Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 175, del 21 gennaio 2015
Urbanistica.Definizione di volume tecnico e nozione di pertinenza

Si definisce volume tecnico, il volume non impiegabile né adattabile ad uso abitativo e comunque privo di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché strettamente necessario per contenere, senza possibili alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, gli impianti tecnologici serventi una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima e non collocabili, per qualsiasi ragione, all’interno dell’edificio (come e sempre in difetto dell’alternativa, quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo). Un tale volume che deve porsi in rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione, nonché in rapporto di proporzionalità con le esigenze effettive da soddisfare, non è di norma computato nella volumetria massima assentibile. Tale natura è stata ritenuta appunto ravvisabile per cabine contenenti impianti idrici, termici, motori dell’ascensore e simili, nonché per i sottotetti termici, intesi come ambienti situati sotto il solaio di copertura di un edificio, con esclusive funzioni di isolamento dagli agenti esterni dell’ultimo piano dell’edificio stesso, purché non utilizzabile per attività connesse all’uso abitativo, come nel caso di soffitte, stenditoi chiusi o locali di sgombero. Quanto alle pertinenze, la nozione generale è contenuta nell’art. 817 del Codice civile (che le definisce come “cose destinate, in modo durevole, a servizio o ad ornamento di un’altra cosa”), ma si tratta di nozione che presenta peculiarità in materia urbanistico-edilizia, con riferimento ad opere preordinate funzionalmente ad una oggettiva (e non già soggettiva) esigenza dell’edificio principale, prive di possibile diversa utilizzazione autonoma e, pertanto, non incidenti sul carico urbanistico e senza proprio valore di mercato, come nel caso di un’autorimessa asservita all’abitazione, non certo anche in caso di ampliamento, o sopraelevazione dell’abitazione stessa. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

N. 00175/2015REG.PROV.COLL.

N. 02637/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2637 del 2013, proposto da
Russo Michela, D'Esposito Antonino e D'Esposito Giuseppina, rappresentati e difesi dagli avvocati Aldo Astarita ed Ennio Esposito, con domicilio eletto presso l’avv. Paola Tortora in Roma, Via Silvestro II, n. 21; 

contro

Comune di Piano di Sorrento, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dall'avv. Innocenzo Militerni, con domicilio eletto presso l’avv. Andrea Riccio in Roma, viale delle Milizie, n..22; 

per la riforma della sentenza del T.A.R. CAMPANIA – NAPOLI, SEZIONE VII, n. 03775/2012, resa tra le parti, concernente demolizione di opere abusive e ripristino dello stato dei luoghi;

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Piano di Sorrento;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 novembre 2014 il Cons. Gabriella De Michele e uditi per le parti gli avvocati Ennio Esposito e Barbara Palombi per delega dell'avvocato Militerni;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

 

FATTO

Con sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Napoli, sez. VII, n. 3775/12 del 6 settembre 2012 (che non risulta notificata), sono stati decisi tre ricorsi riuniti, il primo dei quali dichiarato inammissibile e gli altri respinti, così come sono stati respinti i motivi aggiunti di gravame, presentati nel corso della causa introdotta con la prima impugnativa, riferita a due successivi ordini di demolizione di opere abusive (nn. 81 in data 8.4.2005 e 179 del 31 ottobre 2005); le altre due impugnative riguardavano il rigetto di un’istanza di permesso di costruire in sanatoria e la stessa ordinanza di demolizione e rimessa in pristino n. 179 del 31 ottobre 2005, per iniziativa di altri comproprietari.

Sia le sanzioni che il diniego di sanatoria erano riferiti alla “costruzione ex novo, in parziale sopraelevazione al terrazzo di copertura, di un corpo di fabbrica, destinato all’uso residenziale”, che le parti ricorrenti definivano invece “sottotetto termico”.

Nella citata sentenza si esprimeva l’avviso che – dopo la presentazione di istanza di sanatoria, ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380– l’Amministrazione fosse comunque chiamata a provvedere nuovamente (rilasciando la sanatoria stessa o – in caso di rigetto – emettendo nuova misura repressiva dell’abuso); pur non incidendo, pertanto, l’istanza proposta dall’interessato sulla legittimità della prima sanzione irrogata, l’impugnativa al riguardo proposta avrebbe dovuto ritenersi inammissibile, non avendo più interesse il destinatario dell’atto al relativo annullamento.

