nel caso di altri interventi su edifici preesistenti. La conclusione è stata lucidamente argomentata nella risalente decisione con cui questa Corte ha affermato il principio secondo cui, alla stregua della vigente disciplina urbanistica, le opere interne e gli interventi di ristrutturazione edilizia, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo necessitano di concessione edilizia (permesso di costruire), ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra categorie d'interventi funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e, qualora debbano essere realizzati nei centri storici, anche nel caso in cui comportino mutamento di destinazione d'uso all'interno di una categoria omogenea. Gli stessi, qualora debbano essere realizzati fuori dei centri storici e comportino mutamento della destinazione d'uso all'interno di una categoria omogenea, richiedono, invece, soltanto la semplice denuncia di attività (Sez. 3, n. 35177 del 12/07/2001, Cinquegrani, Rv. 222740, ove il riferimento alla d.i.a., a seguito delle modifiche successivamente intervenute a proposito del titolo edilizio abilitativo semplificato, va ora inteso, a seconda dei casi, con riguardo alla s.c.i.a. o alla c.i.l.). L’orientamento in parola è stato riaffermato in tutte le successive decisioni di legittimità che hanno affrontato il tema, tanto da divenire ius receptum, e in talune di esse il principio è stato esteso anche al caso di modifica della destinazione d’uso senza opere (Sez. 3, n. 13122 del 12/02/2003, Guaetta e a., Rv. 224361; Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243102; Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, dep. 2014, Tortora, Rv. 258686; Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, Filippi, Rv. 260422; Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016, Stellato, Rv. 267106; Sez. 3, n. 6873 del 08/09/2016, dep. 2017, Buti e a., Rv. 269152).
2.2. A prescindere da quest’ultima estensione – che, per quanto detto, non rileva nel caso di specie e che, al di là della conclusione sul titolo edilizio ritenuto necessario sul piano amministrativo, può in effetti determinare conseguenze diverse circa la norma incriminatrice applicabile nel caso di abuso, posto che le più gravi fattispecie di cui alle lett. b) e c) dell’art. 44, comma 1, d.P.R. 380 del 2001 richiedono che la condotta consista, rispettivamente, in “lavori” ed in “interventi edilizi” – reputa il Collegio che con riguardo all’esecuzione di opere, di sia pur modesta entità quali più sopra indicate, l’orientamento debba senz’altro essere confermato. Esso, di fatti, ha una solida base testuale nell’art. 3, comma 1, lett. e), d.P.R. 380 del 2001, che definisce “interventi di nuova costruzione” – come tali assoggettati al previo rilascio del permesso di costruire, ex art. 10, comma 1, lett. a), dello stesso testo unico - «quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti». Se, come si è visto, gli interventi su edifici preesistenti di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia (con le specificità indicate per i centri storici) postulano il rispetto della destinazione d’uso dell’immobile, qualora ciò non avvenga si realizza, per il diritto urbanistico, una “nuova costruzione”. E lo stesso, a fortiori, vale per gli interventi di manutenzione ordinaria, laddove il requisito del mantenimento della destinazione d’uso non viene espressamente contemplato – deve ritenersi – sul rilievo che l’assoluta modestia di opere conservative, che rientrano addirittura nell’attività edilizia libera (v. art. 6, comma 1, lett. a, d.P.R. 380 del 2001), necessariamente, ed implicitamente, postula il mantenimento della medesima destinazione d’uso dell’edificio.
Del resto – come esattamente rileva la sentenza impugnata, richiamando anche conforme giurisprudenza amministrativa – il cambiamento di destinazione d’uso di immobili esistenti, tra categorie funzionalmente diverse (e, nell’ambito dei centri storici, anche nell’ambito della stessa categoria), può compromettere le scelte di pianificazione dell’amministrazione, anche con riguardo alla funzionalità delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria apprestate per le diverse zone del territorio comunale, oltre a rilevare sulla misura del contributo di urbanizzazione, di regola previsto in termini differenti a seconda delle diverse destinazioni urbanistiche. Proprio per questo, nelle sentenze già più sopra richiamate, questa Corte ha precisato che «la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale (vedi Cass., Sez. 3^: 7.3.2008, Desumine e 12.7.2002, Cinquegrani)» (così., in motivazione, Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243102).
