Consiglio di Stato Sez. VI n. 9148 del 23 ottobre 2023
Urbanistica.Ordine di demolizione ed istanza di sanatoria
La legittimità dell’ordine di demolizione va valutata sulla base dei presupposti di fatto e di diritto esistenti al momento dell’emanazione dell’atto impugnato, così che le vicende successive potranno semmai influire sull’adozione degli atti consequenziali o sulla procedibilità del ricorso, ma non incidono sulla decisione di merito. Pertanto, la mera presentazione di una domanda di accertamento di conformità ex art. 36 d.p.r. 380\01 non è in grado di vanificare né di viziare ex post il precedente ordine di demolizione delle opere abusive e quindi neppure può influire direttamente sulla relativa impugnativa in sede giurisdizionale. La presentazione di una istanza di sanatoria ex art. 36 d.p.r. 380/2011 non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso ma determina una mera sospensione dell'efficacia dell'ordine di demolizione con la conseguenza che, in caso di rigetto dell'istanza di sanatoria, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia. Infatti, per i principi di legalità e di tipicità del provvedimento amministrativo e dei suoi effetti, soltanto nei casi previsti dalla legge una successiva iniziativa procedimentale del destinatario dell'atto può essere idonea a determinare ipso iure la cessazione della sua efficacia. Diversamente da quanto previsto in materia di condono, nel caso di istanza di accertamento di conformità non vi è alcuna regola che determini la cessazione dell'efficacia dell'ordine di demolizione i cui effetti sono, quindi, meramente sospesi fino alla definizione del procedimento ex art. 36 d.p.r. n. 380/2001. Dunque l'avvenuta presentazione di un'istanza di accertamento di conformità, quando sia già stato instaurato un procedimento sanzionatorio, concretizzatosi nell'adozione di un'ingiunzione a demolire, fa sì che questa perda efficacia solo temporaneamente, ossia per il tempo strettamente necessario alla definizione, anche solo tacita, del procedimento di sanatoria ordinaria, con la conseguenza che, ove questa non venga accolta, il procedimento sanzionatorio riacquista efficacia senza la necessità, per l'Amministrazione, di riadottare il provvedimento; tale mancato accoglimento non impone, peraltro, la successiva riadozione dell'atto demolitorio, con ciò attribuendo al privato, destinatario dello stesso, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, intrinseco nella mera presentazione di una domanda, finanche pretestuosa, quel medesimo provvedimento
Pubblicato il 23/10/2023
N. 09148/2023REG.PROV.COLL.
N. 08968/2020 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8968 del 2020, proposto da
Donato Ragosta, rappresentato e difeso dall'avvocato Angelo Carbone, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Andrea Abbamonte in Roma, via degli Avignonesi, n. 5;
contro
Comune di San Giuseppe Vesuviano, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Antonio Palazzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Terza) n. 483/2020, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di San Giuseppe Vesuviano;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 ottobre 2023 il Cons. Giovanni Pascuzzi. Nessuno è comparso per le parti costituite;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con ricorso del 2016 il signor Ragosta chiedeva al Tar per la Campania l’annullamento:
- dell’ordinanza di demolizione n. ord. reg. gen. 111 del 01.07.2016 resa dal responsabile p.t. dell'Area Tecnica- Ufficio Urbanistica del Comune di San Giuseppe Vesuviano a mezzo della quale veniva ordinato la demolizione delle opere edilizie eseguite sul fondo alla via Ungaretti, n. 42;
- di ogni atto presupposto connesso e conseguente, per quanto di ragione.
1.1 Il signor Ragosta esponeva di essere proprietario di un appezzamento di terreno riportato in Catasto Terreni al foglio 5 particella n. 169, ubicato in Ambito 2, di pertinenza all'adiacente fabbricato abitato dalla famiglia Ragosta e di aver realizzato su detto suolo talune opere.
Con l’ordinanza impugnata il Comune di San Giuseppe Vesuviano letta «la relazione redatta dal Servizio di Polizia Municipale Prot. 173/P.M.G. del 01/06/2016, prot. 215/P.M.G. del 01/07/2016 e la relazione tecnica redatta dal Servizio Urbanistica Prot. 21648 del 10/06/2016, dalle quali si evince che il signor Ragosta Donato (omissis), senza essere in possesso di alcun titolo autorizzativo, aveva realizzato sull'appezzamento di terreno in via Ungaretti, riportato in Catasto Terreni al Foglio 5 Particella 169, are 35,23 qualità noccioleto, "su una superficie di terreno di mq. 500 circa, la rimozione di alcuni alberi ivi esistenti, uno splateamento del terreno, la costruzione di alcuni muretti per la creazione di aiuole, spargimento di brecciame calcareo di riporto su una parte di superficie, per un presunto cambio di destinazione d'uso, nonché parziale recinzione del fondo con paletti e doghe in legno, parziale pavimentazione del terreno in pietra lavica e realizzazione di piscina prefabbricata interrata su massetto di calcestruzzo per una dimensione di circa 66 mq con cavedio circostante con copertura in telaio in ferro di circa 75mq, predisposizione impianto idrico elettrico"», rilevato «che le opere di cui trattasi risultano abusive in quanto non legittimate da alcun permesso o altro titolo autorizzativo, nè di autorizzazione paesaggistico-ambientale ai sensi dell' art. 146 del. D.Lgs n° 42/04, essendo l'intero territorio del Comune di San Giuseppe Vesuviano sottoposto alla tutela prevista dalla citata normativa, in virtù dei DD.MM. 06/10/61»; visto «che le opere sono situate in area vincolata ai sensi del Decreto Legislativo n. 42/04 (ex 1497/39) e L.R. 21 del 10/12/2003 (Zona Rossa) con successive modificazioni ed integrazioni»; ordinava «LA DEMOLIZIONE delle opere realizzate in assenza di permesso di costruire o altro titolo autorizzativo, che qui si intendono ripetute e trascritte, ed il ripristino dello stato dei luoghi, con spese a carico del responsabile dell'abuso, ai sensi dell'art. 27 del D.P.R. 380/01».