Quanto al diniego di sanatoria – emesso nel caso di specie e oggetto di separato ricorso – nella medesima sentenza si sottolineava come l’istanza, presentata per la realizzazione di un “sottotetto termico”, fosse stata correttamente ricondotta dall’Amministrazione ad un corpo di fabbrica di ben diversa natura e consistenza, destinato ad uso residenziale, con carattere di nuova edificazione – o quanto meno di ristrutturazione – dell’intervento edilizio effettuato ed incompatibilità dello stesso con le prescrizioni urbanistiche vigenti, in quanto “ricadente in zona territoriale 2 (tutela degli insediamenti antichi accentrati) del P.U.T. (l. reg. n. 35/1987) ed in zona A1 del PRG in itinere”. Irrilevante sarebbe stata inoltre, ai fini della sanatoria, l’ulteriore domanda di compatibilità paesaggistica, presentata dall’interessata ai sensi della legge n. 308/2004, trattandosi di domanda idonea a consentire solo l’estinzione del reato ambientale, riconducibile all’abuso edilizio di cui trattasi. Il parere della Commissione edilizia, infine, non sarebbe stato necessario, imponendosi nella fattispecie considerazioni di natura giuridica e non anche tecnica.

Quanto alle censure, indirizzate sia con motivi aggiunti che con nuovo ricorso di altri comproprietari avverso il nuovo ordine di demolizione, conseguente al diniego di sanatoria, erano ritenute infondate le censure, con cui si prospettava la natura pertinenziale del nuovo manufatto, si ribadiva la valenza sopra esposta dell’accertamento di conformità, richiesto ai sensi della legge n. 308/2004 e si sottolineava l’insussistenza di vizi del provvedimento, sia in quanto l’Amministrazione avrebbe potuto (o dovuto) emettere nuova misura sanzionatoria, dopo il diniego anzidetto, sia per il carattere vincolato del provvedimento stesso, richiedente solo specificazione delle opere contestate e della normativa violata, con irrilevanza di eventuali vizi formali, a norma dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990.

Avverso la predetta sentenza è stato proposto l’atto di appello in esame (n. 2637/13, notificato il 12 marzo 2013), in cui si ricostruiva l’intera vicenda contenziosa e si reiteravano i motivi di gravame di seguito sintetizzati (sempre preceduti dalla formula errores in iudicando, riferita a vizi della sentenza appellata nella valutazione dei motivi stessi).

Con riferimento al ricorso n. 8960, indirizzato avverso il diniego di permesso di costruire in sanatoria:

1) omessa, erronea, insufficiente o contraddittoria motivazione; violazione o falsa applicazione dell’art. 64 Cod. proc. amm., nonché dell’art. 10-bis della legge n. 241/ù del 1990; eccesso di potere per difetto di presupposti e di istruttoria, violazione del principio del giusto procedimento, non essendo stato effettuato preavviso di rigetto della domanda di sanatoria e non risultando “palese” che il contenuto dell’atto non avrebbe potuto essere diverso, tenuto conto della relazione tecnica in data 17 novembre 2005, depositata dagli interessati;

2) ancora difetto di motivazione, violazione dell’art. 64 Cod. proc. amm. e dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché degli articoli 2 e 3 della legge n. 241 del 1990, eccesso di potere sotto ogni profilo (difetto di presupposti e di istruttoria, sviamento, travisamento dei fatti, omessa ponderazione della situazione contemplata, “straripamento”), non essendo state specificate, “con compiutezza e puntualità, le norme….ostative all’edificazione” ;