2.3. In disparte il tema sulla eventuale rilevanza penale della facoltà, attribuita alle regioni dall’art. 10, comma 2, d.P.R. 380 del 2001, circa l’individuazione del titolo abilitativo necessario per il mutamenti, materiali o formali, della destinazione d’uso degli immobili – che nella specie non rileva, non risultando, e non essendo stato dedotto, che la regione Marche abbia sul punto dettato disposizioni – la legislazione statale sembra, prima facie, aver confermato soltanto in parte gli approdi giurisprudenziali più sopra richiamati.
Ed invero, con l’art. 23 ter d.P.R. 380/2001 – introdotto dall’art. 17, lett. n), d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv., con modiff., in l. 11 novembre 2014, n. 164 – si attribuisce giuridica rilevanza, salve le diverse opzioni eventualmente assunte dalla legislazione regionale, ai mutamenti di destinazione d’uso, anche se non accompagnati da opere edilizie, che siano idonei a determinare la riconduzione dell’immobile (o della singola unità immobiliare) ad una diversa categoria funzionale tra quelle indicate nel primo comma della disposizione. Al di là delle questioni interpretative che possono insorgere rispetto al contenuto di tale comma (cfr., di recente, Sez. 3, n. 6060 del 13/01/2017, Caturano, Rv. 269941), balza subito agli occhi come la disposizione, non solo non consideri il caso particolare dei centri storici, ma espressamente statuisca che, «salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito» (art. 23 ter, comma 3, d.P.R. 380 del 2001).
Per quanto sopra osservato, la disposizione - reputa il Collegio – va, tuttavia, senz’altro coordinata con il principio ricavato dalla giurisprudenza dal disposto di cui all’art. 10, comma 1, lett. c), del testo unico, posto che, nel far salve eventuali diverse previsioni contenute in disposizioni di legge regionali e addirittura in atti amministrativi di carattere generale come gli strumenti urbanistici, la regola ivi sancita, a fortiori, cede il passo a previsioni derogatorie contenute nella stessa legge statale qual è quella in parola. In ogni caso, a ben vedere, nella specie il problema neppure rileva poiché – come recita lo stesso capo d’imputazione (che, sul punto, ha dunque una specifica portata chiarificatrice) e come attesta la sentenza impugnata – il piano particolareggiato del centro storico di Ascoli Piceno non consentiva che l’immobile oggetto di contestazione, classificato come deposito/magazzino, potesse essere destinato ad uso commerciale quale sala di ristorazione e ciò indipendentemente dal fatto che, secondo il ricorrente, vi sarebbe stata soltanto una modifica di destinazione d’uso, nell’ambito della stessa categoria funzionale, da C/2 a C/1: quella modifica non era consentita dal piano particolareggiato e, dunque, per ciò solo, la stessa vale ad escludere l’applicazione del citato disposto di cui all’art. 23 ter, comma 3, d.P.R. 380 del 2001.
3. Manifestamente infondato è anche l’ultimo motivo di ricorso.
Il ricorrente fissa il tempus commissi delicti alla data dell’accertamento, vale a dire all’11 maggio 2012 e ne ricava che il reato si sarebbe prescritto, decorso il termine massimo quinquennale, l’11 maggio 2017, vale a dire prima della pronuncia della sentenza d’appello.
Il ricorrente, tuttavia, omette di considerare le sospensioni del corso della prescrizione verificatesi nel processo di primo grado, vale a dire per 60 giorni a causa del rinvio per legittimo impedimento del difensore ottenuto all’udienza del 6 maggio 2014, per ulteriori 289 giorni in forza dei rinvii richiesti dalla difesa all’udienza del 14 settembre 2014 ed alla successiva udienza del 20 gennaio 2015 (con nuova udienza fissata al 30 giugno 2015). Vi è stata, dunque, sospensione del corso della prescrizione per complessivi giorni 349, sicché, secondo la stessa impostazione del ricorrente, il reato non era certo prescritto alla data dell’11 dicembre 2017, allorquando fu pronunciata la sentenza impugnata.
4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, tenuto conto della sentenza Corte cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., oltre all'onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 4 ottobre 2018.