Il ricorrente esponeva che per le opere oggetto di contestazione aveva presentato istanza di accertamento di conformità ex art. 36 e 37 del d.p.r. n. 380/01, assunta la protocollo con n. 36803/2016, nonché richiesta di autorizzazione paesaggistica ex art. 146 d.lgs. n. 42/04, protocollo n. 36802/2016.
1.2 A sostegno dell’impugnativa venivano formulati i seguenti motivi di ricorso:
I. Violazione ed omessa applicazione dell'art. 36, d.p.r. 380/201 difetto di istruttoria - Difetto di motivazione. Violazione del giusto procedimento di legge.
II. Violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli art. 3, 6 e 22 del t.u.e. n. 380/01 - Violazione della l. n. 47/85 - Travisamento dei fatti.
III. Ulteriore violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli art. 3, 6 e 22 del t.u.e. n. 380/01 - Eccesso di potere - Omessa istruttoria.
IV. Violazione ed omessa applicazione dell'art. 37 del t.u. d.p.r. n. 380/01 - Omessa istruttoria - Eccesso di potere - Carenza di interesse pubblico.
V. Violazione della l. n. 42/2004 - Eccesso di potere - Erroneità dei presupposti - Carenza di istruttoria - Mancanza di interesse pubblico.
2. Successivamente alla proposizione del ricorso, in data 20 aprile 2017, gli agenti della Polizia Municipale del Comune di San Giuseppe Vesuviano redigevano verbale di accertamento di inadempienza all’ordine di demolizione dianzi richiamato.
Tale nuovo provvedimento veniva impugnato con ricorso per motivi aggiunti, ovvero:
- Illegittimità derivata - Invalidità dell’accertamento - Carenza di istruttoria – Eccesso di potere.
3. Nel giudizio di primo grado si costituiva il Comune di san Giuseppe Vesuviano sostenendo l’infondatezza del ricorso.
4. Con sentenza n. 483/2020 il Tar per la Campania ha respinto il ricorso.
4.1 Il primo giudice ha respinto il primo motivo di ricorso con il quale si deduceva la violazione dell’art. 36, d.p.r.380/2001, il difetto di istruttoria e di motivazione, nonché la violazione del giusto procedimento di legge in quanto (a dire del ricorrente): non c’era stata un’indagine tesa a stabilire l'eventuale sanabilità dei lavori; gli interventi erano conformi agli strumenti urbanistici vigenti; prima di adottare provvedimenti repressivi la P.A. avrebbe dovuto pronunciarsi sull’istanza di accertamento della conformità.
Secondo il Tar:
- l’Amministrazione non aveva l’obbligo di accertare d’ufficio la conformità urbanistica dell’intervento prima di emanare il provvedimento repressivo e la parte ricorrente non aveva fornito la prova della c.d. doppia conformità urbanistica dell’intervento abusivo, sia al momento della realizzazione dello stesso, che al momento della presentazione dell’istanza per la sua sanatoria;
- l’istanza di accertamento di conformità ex art. 36, d.p.r. 380 del 2001 presentata successivamente alla emanazione dell’ordine di demolizione non pregiudica la validità e l’efficacia del predetto ordine;
- la presentazione della domanda di permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001 non influisce sul provvedimento emanato, né (essendo successiva allo stesso) determina l’improduttività di effetti di quest’ultimo; ciò in quanto, decorso il termine di sessanta giorni, la legge espressamente vi riconnette il prodursi di un effetto di rigetto, che è onere della parte impugnare, senza poter addurre che dalla mera presentazione dell’istanza discenda la paralisi degli effetti del provvedimento sanzionatorio (la cui esecuzione resta solo temporaneamente sospesa, sino alla scadenza del termine suddetto);
- nella fattispecie in esame, successivamente alla notifica dell’impugnata ordinanza di demolizione risultava presentata l’istanza di sanatoria ex art. 36, d.p.r. n. 380 del 2001 prot. 36803/2003 e decorsi sessanta giorni dalla presentazione della stessa senza l’emanazione di alcun provvedimento espresso, si è formato il silenzio rifiuto, senza che, però risulti impugnato, con la conseguenza che l’impugnata ordinanza di demolizione si è consolidata riprendendo piena efficacia.
4.2 Il primo giudice ha respinto la seconda censura con la quale si deduceva la violazione di legge (artt. 3, 6 e 22 del t.u.e. n. 380/2001; l. 47/1985), nonché il travisamento dei fatti, non ricorrendo i presupposti per la demolizione relativamente alle opere di giardinaggio e sistemazione a verde di un terreno incolto, per i quali, al più, occorreva la produzione di una d.i.a. ai sensi dell’art. 22 del t.u.e. 380/01: a dire del ricorrente le opere ricadrebbero nella categoria di opere pertinenziali al servizio dell'edificio principale e potrebbero farsi rientrare nella categoria della libera attività edilizia di cui all'art. 6 del d.p.r. n. 380/01, con la conseguenza che, in caso di mancanza della prescritta autorizzazione, potrebbe essere inflitta unicamente la sanzione pecuniaria di cui all'art. 10 della l. n. 47/85, oggi art. 37 del t.u.e.