3) reiterazione dei vizi di cui al secondo ordine di censure sotto altri profili, violazione o falsa applicazione degli articoli 3, 6, 10 e 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, nonché dell’art. 1 della legge 15 dicembre 2004, n. 308; eccesso di potere per sviamento (anche rispetto ai principi di cui all’art. 97 della Costituzione), errore o travisamento, in quanto non si sarebbe tenuto conto della natura meramente pertinenziale del sottotetto termico in questione, la cui altezza media – inferiore a m. 2.40, evidenziata nella relazione tecnica di parte in data 17 novembre 2005 – non avrebbe consentito un uso diverso, tanto da costituire “volumetria solo tecnica”, con conseguente erroneità delle diverse considerazioni, contenute nella sentenza appellata. Il procedimento seguito dall’Amministrazione, peraltro, sarebbe stato illegittimo anche per omessa considerazione della domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica, ai sensi dell’art. 1, commi 37 – 39 della legge n. 308 del 2004, oltre che con quanto stabilito dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, senza puntuali contestazioni al riguardo da parte del Comune resistente. Il sottotetto in questione sarebbe comunque privo di qualsiasi autonoma possibilità di utilizzo, ed avrebbe qualifica pertinenziale in quanto “completamente asservito” al fabbricato principale e privo di qualsiasi valore di mercato;

4) ancora eccesso di potere sotto vari profili e sviamento per omessa acquisizione del parere della Commissione edilizia, obbligatorio benchè non vincolante.

Quanto al ricorso n. 460/2006, riferito, per iniziativa di altri comproprietari, alla medesima ordinanza di demolizione n. 179 del 2005, oggetto di motivi aggiunti al ricorso n. 4861:

1) sempre difetto di motivazione e violazione dell’art. 64 Cod. proc. amm., nonché dell’art. 1 della legge n. 308 del 2004 e dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, eccesso di potere sotto vari profili e illegittimità derivata, per i vizi inficianti il diniego di sanatoria;

2) violazione di legge ed eccesso di potere sotto i profili di cui al punto precedente, nonché per violazione o falsa applicazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, non essendo indicata l’area oggetto di acquisizione, quale elemento essenziale ex lege dell’ingiunzione di demolizione;

3) ancora violazione di legge ed eccesso di potere sotto i profili già in precedenza indicati, ma con riferimento anche agli articoli 3, 6 e 10 del citato d.P.R. n. 380 del 2001, nonché all’art. 97 della Costituzione, tenuto conto della natura meramente pertinenziale delle opere sanzionate e dell’erroneo riferimento, nella sentenza appellata, ad una censura (violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990) non prospettata dai comproprietari ricorrenti.

Quanto ai motivi aggiunti al ricorso introduttivo n. 4861/2005, riferiti all’ordinanza di demolizione n. 179 del 31 ottobre 2005:

1) reiterazione delle censure di violazione di legge ed eccesso di potere già in precedenza ricordate, nonché violazione del principio ne bis in idem, in quanto le stesse opere edilizie sarebbero state illegittimamente sanzionate due volte, senza revoca della precedente ordinanza di demolizione, non ancora ritenuta inefficace con la sentenza gravata;

2) reiterazione delle censure di violazione di legge ed eccesso di potere, già esposte come primo motivo di gravame relativamente ai ricorsi n. 460/2006 e 8960/2005, “da intendersi …per brevità interamente ripetuti e trascritti”;

3) sempre difetto di motivazione, nonché violazione dell’art. 64 Cod. proc. amm. e degli articoli 4, 7, 8, 9 e 10 della legge n. 241 del 1990, dell’art. 10-bis della medesima legge e dei principi del giusto procedimento (in quanto la comunicazione di avvio del procedimento stesso sarebbe stata inoltrata dopo l’emissione del precedente ordine di demolizione e non potrebbe valere per quello successivo, con ulteriore mancata comunicazione del nominativo del responsabile del procedimento);

4) eccesso di potere e violazione di legge, per le ragioni già esposte nel secondo motivo di gravame del ricorso n. 460/2006;

5) eccesso di potere e violazione di legge, per le ragioni già esposte nel terzo motivo di gravame del medesimo ricorso n. 460/2006.