Secondo il Tar:
- parte ricorrente non aveva comprovato la sussistenza degli elementi costituivi dell’invocato rapporto pertinenziale;
- come correttamente valutato nel corso dell’istruttoria esperita, erano stati realizzati nuovi volumi e superfici, da ricondurre agli “interventi di nuova costruzione”, ex art. 3, co. 1, lett. e), d.p.r. n.380/2001, necessariamente implicanti una trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio (peraltro in zona vincolata), come tale da richiedere ai sensi del successivo art. 10, il rilascio del permesso di costruire in mancanza del quale, la sanzione è sempre quella demolitoria ex art. 31;
- le opere in questione non assolvevano una finalità di semplice decoro o arredo o di riparo e protezione dagli agenti atmosferici, sì da potersi qualificare “pertinenze urbanistiche” che è nozione molto più ristretta di quella dettata dal diritto civile;
- la piscina, per il suo impatto, necessitava di concessione edilizia;
- non era vero che gli interventi erano mirati esclusivamente al recupero ed alla valorizzazione dell’area: i lavori eseguiti non erano urbanisticamente indifferenti, dovendosi, altresì, tener conto che, nella fattispecie, la riduzione in pristino dello stato dei luoghi è stata ordinata ai sensi dell’art. 27, d.p.r. 380/2001, stante la presenza dei numerosi vincoli che interessano il Comune di San Giuseppe Vesuviano e la specifica area di afferenza dell’abuso, così come dettagliatamente indicato nelle ordinanze impugnate, per modo che gli interventi abusivi realizzati non risultano assentiti da alcun titolo edilizio, tanto meno da una mera D.I.A.;
- con riferimento ad opera abusiva eseguita in assenza di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica in aree vincolate, la giurisprudenza ha elaborato un principio di indifferenza del titolo necessario all’esecuzione di interventi in zone vincolate, affermando la legittimità dell’esercizio del potere repressivo in ogni caso.
4.3 Il primo giudice ha respinto il terzo motivo di ricorso con il quale si deduceva ulteriore violazione del combinato disposto degli artt. 3, 6 e 22 del t.u.e. n. 380/01, oltre all’eccesso di potere per omessa istruttoria, sottolineandosi che la recinzione di un fondo con pali di legno installati direttamente nel terreno, come nel caso che ci occupa, andava individuata in quella che il d.p.r. n. 380/01 qualifica come "attività edilizia libera".
Secondo il Tar:
- gli interventi non erano suscettibili di una considerazione analitica ed atomistica ma dovevano necessariamente inquadrarsi in maniera complessiva tale da imporre una visione d’insieme dell’illecito (sistemazione di una vasta area di terreno di circa 500 mt.) che si incentra attorno all’elemento principale costituito dalla realizzazione della piscina;
- non potevano essere considerati singolarmente la parziale recinzione del fondo, la costruzione di alcuni muretti per la creazione di aiuole, lo spargimento di brecciame calcareo di riporto su una parte di superficie, per un presunto cambio di destinazione d'uso, parziale pavimentazione del terreno in pietra lavica.
4.4 Il primo giudice ha respinto la quarta censura con la quale si deduceva la violazione dell’art. 37 del d.p.r. n. 380/01 e l’eccesso di potere (per omessa istruttoria e carenza di interesse pubblico): si sosteneva che è illegittimo qualsiasi provvedimento ripristinatorio, se prima non sia stata evasa l'eventuale istanza diretta ad ottenere la sanatoria.
Secondo il Tar:
- la valutazione circa la possibilità di dar corso o meno alla misura ripristinatoria e la conseguente scelta tra demolizione d’ufficio ed irrogazione della sanzione pecuniaria costituisce un’eventualità della fase esecutiva, successiva alla disposta ingiunzione.
4.5 Il primo giudice ha respinto la quinta censura con la quale si deduceva la violazione del d.lgs. n. 42/2004, nonché l’eccesso di potere (per erroneità dei presupposti, carenza di istruttoria mancanza di interesse pubblico), per difetto di istruttoria e omessa indicazione delle ragioni concrete di pubblico interesse ostative alla permanenza delle strutture.
Secondo il Tar:
- i provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali;
- ai fini dell’adozione dell’ordine di demolizione è sufficiente la mera enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto che consentono l’individuazione della fattispecie di illecito e dell’applicazione della corrispondente misura sanzionatoria prevista dalla legge;
- la tesi che nega che possa avere impatto negativo sull'assetto paesaggistico circostante la portata specifica della consistenza e della natura delle opere realizzate, non tiene conto che, in ragione della funzione di tutela preventiva dei valori anche di rilievo costituzionale, apprestata dal vincolo paesaggistico-ambientale, arbitraria sarebbe ogni indagine sull’idoneità dell’opera contestata ad incidere in concreto sull’assetto paesaggistico circostante.
4.6 Il primo giudice ha infine rilevato che l’atto impugnato con ricorso per motivi aggiunti si configura quale atto meramente consequenziale all’ordinanza di demolizione dei lavori abusivi - impugnato con ricorso introduttivo - e della quale ne è stata accertata la mancata ottemperanza, privo di portata provvedimentale ed in relazione al quale l’impugnativa andava ritenuta inammissibile.
5. Avverso la sentenza del Tar per la Campania n. 483/2020 ha proposto appello il signor Ragosta per i motivi che saranno più avanti esaminati.
6. Si è costituito in giudizio il Comune di San Giuseppe Vesuviano chiedendo il rigetto dell’appello.
7. All’udienza del 5 ottobre 2023 l’appello è stato trattenuto per la decisione.
DIRITTO
1. Con il primo motivo di appello si lamenta: Error in iudicando ed error in procedendo. Erronea valutazione in ordine all’infondatezza delle censure proposte con il ricorso introduttivo ed in particolare in ordine alla violazione dell’art. 36 del d.p.r. 380/01 - Eccesso di potere per manifesta illogicità ed ingiustizia, difetto di motivazione e di istruttoria - Violazione dell’art. 97 Cost.