Si è costituito nel presente giudizio il Comune di Piano di Sorrento, eccependo in via preliminare la formazione di giudicato parziale sulla declaratoria di inammissibilità per carenza di interesse in rapporto al primo ordine di demolizione, circostanza da cui deriverebbe anche l’inammissibilità dei motivi aggiunti di gravame, non essendo stata evidenziata la sussistenza di autonomo interesse per il relativo esame. Nel merito, il medesimo Comune contestava analiticamente le singole argomentazioni difensive di controparte, ribadendo come l’intervento edilizio in questione – in quanto implicante aumento di superficie e di volume – non avrebbe comunque potuto conseguire l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, a norma dell’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004.

DIRITTO

E’ sottoposta all’esame del Collegio una fattispecie di abuso edilizio, oggetto di due successivi provvedimenti sanzionatori (nn. 81 in data 8 aprile 2005 e 179 del 28 ottobre 2005), in entrambi i quali è riportata la seguente descrizione del manufatto, realizzato in area paesisticamente vincolata ai sensi del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio): “Costruzione ex novo, in parziale sopraelevazione al terrazzo di copertura, di un corpo di fabbrica destinato all’uso residenziale, realizzato in ampliamento ad un preesistente sottotetto già ubicato a questo livello. Tale corpo di fabbrica, di superficie complessiva pari a circa mq. 29 e volume lordo pari a circa mc 60, ha struttura mista composta da muratura alternata a piastrini metallici, su cui poggia una orditura metallica con soprastanti lamiere coibentate, che configurano una copertura a tetto a doppia falda, con altezze interne variabili da mt. 2 circa ad un massimo di mt. 2,70 circa, ad eccezione di una zona ribassata, di altezza variabile da cm. 70 a mt. 1,55 e superficie pari a m. 6, ricavata all’interno del cornicione perimetrale”. Circa lo stato dei lavori alla data del sopralluogo, veniva precisato come il medesimo manufatto risultasse realizzato “al rustico, privo di infissi e finiture in genere, con gli impianti in corso di realizzazione, internamente suddiviso in n. 3 ambienti – di cui uno destinato a WC – e con le murature perimetrali coperte da un’incannucciata in legno”.

In ordine alle misure ripristinatorie, riferite alle opere sopra descritte, debbono essere esaminate due eccezioni preliminari: la prima, sollevata dal Comune resistente, riguarda la prospettata inammissibilità dell’impugnativa del secondo ordine di demolizione, oggetto di motivi aggiunti di gravame al ricorso n. 4861, per omessa contestazione della dichiarata inammissibilità del ricorso introduttivo; la seconda, prospettata dall’attuale parte appellante, è riferita a violazione del principio ne bis in idem, in quanto le stesse opere edilizie non avrebbero potuto essere sanzionate due volte, senza previa revoca del primo ordine di demolizione.

Entrambe le eccezioni risultano infondate.

Quanto alla prima, si deve in questa sede prescindere dalla fondatezza o meno della tesi, secondo cui la presentazione di istanza di sanatoria – ex art. 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) – priverebbe definitivamente di efficacia un ordine di demolizione, precedentemente emesso.

Appare preferibile infatti, ad avviso del Collegio, l’indirizzo giurisprudenziale che riconduce detta inefficacia solo alle prime domande di condono edilizio, presentate a norma della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (per il nuovo quadro sanzionatorio introdotto da tale legge e da applicare in caso di diniego del titolo abilitativo), mentre si deve ritenere che le istanze di sanatoria ordinaria, proponibili in base alla citata norma del 2001, implichino soltanto la priorità logico-giuridica del relativo esame, rispetto all’esecutorietà del provvedimento repressivo, con conseguente arresto di efficacia dell’ordine di demolizione, fino a pronuncia espressa o tacita dell’Amministrazione (cfr. Cons. Stato, IV, 19 febbraio 2008, n. 849 e VI, 5 aprile 2013, n. 5706).