Si sostiene che:
- il primo giudice non ha considerato l’esistenza di un diverso orientamento giurisprudenziale, più sensibile alle esigenze del privato, secondo cui la presentazione di una istanza di accertamento di conformità ex art. 36 d.p.r. 380/01 produce l’effetto di rendere inefficace il provvedimento emanato e, quindi, improcedibile l’impugnazione della stessa per sopravvenuta carenza di interesse alla decisione;
- la possibilità di presentare tale istanza, sia prima che dopo la notifica dell’ordinanza di demolizione e comunque entro i termini fissati per l’esecuzione dell’ordine di ripristino dei luoghi, era già prevista dall’art. 13 della legge n. 47 del 1985 ed è stata poi confermata dall’art. 36 del testo unico vigente approvato con il d.p.r. 380 del 2001;
- l’eventualità di una pendenza di un siffatto procedimento di sanatoria rappresenta una situazione giuridica sin da sempre presa in considerazione dalle norme, che tuttavia non delinea il rapporto (di presupposizione o di reciproco condizionamento, ovvero di autonomia) esistente tra il procedimento aperto con la domanda di accertamento di conformità e il procedimento repressivo degli abusi (che metta capo all’ordinanza di demolizione);
- nel solo ambito della disciplina del condono edilizio, la questione è stata pacificamente risolta dagli artt. 38 e 44 della l. 47/85 che prevedono, in attesa della definizione della domanda di condono, la sospensione ex lege dei procedimenti sanzionatori;
- nella disciplina dell’accertamento di conformità, invece, manca una norma in tal senso e pertanto, non è chiaro quale sia la sorte del provvedimento repressivo una volta che la domanda di accertamento di conformità ex art. 36 d.p.r. 380/01 sia stata presentata;
- proprio tale mancanza ha costituito terreno fertile per il definirsi, in giurisprudenza, di posizioni diverse;
- in contrasto con quella condivisa dal Tar per la Campania, si è, infatti, fatta spazio anche la posizione secondo cui la presentazione dell'istanza di accertamento di conformità, al pari della presentazione della istanza di condono, produce l’effetto di rendere inefficace l'ordinanza di demolizione delle opere abusive e ciò perché è lo stesso procedimento che scaturisce dall’esame di ambedue le istanze a imporre “il riesame dell’abusività dell’opera”;
- di conseguenza, in caso di rigetto dell’istanza, l'Amministrazione ha l’onere di rieditare il proprio provvedimento sanzionatorio, assegnando al ricorrente un nuovo termine per la sua spontanea esecuzione;
- l'esito, sotto il profilo procedurale, è l’improcedibilità del ricorso per carenza di interesse in quanto, essendo l’atto impugnato divenuto inefficace a seguito della presentazione dell'istanza di sanatoria, non è più idoneo a ledere l'interesse di parte ricorrente;
- tale posizione giurisprudenziale ha dalla sua il silenzio del legislatore in ordine agli effetti della presentazione della istanza e la circostanza che una sospensione imposta automaticamente ex lege è rinvenibile solo in seno alla legislazione dei condoni straordinari di cui agli articoli artt. 38 e 44 della l. n. 47/1985;
- al tempo stesso pare del tutto ragionevole sostenere che vi è differenza tra un provvedimento (quello sanzionatorio) adottato - sulla scorta dell'impostazione data dal legislatore del 1977 - per il mero dato formale dell'assenza di titolo e un provvedimento (quello di sanatoria, che "il responsabile dell’abuso, o l’attuale proprietario dell’immobile, possono ottenere") basato sulla corrispondenza sostanziale dell'intervento alla normativa vigente;
- non pare giustificabile il fatto che la differente collocazione dell'abuso edilizio sul territorio nazionale possa determinare un esito giurisdizionale diverso a causa dell’attribuzione del giudizio al Tar territorialmente competente piuttosto che ad un altro;
- in disparte le diverse posizioni dei giudici amministrativi la fattispecie verificatasi nella vicenda di causa non è affatto quella che il Tar territorialmente competente ha creduto d’identificare per cui, inevitabilmente, si deve provvedere alla riforma della sentenza n. 483/2020, considerando ormai priva di effetti l’ordinanza di demolizione impugnata, nonché, alla luce del principio dell’illegittimità derivata, della eventuale e successiva ordinanza di acquisizione.
1.1 Il motivo è infondato.
L’art. 36 t.u.e. prevede l’ipotesi di silenzio significativo con valore di rigetto trascorsi 60 gg. dalla presentazione della domanda. Questo Consiglio di Stato ha rilevato che tale termine ha natura decadenziale ed ha ritenuto che non sono configurabili ipotesi di interruzione che valgano ad incidere sul decorso di detto termine per la proposizione della relativa impugnativa, anche come conseguenza delle integrazioni della domanda originaria e richieste da parte della P.A. pur riconoscendole la possibilità di adottare il provvedimento anche oltre il termine.
La giurisprudenza formatasi al riguardo, ha perciò sostenuto che la legittimità dell’ordine di demolizione va valutata sulla base dei presupposti di fatto e di diritto esistenti al momento dell’emanazione dell’atto impugnato, così che le vicende successive potranno semmai influire sull’adozione degli atti consequenziali o sulla procedibilità del ricorso, ma non incidono sulla decisione di merito.
Pertanto, la mera presentazione di una domanda di accertamento di conformità ex art. 36 d.p.r. 380\01 non è in grado di vanificare né di viziare ex post il precedente ordine di demolizione delle opere abusive e quindi neppure può influire direttamente sulla relativa impugnativa in sede giurisdizionale.
Al riguardo, deve trovare applicazione l’indirizzo giurisprudenziale in forza del quale la presentazione di una istanza di sanatoria ex art. 36 d.p.r. 380/2011 non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso ma determina una mera sospensione dell'efficacia dell'ordine di demolizione con la conseguenza che, in caso di rigetto dell'istanza di sanatoria, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 27 settembre 2022, n. 8320). Infatti, per i principi di legalità e di tipicità del provvedimento amministrativo e dei suoi effetti, soltanto nei casi previsti dalla legge una successiva iniziativa procedimentale del destinatario dell'atto può essere idonea a determinare ipso iure la cessazione della sua efficacia. Diversamente da quanto previsto in materia di condono, nel caso di istanza di accertamento di conformità non vi è alcuna regola che determini la cessazione dell'efficacia dell'ordine di demolizione i cui effetti sono, quindi, meramente sospesi fino alla definizione del procedimento ex art. 36 d.p.r. n. 380/2001 (Cons. Stato, Sez. VI, 25 ottobre 2022, n. 9070).
Dunque l'avvenuta presentazione di un'istanza di accertamento di conformità, quando sia già stato instaurato un procedimento sanzionatorio, concretizzatosi nell'adozione di un'ingiunzione a demolire, fa sì che questa perda efficacia solo temporaneamente, ossia per il tempo strettamente necessario alla definizione, anche solo tacita, del procedimento di sanatoria ordinaria, con la conseguenza che, ove questa non venga accolta, il procedimento sanzionatorio riacquista efficacia senza la necessità, per l'Amministrazione, di riadottare il provvedimento; tale mancato accoglimento non impone, peraltro, la successiva riadozione dell'atto demolitorio, con ciò attribuendo al privato, destinatario dello stesso, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, intrinseco nella mera presentazione di una domanda, finanche pretestuosa, quel medesimo provvedimento (Cons. Stato, sez. II, 06/05/2021, n. 3545).
1.1.2 Mette conto notare che il primo giudice nel rigettare il primo motivo di ricorso (ripreso nella sostanza nel primo motivo di appello) ha affermato che non risulta che “parte ricorrente (come era suo onere) abbia fornito la prova della c.d. doppia conformità urbanistica dell’intervento abusivo, sia al momento della realizzazione dello stesso, che al momento della presentazione dell’istanza per la sua sanatoria”.
Avverso siffatta affermazione nessun rilievo è mosso nell’atto d’appello. Il motivo di appello, pertanto, è ai limiti della inammissibilità.
2. Con il secondo motivo di appello si lamenta: Error in iudicando ed error in procedendo. Erronea valutazione in ordine all’infondatezza delle censure proposte con il ricorso introduttivo ed in particolare anche in ordine alla violazione del d.lgs. 42/2004 - Eccesso di potere per erroneità dei presupposti, carenza di istruttoria e di interesse pubblico.
Si sostiene che:
- non è condivisibile l’asserzione del giudice di prime cure, in merito alla quarta e quinta censura, secondo cui, come avviene per l’istanza di accertamento di conformità ex art. 36, d.p.r. 380/2001, anche in caso di produzione di istanza per autorizzazione paesaggistica ex art. 146, d.lgs. 42/2004, l’Amministrazione può adottare un provvedimento ripristinatorio allorquando si sia formato il silenzio rifiuto sulla predetta istanza;
- il medesimo effetto di inefficacia si produce anche nell'ipotesi in cui sia presentata un'istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi del d.lgs. 42 del 2004, atteso che "anche in tal caso l'Amministrazione è tenuta a verificare la conformità sostanziale delle opere realizzate rispetto alle ragioni di tutela del vincolo";
- ciò confermerebbe il prospettato esito dell’improcedibilità del ricorso per carenza di interesse anche sotto altro profilo, avendo l’appellante presentato al Comune di San Giuseppe Vesuviano, in data 3 ottobre 2016, una siffatta istanza con prot.n. 36802/2016;
- si tratta di opere di scarso rilievo, sia singolarmente che complessivamente considerate, che non creano alcun ostacolo alla visualità ed alla luminosità dei fabbricati circostanti, anche in considerazione della distanza dagli stessi e che pertanto non hanno un impatto negativo sull’assetto paesaggistico-ambientale circostante;
- non è chiaro perché in primo grado non sia stata rilevata l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio anche nella parte in cui si fonda sul richiamo ai vincoli che gravano sull’area interessata senza essere, tuttavia, accompagnato da una congrua motivazione atta a chiarire quale irrimediabile compromissione delle esigenze di tutela dell’interesse pubblico deriverebbe dal mantenimento in vita delle opere realizzate dall’appellante;
- la giurisprudenza è costante nel ritenere che l’imposizione di un tale vincolo non sottopone ad alcun regime di inedificabilità assoluta in quanto una eventuale modifica dello stato dei luoghi non arreca un pregiudizio in re ipsa, ma impone soltanto che la sua eventuale idoneità offensiva sul piano estetico debba essere preventivamente valutata dall’Autorità che presiede al vincolo stesso;
- l’art. 167 dello stesso d. lgs. 42/04, nel prevedere che, in caso di accertamento di compatibilità paesaggistica di opere realizzate sine titulo in area soggetta a vincolo, l’Amministrazione competente possa disporre il pagamento a carico del responsabile dell’abuso di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione, ammette implicitamente la possibilità di evitare la demolizione delle opere;
- riguardo la pretesa applicabilità della sanzione pecuniaria, comunque, il giudice di prime cure fa rilevare che la valutazione circa la possibilità di dar corso o meno alla misura ripristinatoria e la conseguente scelta tra demolizione d’ufficio ed irrogazione della sanzione pecuniaria costituisce solo un’eventualità della fase esecutiva, successiva alla disposta ingiunzione; questa valutazione va necessariamente fatta ex ante e non ex post.
2.1 Il motivo è infondato.
Secondo consolidato orientamento, il silenzio della P.A. sulla richiesta di concessione in sanatoria e sulla istanza di accertamento di conformità, di cui all'art. 36 t.u.e., ha un valore legale tipico di rigetto, costituisce cioè una ipotesi di silenzio significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego; la natura provvedimentale è anche confermata dall'articolo stesso, secondo cui sulla richiesta di sanatoria si pronuncia il dirigente o il responsabile entro sessanta giorni, decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata; è anche evidente che l'inutile decorso del predetto termine comporta la reiezione della domanda de qua e quindi si produce un vero e proprio provvedimento tacito di rigetto. Il silenzio serbato dal Comune sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica quindi non ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto, con la conseguenza che, una volta decorso il relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere; ciò comporta altresì il permanere della facoltà di provvedere espressamente, nella specie esercitata ragionevolmente, anche a fronte del supplemento istruttorio svolto dall’Amministrazione (Cons. Stato, sez. VI, 15/03/2023, n. 2704).
Sul solco di queste considerazioni, correttamente il primo giudice ha ribadito che, come avviene per l’istanza di accertamento di conformità ex art.36, d.p.r. 380/2001, anche ai sensi del successivo art. 37, d.p.r. 380 2001 in caso di produzione di istanza per autorizzazione paesaggistica ex art. 146, d.lgs. 42/2004, l’Amministrazione può adottare un provvedimento ripristinatorio, allorquando si sia formato il silenzio rifiuto sulla predetta istanza.
2.1.1 Non possono essere condivise le considerazioni che l’appellante fa discendere dall’asserito scarso rilievo delle opere abusive in questione.