Fermo restando, tuttavia, che tale capo della decisione non è stato oggetto di gravame (con conseguente formazione di giudicato parziale sul punto) non può ritenersi che la declaratoria di inammissibilità, in quanto non contestata dal destinatario dell’atto (per il quale, peraltro, la stessa non risultava lesiva) travolgesse anche i motivi aggiunti di gravame. Questi, quando indirizzati – come nel caso di specie, per motivi di concentrazione del giudizio – avverso atti successivi a quelli originariamente impugnati, equivalgono a una nuova impugnativa, cui va riconosciuta autonomia processuale, anche in caso di pronuncia che escluda, in rito, l’ammissibilità o la persistenza di interesse, con riferimento all’originario atto introduttivo del giudizio (cfr. anche su detti motivi aggiunti, cosiddetti “impropri”, Cons. Stato, IV, 3 settembre 2014, n. 4480 e 22 settembre 2014, n. 4768; V, 26 settembre 2014, n. 4830).

Parimenti non condivisibile appare l’eccezione – di opposto segno – secondo cui l’Amministrazione non avrebbe potuto emettere nuova misura sanzionatoria, senza revocare la prima, in quanto – anche escludendo che la sanzione (i cui parametri di legittimità, in fatto e in diritto, debbono essere ricondotti al momento della relativa emanazione) divenga permanentemente inefficace, in caso di presentazione dell’istanza di sanatoria – non può comunque ritenersi che l’Amministrazione, emanando tale atto, si fosse privata della potestà di provvedere: potestà viceversa esercitabile (con effetto sostitutivo del precedente provvedimento) sia quando si volesse richiamare la dichiarata insanabilità delle opere, sia soprattutto quando – come nel caso di specie – detto provvedimento dovesse comunque essere integrato nei confronti di ulteriori destinatari, in precedenza pretermessi, quali comproprietari dell’immobile interessato.

Premesso quanto sopra, si ritiene che la valutazione dei singoli motivi di gravame – non accorpati in ordine logico e con riferimento ai diversi atti impugnati, con palese violazione dei principi di sinteticità e chiarezza, di cui all’art. 2, comma 2, Cod. proc. amm. – debba essere preceduta dalla qualificazione giuridica dell’intervento edilizio, le cui caratteristiche in fatto sono puntualmente descritte, nei termini in precedenza riportati, nei provvedimenti in esame.

Al fine di escludere i presupposti della misura sanzionatoria, oggetto sia di motivi aggiunti di gravame al primo ricorso (n. 4861/2005), sia di separata impugnativa (n. 460/2006), nonché del diniego di sanatoria (oggetto in primo grado del ricorso n. 8960/2005), detto intervento è stato presentato dalle diverse parti appellanti come “volume tecnico”, o come “pertinenza”.

Tali qualificazioni non appaiono condivisibili.

Si definisce volume tecnico, infatti, il volume non impiegabile né adattabile ad uso abitativo e comunque privo di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché strettamente necessario per contenere, senza possibili alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, gli impianti tecnologici serventi una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima e non collocabili, per qualsiasi ragione, all’interno dell’edificio (come - e sempre in difetto dell’alternativa - quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo). Un tale volume – che deve porsi in rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione, nonché in rapporto di proporzionalità con le esigenze effettive da soddisfare, non è di norma computato nella volumetria massima assentibile. Tale natura è stata ritenuta appunto ravvisabile per cabine contenenti impianti idrici, termici, motori dell’ascensore e simili, nonché per i sottotetti termici, intesi come ambienti situati sotto il solaio di copertura di un edificio, con esclusive funzioni di isolamento dagli agenti esterni dell’ultimo piano dell’edificio stesso, purché non utilizzabile per attività connesse all’uso abitativo, come nel caso di soffitte, stenditoi chiusi o locali di sgombero (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. Stato, VI, 31 marzo 2014, n. 1512; V, 19 gennaio 2009, n. 236 e 19 settembre 2005, n. 4744; IV, 28 gennaio 2011, n. 678; Cass. civ., sez. II, 17 dicembre 2013, n. 28141 e 10 settembre 2014, n. 19094).