Occorre preliminarmente ricordare che l'autorizzazione paesaggistica ed il titolo edilizio si giustappongono ed i rispettivi apprezzamenti rispondo ad interessi pubblici distinti e tipizzati: l'uno valuta, in forza d'apprezzamento tecnico discrezionale, la compatibilità paesaggistica dell'intervento edilizio proposto, mentre l'altro, con autonoma e specifica istruttoria, accerta la conformità urbanistico-edilizia del manufatto (Cons. Stato, sez. VI, 20/01/2023, n. 682).
Alla luce di tale principio, la giurisprudenza ha chiarito che le opere edilizie abusive, anche qualora abbiano natura pertinenziale o precaria e siano assentibili con mera D.I.A. o S.C.I.A., qualora siano realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, debbono considerarsi comunque eseguite in totale difformità dalla concessione, nel caso in cui non sia stata ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesaggistica (Cons. Stato, sez. VI, 21/02/2023, n. 1766).
Questo perché mentre ai fini edilizi un volume per le sue caratteristiche può anche non essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili, viceversa ai fini paesaggistici un volume può assumere comunque una sua rilevanza e determinare una possibile alterazione dello stato dei luoghi che le norme di tutela vogliono impedire.
La giurisprudenza consolidata ha ritenuto che le opere realizzate sull'area sottoposta a vincolo, anche se trattasi di volumi tecnici ed anche se si tratta di eventuali pertinenze, hanno una indubbia rilevanza paesaggistica, poiché le esigenze di tutela dell'area sottoposta a vincolo paesaggistico, da sottoporre alla previa valutazione degli organi competenti, possono anche esigere l'immodificabilità dello stato dei luoghi, ovvero precluderne una ulteriore modifica. Ne deriva il principio secondo il quale le opere abusive, anche qualora abbiano natura pertinenziale o precaria, come si assume nella specie, e, quindi, siano assentibili con mera D.I.A./S.C.I.A., se realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, devono considerarsi comunque eseguite in totale difformità dalla concessione, o dalla D.I.A., laddove non sia stata ottenuta alcuna preventiva autorizzazione paesaggistica e, conseguentemente, è doveroso da parte dell'Amministrazione applicare la sanzione demolitoria (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 09/05/2023, n.4667).
Come ribadito da Cons. Stato, sez. VI, 16/08/2023, n.7773, in caso di vincolo paesaggistico qualsiasi intervento idoneo ad alterare il pregresso stato dei luoghi, come quelli di specie, deve essere preceduto da autorizzazione paesaggistica e, in sua assenza, è soggetto ad ordinanza demolitoria. Inoltre, in tali casi è sufficiente che si tratti di opere realizzabili anche mediante D.I.A., atteso che l'art. 32, comma 3, d.p.r. 6 giugno 2002, n. 380 impone di adottare un provvedimento di demolizione per tutte le opere che siano, comunque, costruite senza titolo in aree sottoposte a vincolo paesistico, pur se qualificabili non come nuove costruzioni ma come variazioni essenziali di manufatti preesistenti. Si è infatti, in più occasioni, precisato che le opere in aree assoggettate a vincolo paesaggistico, comportanti la realizzazione di nuove superfici e nuova volumetria, non possono essere condonate (Cons. Stato, Sez. VI, 9 maggio 2023 n. 4663). Infatti, per le opere abusive eseguite in assenza di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica in aree vincolate, vige un principio di indifferenza del titolo necessario all'esecuzione di interventi in dette zone, essendo legittimo l'esercizio del potere repressivo in ogni caso, a prescindere, appunto, dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l'intervento edilizio nella zona vincolata (D.I.A. o permesso di costruire); ciò che rileva, ai fini dell'irrogazione della sanzione ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in zona vincolata e in assoluta carenza di titolo abilitativo, sia sotto il profilo paesaggistico che urbanistico.
2.1.2 Quanto alla contestata omessa valutazione della sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione, occorre innanzitutto ricordare che per costante affermazione giurisprudenziale l'attività di repressione degli abusi edilizi non è attività discrezionale, ma del tutto vincolata; ne consegue che l'ordinanza di demolizione ha natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, dove la repressione dell'abuso corrisponde per definizione all'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato, con la conseguenza che essa è già dotata di un'adeguata e sufficiente motivazione, consistente nella descrizione delle opere abusive e nella constatazione della loro abusività (cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 17/03/2022, n.1953).
La legittimità dell'ingiunzione demolitoria richiede l'affermazione della accertata abusività dell'opera attraverso la descrizione delle opere, la constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo e l'individuazione della norma applicata, esulando ogni altra indicazione dal contenuto tipico del provvedimento.
Inoltre, solo in caso di interventi eseguiti in parziale difformità, la sanzione pecuniaria può costituire una deroga alla regola generale della demolizione negli illeciti edilizi e peraltro la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria deve essere valutata dall'amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 3 febbraio 2021 n. 995).
Conclusivamente, l'ordinanza di demolizione impugnata è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire, non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale.
3. Con il terzo motivo di appello si lamenta: Error in procedendo ed error in iudicando - Difetto di motivazione della sentenza n. 483/2020 del Tar Campania in ordine alle censure relative alle singole fattispecie di abusi dettagliate nell’ordinanza di demolizione n. 111/2016 – Travisamento ed erronea valutazione dei fatti.
Si sostiene che:
- relativamente alla piscina prefabbricata non è chiaro perché non sia stata considerata quale intervento di nuova costruzione di cui alla lett. e.6) dell’art. 3 del d.p.r. 380/01 ossia quale intervento pertinenziale rispetto all’edificio principale a sua volta realizzato in virtù di regolare titolo edilizio secondo cui è necessaria l’acquisizione del permesso di costruire ex art. 10, comma 1, lett. a), solo quando le opere comportano la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell’edificio principale;
- il primo giudice non ha né appurato le sue modeste dimensioni e la sua conseguente inidoneità ad alterare l’assetto del territorio, né l’esistenza di un orientamento oramai consolidato secondo cui “alla piscina va riconosciuta la natura di pertinenza, quando si tratti di un'opera che, pur avendo una propria individualità fisica e strutturale, sia preordinata funzionalmente al servizio dell'edificio principale legittimamente edificato e priva di un autonomo valore di mercato, non valutabile in termini di cubatura o comunque dotata di un volume minimo (non superiore, in ogni caso, al 20% di quello dell'edificio principale) tale da non consentire una sua diversa destinazione”;
- per quanto riguarda le altre fattispecie di abusi dettagliati nell’ordinanza n. 111/2016, invece, non è condivisibile l’incedere argomentativo seguito dal Giudice di prime cure in quanto non sussiste alcun motivo, giuridicamente supportato, tale da escluderne una considerazione atomistica ed avulsa dal contesto circostante;
- fermo restando infatti l’”abuso principale” effettivamente costituito dalla realizzazione della piscina, le altre fattispecie di abusi sono degne, singolarmente, di essere oggetto di autonoma valutazione nonché di congrua motivazione da parte del giudice a prescindere dalla sorte in termini di legittimità/illegittimità del primo. Non è infatti ammissibile che le stesse debbano essere inquadrate in maniera complessiva tale da imporre una visione d’insieme dell’illecito;
- per le altre opere assunte dal Comune di San Giuseppe Vesuviano come abusive quali “la costruzione di alcuni muretti per la creazione di aiuole, spargimento di brecciame calcareo di riporto su una parte di superficie nonché parziale recinzione del fondo con paletti e doghe in legno”, il Tar, non valutando singolarmente e degnamente le singole fattispecie di abusi e rifacendosi piuttosto a precedenti giurisprudenziali assolutamente inconferenti, non si è ravveduto del fatto che trattasi sic et simpliciter di arredo delle aree pertinenziali degli edifici;
- la previsione di cui alla lett. e) del modificato secondo comma dell’art. 6 del d.p.r. 380/01 ha liberalizzato la realizzazione degli arredi comuni degli edifici privati e delle aree ludiche pertinenziali (pur trattandosi di interventi che non possono definirsi propriamente “opere minori” specialmente nei complessi edificativi di grande consistenza);
- per quanto riguarda “la creazione delle aiuole” piantumate con fiori e piante, per le descritte caratteristiche che le contraddistinguono, non possono essere equiparate a manufatti che necessitano del permesso di costruire per la loro realizzazione, configurandosi piuttosto come mere pertinenze, “preordinate ad una oggettiva esigenza dell’area a cui accedono, funzionalmente inserite al servizio della stessa, nonché sfornite di un autonomo valore di mercato e caratterizzate dall’assenza di volume”;
- in relazione allo “spargimento di brecciame calcareo di riporto su una parte di superficie, per un presunto cambio di destinazione d’uso, nonché alla parziale pavimentazione del terreno in pietra lavica”, va precisato che, ai sensi dell’art. 6, primo comma, lett. e-ter) del d.p.r. n. 380/2001, sono libere “le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta, che siano contenute entro l’indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati”;
- l’aver cosparso il terreno di materiali di risulta, o di brecciame come nel caso di specie, rientra sempre tra le attività edilizie libere ai sensi del predetto art. 6 d.p.r. n. 380/2001. Tale attività è anche meno invasiva della stessa pavimentazione, trattandosi di un tipo di intervento che consente un più agevole ripristino del terreno. Solo il superamento dell’indice di permeabilità -di cui il provvedimento sanzionatorio non fa menzione- a determinare la necessità di un titolo abilitativo per interventi di questo tipo, che altrimenti rientrano tra le attività edilizie libere;
- circa la “parziale recinzione del fondo con paletti e doghe in legno” la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che soltanto la realizzazione di una recinzione che presenti un elevato impatto urbanistico debba essere preceduta da provvedimento concessorio da parte dell’Amministrazione comunale. Atto che non risulta necessario però in presenza di una trasformazione come quella realizzata dall’appellante che per l’utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni dell’intervento, non comporti un’apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale. A tal proposito, è indispensabile richiamare la distinzione tra esercizio dello jus aedificandi e dello jus excludendi alios che va rintracciata nella verifica concreta delle caratteristiche del manufatto;
- la modesta recinzione de quo, siccome caratterizzata dalla finalità di azionare lo ius excludendi omnes alios e non anche lo ius aedificandi, non poteva essere sanzionata con l’ingiunzione di demolizione ex art. 27 d.p.r. 380/01, bensì solo ed esclusivamente con una sanzione pecuniaria.
L’appellante, quindi, rimette al Collegio una considerazione analitica delle singole fattispecie di abusi dettagliate all’interno dell’ordinanza di demolizione, le quali sono degne di essere oggetto ognuna di autonoma valutazione nonché di congrua motivazione a prescindere dall’abuso principale in quanto non è ammissibile che le stesse debbano essere inquadrate in maniera complessiva tale da imporre una visione d’insieme dell’illecito realizzato dall’appellante.
3.1 Il motivo è infondato.
L’appellante ripropone le doglianze sottoposte all’esame del giudice di prime cure, ritenendo che la valutazione edilizia degli interventi contestati debba essere riferita alle singole opere edilizie e non già al complesso degli interventi abusivi realizzati sul fondo.
Sul punto la giurisprudenza ha ripetutamente affermato che al fine di valutare l'incidenza sull'assetto del territorio di un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere, occorre compiere una valutazione globale delle opere medesime, mentre non possono essere presi in considerazione i singoli interventi in modo “atomistico”, come se fossero del tutto slegati l’uno dall’altro. I vari interventi eseguiti non vanno considerati in maniera frazionata, ma devono essere valutati nel loro quadro di insieme, mettendo in luce il nesso funzionale che li lega e, dunque, l'effettiva portata dell'operazione.
A titolo di esempio si può citare Cons. Stato, sez. VI, 21/02/2023, n. 1766: in caso di abuso edilizio, onde valutare l'incidenza sull'assetto del territorio di un intervento edilizio, consistente in una pluralità di opere, deve essere compiuto un apprezzamento globale, atteso che la considerazione atomistica di ciascun intervento non consente di comprenderne in modo adeguato l'impatto complessivo effettivo.