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Quanto alle pertinenze, la nozione generale è contenuta nell’art. 817 del Codice civile (che le definisce come “cose destinate, in modo durevole, a servizio o ad ornamento di un’altra cosa”), ma si tratta di nozione che presenta peculiarità in materia urbanistico-edilizia, con riferimento ad opere preordinate funzionalmente ad una oggettiva (e non già soggettiva) esigenza dell’edificio principale, prive di possibile diversa utilizzazione autonoma e, pertanto, non incidenti sul carico urbanistico e senza proprio valore di mercato, come nel caso di un’autorimessa asservita all’abitazione (non certo anche in caso di ampliamento – o sopraelevazione – dell’abitazione stessa: cfr. anche, per il principio, Cons. Stato, II, 12 maggio 1999, n. 729/99; 26 aprile 2002, n. 2560/01; IV, 8 novembre 2011, n. 5905; V, 24 luglio 2014, n. 3952; IV, 26 agosto 2014, n. 4290).

Le opere nella fattispecie contestate – descritte nei termini in precedenza riportati, con ulteriore, chiara documentazione fotografica versata in atti – non appaiono riconducibili alle richiamate nozioni di “volume tecnico”, o di “pertinenza”.

Appaiono significative in tal senso le seguenti caratteristiche oggettive, non smentite (e, almeno in parte, difficilmente confutabili) dalla parte appellante: la già effettuata suddivisione del manufatto in più ambienti (uno dei quali preordinato ad una tipica funzione abitativa, come quella riconducibile ai servizi igienici), la presenza di regolare porta di accesso e finestratura, nonché l’altezza (pari al colmo a m. 2.70), sicuramente idonea ad assicurare l’abitabilità di una parte almeno della superficie complessiva, come di consueto avviene per le mansarde, sottostanti ad un tetto spiovente (con conseguente irrilevanza dell’altezza media, attestata dal tecnico di parte); esclude la natura di sottotetto termico, inoltre, l’assenza di precise indicazioni circa esigenze, o specifici impianti tecnologici, tali da giustificare un’altezza massima ed una consistenza volumetrica che – per dato di comune esperienza, ai sensi dell’art. 115 Cod. proc. civ.. – appaiono sproporzionate in rapporto a mere esigenze di protezione dell’edificio sottostante dal caldo, dal freddo e dall’umidità. Non appare priva di rilevanza, peraltro, la segnalata presenza di incannucciata in legno, atta ad occultare o rendere meno evidenti i lavori in corso.

In tale contesto, appare ragionevole ritenere corrette la qualificazione dell’intervento e l’adozione delle conseguenti misure sanzionatorie da parte del Comune di Piano di Sorrento, in quanto restano soggetti alla sanzione demolitoria, di cui all’art. 31 del citato d.P.R. n. 380 del 2001 gli interventi edilizi, la cui consistenza avrebbe richiesto permesso di costruire (ovvero le nuove edificazioni e le ristrutturazioni implicanti modifiche della sagoma degli edifici ed incrementi volumetrici, come definiti e disciplinati dagli articoli 3 e 10 del medesimo d.P.R. n. 380 del 2001).

Nella situazione in esame, l’ordine di demolizione da ultimo emesso è conseguente ad un diniego di sanatoria, oggetto in primo grado di giudizio del ricorso n. 8960, le cui censure vengono reiterate in appello, sotto i profili già sintetizzati nella parte in fatto della presente decisione.

Tali censure risultano infondate, in base alle considerazioni in precedenza esposte, per quanto riguarda la qualificazione delle opere realizzate – non riconducibili a volume tecnico, né a pertinenza – e l’asserito travisamento dei fatti.

Detta qualificazione – nonché, ad abundatiam, la specificazione dei vincoli gravanti sull’area e della relativa disciplina urbanistica, in quanto zona A1 (tessuti storici) e zona territoriale 2 (tutela degli insediamenti antichi accentrati) – costituivano sufficiente motivazione del diniego, mentre non trova riscontro in atti l’omesso preavviso (che nel provvedimento si afferma emesso, quanto meno nei confronti della signora Russo Michela, senza puntuale smentita di controparte).