Pertanto, correttamente il giudice di primo grado ha ritenuto che gli interventi sanzionati con l’impugnata ordinanza di demolizione, non sono suscettibili di una considerazione analitica ed atomistica ma devono necessariamente inquadrarsi in maniera complessiva tale da imporre una visione d’insieme dell’illecito.
Nella specie i singoli abusi (elencati in narrativa) miravano nel complesso alla sistemazione di una vasta area di terreno di circa 500 mt. con la realizzazione di un’opera principale, rappresentata della piscina, cui accedono una serie di abusi minori (aiuole, pavimentazione e recinzione del fondo).
Le opere sono coordinate tra loro e nell’insieme integrano certamente la nozione di abuso.
Peraltro anche molte delle opere in sé considerate richiedevano il rilascio del permesso di costruire.
3.1.1 L’abuso più impattante è rappresentato dalla realizzazione di una piscina prefabbricata di circa 74 mq, con relativa copertura in ferro. La giurisprudenza amministrativa ha avuto occasione di affermare che la piscina comporta, in ogni caso, una durevole trasformazione del territorio. Né rileva, nel caso in esame, la natura assoluta o relativa del vincolo, in quanto nelle aree sottoposte a vincoli paesaggistico come quella in esame, la realizzazione di una piscina va qualificata come nuova costruzione che modifica irreversibilmente lo stato dei luoghi (come anche visibile dall’alto), sicché – ferma restando la valutazione discrezionale dell’autorità paesaggistica sulla sua fattibilità, qualora vi sia soltanto un vincolo ‘relativo’ – essa è radicalmente vietata quando una disposizione normativa o un provvedimento volto alla tutela del paesaggio considera l’area in questione come sottoposta a “protezione integrale”.(Cons. Stato, sent. n. 1316/2013).
Cons. Stato, sez. IV, 08/01/2016, n. 35 ha affermato che una piscina è una struttura di tipo edilizio che incide invasivamente sul sito in cui viene realizzata, con la conseguenza che per la sua realizzazione occorre munirsi del relativo titolo ad aedificandum.
3.1.2 Non diverso discorso deve farsi per lo spargimento di brecciame calcareo di riporto su una parte di superficie. Come chiarito da Cons. Stato, sez. II, 01/07/2019, n. 4475, l'attività di pavimentazione e spargimento di ghiaia sul terreno deve essere autorizzata dal Comune, in quanto trattasi di attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, pur consistendo solo nella modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo, qualora appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d'uso.
3.1.3 Anche la recinzione necessita di permesso quando, come nel caso di specie, non è di modesta entità (Cons. Stato, sez. V, 09/04/2013, n. 1922).
3.1.4 Quanto alle ulteriori opere abusive realizzate dall’appellante sul terreno di proprietà in assenza di alcun titolo abilitativo, non può essere sostenuta la natura pertinenziale delle stesse.
Come ribadito da Cons. Stato, sez. VI, 14/03/2023, n. 2660, la nozione di pertinenza, sul piano urbanistico-edilizio, è limitata ai soli interventi accessori di modesta entità e privi di autonoma funzionale, mentre è inconferente l' art. 3, comma 1, lett. e.6), d.p.r. n. 380/2001 (secondo cui rientrano tra gli interventi di nuova costruzione anche “gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale”), in quanto tale previsione non pone, essa stessa, la definizione di pertinenza, bensì la presuppone, ragione per cui la nozione di pertinenza, ai fini urbanistici, deve essere tratta aliunde, e deve rispettare le caratteristiche individuate dalla giurisprudenza.
Il concetto di pertinenza, ai fini urbanistici ed edilizi, ha un significato del tutto diverso rispetto alla nozione civilistica e si fonda sulla assenza di un'autonoma destinazione del manufatto pertinenziale, sull'incidenza sul carico urbanistico e sulla modifica all'assetto del territorio (Cons. Stato, sez. VI, 27/02/2023, n. 1994).
La giurisprudenza di questo Consiglio ha più volte ribadito (ex plurimis, Cons. Stato, Sez. II, 24 novembre 2020, n. 7348) che la natura di pertinenza può essere riconosciuta, ai fini edilizi, in presenza di un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, nesso tale da consentire esclusivamente la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, il quale emerge se l'opera pertinenziale ha una dimensione ridotta e modesta rispetto alla cosa cui inerisce, tale da rendere l'opera priva di un autonomo valore di mercato e non comportante un carico urbanistico o una alterazione significativa dell'assetto del territorio; sicché non può ritenersi meramente pertinenziale un abuso che, pur avendo proporzione sensibilmente ridotta rispetto all'opera principale, presenta incontestate caratteristiche di rilevante dimensione, di autonomo valore di mercato, di rilevante carico urbanistico, e occupa un'area diversa e ulteriore rispetto a quella già occupata dal preesistente edificio principale. Pertanto, in materia edilizia la natura pertinenziale è riferibile soltanto ad opere di modesta entità ed accessorie rispetto a quella principale, quali i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici e simili ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto a quella considerata principale e non siano coessenziali alla stessa. (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 14/03/2023, n.2629, Cons. Stato, sez. II, 11/11/2019, n.7689, Cons. Stato, sez. VI, 07/03/2022, n.1605).
3.1.5 Nel caso di specie, come ampiamente chiarito dal Tar, non si verte in tema di edilizia libera ma per le opere realizzate occorre un titolo abilitativo stante la trasformazione del territorio indubitabilmente realizzata, senza che possa assumersi la natura manutentiva o pertinenziale, consistente nella mera esecuzione di opere di edilizia libera.
4. L’appello, in definitiva, non merita accoglimento.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.
Condanna parte appellante al pagamento delle spese di lite in favore del Comune di San Giuseppe Vesuviano, complessivamente quantificate in euro 3.000,00 (tremila/00) oltre oneri di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 ottobre 2023 con l'intervento dei magistrati:
Hadrian Simonetti, Presidente
Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere
Roberto Caponigro, Consigliere
Giovanni Gallone, Consigliere
Giovanni Pascuzzi, Consigliere, Estensore