Sia tale omessa comunicazione (se riferita ai diversi comproprietari), sia la mancata acquisizione del parere della Commissione edilizia, sia l’omessa indicazione del responsabile del procedimento, d’altra parte, non possono ritenersi invalidanti del provvedimento in questione, a norma dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, che esclude l’annullamento per vizi di forma, quando il contenuto dell’atto non avrebbe potuto essere diverso. L’operata – e qui condivisa – qualificazione dell’intervento come nuova costruzione o ristrutturazione in ampliamento, infatti, escludeva in radice la sanabilità di opere, sottoposte a richiesta di regolarizzazione nell’erronea configurazione di“sottotetto termico”, con conseguente natura vincolata del diniego e senza che occorresse, al riguardo, più puntuale motivazione. Infondata appare, a sua volta, la più volte reiterata censura di violazione dell’art. 64 Cod. proc. amm. in quanto – dovendosi porre a fondamento della decisione “i fatti non specificamente contestati” – il giudice di primo grado avrebbe dovuto considerare confermate le rappresentazioni fornite dai ricorrenti, con analogo vizio rilevabile in appello: nel caso di specie, tuttavia, la confutazione di quanto rappresentato dai ricorrenti (ed attuali appellanti) risiede nella maggiore plausibilità delle ragioni comunali – come rappresentate nei provvedimenti impugnati e sorrette da documentazione fotografica – senza che risultino convincenti, in senso contrario, le affermazioni del tecnico di parte e le asserzioni dei diretti interessati, che nel sostenere l’inutilizzabilità ad uso abitativo dei locali di cui trattasi negano quanto reso evidente dalla rappresentazione dei luoghi e dalle caratteristiche oggettive delle opere realizzate.

Esclusa l’illegittimità del diniego di sanatoria, cadono le censure di illegittimità derivata dell’ordine di demolizione n. 179 del 2005, mentre le ulteriori censure – al riguardo contenute nei motivi aggiunti di gravame al ricorso 4861/2005 e nel ricorso n. 460/2006 – risultano già respinte per quanto riguarda la natura delle opere, l’applicabilità degli articoli, 3, 6, 10 e 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 64 Cod. proc. amm., nonché per quanto attiene agli istituti partecipativi, disciplinati dalla legge n. 241 del 1990 (questi ultimi – anche a prescindere dal fatto che nei provvedimenti impugnati se ne attesta l’osservanza – perché comunque non invalidanti ai sensi del ricordato art. 21-octies della stessa legge n. 241).

Ugualmente non invalidante deve ritenersi l’omessa specificazione dell’area da rendere oggetto di acquisizione gratuita, trattandosi di adempimento effettuabile anche in via successiva, con l’unica conseguenza della preclusa acquisizione di diritto alla scadenza del termine di quanto non specificato nell’ordine di demolizione, con possibilità di impugnare per vizi propri, anche sotto il profilo in questione, il successivo atto di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e di acquisizione del bene e dell’area di sedime al patrimonio comunale.

Quanto alla prospettata violazione dell’art. 1 della legge 15 dicembre 2004, n. 308 (peraltro non approfondita nell’atto di appello) non possono che confermarsi le considerazioni già esposte nella sentenza appellata, in quanto i commi 37, 38 e 39 dell’art. 1 della citata legge disciplinano soltanto una forma di condono dei reati a rilevanza paesaggistica, senza escludere la repressione degli abusi edilizi per le diverse finalità di tutela del territorio (Cass. pen., III, 26 ottobre 2005, n. 4495).

Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’appello debba essere respinto, con assorbimento di ogni ragione difensiva non espressamente esaminata; le spese giudiziali, da porre in solido a carico degli appellanti, vengono liquidate nella misura complessiva di €. 2.500,00 (euro duemilacinquecento/00) a favore del Comune di Piano di Sorrento, tenuto conto anche della segnalata violazione del principio di sinteticità dell’appello.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando, respinge il ricorso in appello indicato in epigrafe; condanna la parte appellante al pagamento delle spese giudiziali, nella misura di €. 2.500,00 (euro duemilacinquecento/00) a favore del Comune di Piano di Sorrento.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 novembre 2014 con l'intervento dei magistrati:

Giuseppe Severini, Presidente

Claudio Contessa, Consigliere

Gabriella De Michele, Consigliere, Estensore

Carlo Mosca, Consigliere

Bernhard Lageder, Consigliere

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 21/01/2015

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)