Consiglio di Stato Sez. VI n. 8072 del 8 ottobre 2024
Urbanistica.Variazioni essenziali
Ai sensi degli artt. 31 e 32 t.u. edilizia, si è in presenza di difformità totali del manufatto o variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, allorché i lavori riguardino un’opera ‘diversa’ da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera. Sando alla definizione enunciata dal citato art. 32, dà, dunque, luogo a una variante essenziale «ogni modifica incompatibile con il disegno globale ispiratore dell’originario progetto edificatorio, tale da comportare il mutamento della destinazione d’uso implicante alterazione degli standard, l’aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito e la violazione delle norme vigenti in materia antisismica; la nozione in esame non ricomprende, invece, le modifiche incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative. L'attribuzione a un intervento edilizio della natura di variazione essenziale comporta rilevanti conseguenze. Invero, mentre le varianti in senso stretto al permesso di costruire, ai sensi dell’art. 22, comma 2, t.u. edilizia, e cioè le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementare e accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all’originario permesso a costruire; le variazioni “essenziali”, giacché caratterizzate da incompatibilità con il progetto edificatorio originario in base ai parametri ricavabili, in via esemplificativa, dall’art. 32 t.u. edilizia, sono soggette al rilascio di un permesso a costruire del tutto nuovo e autonomo rispetto a quello originario
Pubblicato il 08/10/2024
N. 08072/2024REG.PROV.COLL.
N. 10524/2021 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 10524 del 2021, proposto da Nunziata Secondulfo, rappresentata e difesa, giusta nuova procura del 30 settembre 2024, dall’avv. Innocenzo Calabrese, con domicilio digitale come da PEC da registri di giustizia;
contro
il Comune di Somma Vesuviana (NA), in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del T.a.r. per la Campania (Sezione terza) n. 02729/2021, resa tra le parti.
Visto il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del nuovo procuratore dell’appellante;
Visti gli atti tutti della causa;
Designato relatore il cons. Giuseppe La Greca;
Nessuno per l’appellante presente all’udienza pubblica del 3 ottobre 2024;
Rilevato in fatto e ritenuto in diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1.- Con il ricorso introduttivo e il ricorso per motivi aggiunti proposti in primo grado, la ricorrente impugnava, con richiesta di annullamento, rispettivamente, l’ordinanza n. 110/2016 datata 8 novembre 2016 e l’ordinanza n.131/2018 datata 24 settembre 2018, di analogo contenuto, con le quali il Comune di Somma Vesuviana ingiungeva nei suoi confronti la demolizione del fabbricato ivi descritto, riportato in catasto al foglio di mappa n. 9, particella n. 1451, sub. n. 4 e n. 6. Nei due provvedimenti il Comune dava atto dell’avvenuta realizzazione di opere senza titolo – poiché in «totale difformità» rispetto a quelle costituenti una precedente concessione edilizia (n. 113/99) riguardante lo stesso immobile. Dette opere erano così descritte:
1) ampliamento del piano seminterrato pe runa superficie utile di mq 70,44;
2) ampliamento del piano rialzato (ex piano terra) per una superficie utile di mq. 89,33;
3) aumento della cubatura fuori terra di mc 446,23;
4) realizzazione di rampa carrabile di accessi al piano seminterrato delimitata da due muri in c.a. di contenimento di lunghezza mt 10,00 e mt 4,60, altezza mt 2,50 circa;
5) pavimentazione in calcestruzzo dell’area di pertinenza antistante il fabbricato, laddove la concessione edilizia, assistita da parere della Soprintendenza dei beni culturali di Napoli, prevedeva una sistemazione ad alberatura;
6) realizzazione di un muro di cinta del fondo, costituito da muretto in calcestruzzo e sovrastante barriera in ferro (espressamente vietato dalla Soprintendenza).
2.- A sostegno della domanda caducatoria la ricorrente deduceva i vizi di violazione di legge (art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 3 e 7 l. n. 241 del 1990 art. 97 Cost.) ed eccesso di potere sotto vari profili, oltre che aspetti di «illegittimità derivata».
3.- Con sentenza n. 2729 del 2021, il T.a.r. per la Campania, sez. III, rigettava il ricorso.
4.- Avverso la predetta sentenza ha interposto appello l’originaria ricorrente la quale ne ha chiesto la riforma sulla base di doglianze così articolate:
1) Error in iudicando; violazione di legge, violazione e falsa applicazione art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001; motivazione carente ed erronea; eccesso di potere; violazione principio di proporzionalità. Ad avviso dell’appellante sarebbe errata l’affermazione (anche del T.a.r.) secondo cui le opere sarebbero state realizzate «in totale difformità o con variazioni essenziali», e che, dunque, l’ordinanza di demolizione avrebbe costituito un atto dovuto. Poiché l’immobile avrebbe costituito oggetto di un precedente titolo abilitativo, la misura demolitoria sarebbe stata ammissibile soltanto «relativamente alla realizzazione di opere nuove ed autonome o, quanto meno “integralmente diverse” da quelle autorizzate, tali da costituire una variazione essenziale e una trasformazione del progetto indicato». In altre parole, avrebbero potuto essere qualificati come interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli volti a dar luogo ad un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o destinazione, ovvero alla realizzazione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile; né nel caso di specie si rinverrebbero, in tesi, i presupposti ex art. 32 d. P.R. n. 380 del 2001. La presenza di «modeste difformità» avrebbe reso l’ordinanza di demolizione sproporzionata e priva di presupposti considerato che le medesime opere non avrebbero potuto essere considerate abusive;
2) Error in iudicando; violazione art. 31 d. P.R. n. 380 del 2001; mancata indicazione dell’area da acquisire. L’affermazione del T.a.r., secondo cui «l’individuazione della superficie dell’area di sedime da acquisire al patrimonio del Comune in caso di inottemperanza all’ordinanza di demolizione non deve essere contenuta necessariamente in quest’ultimo provvedimento, bensì, a pena d’illegittimità, nel successivo atto di acquisizione gratuita del bene […]», non si sincronizzerebbe con l’effetto traslativo automatico del bene alla scadenza del termine assegnato per la rimozione delle opere abusive oltre che col carattere dichiarativo dell’atto di accertamento dell’inottemperanza all’ordine demolitorio;
3) Error in iudicando; violazione art. 3 l. n. 241 del 1990. Erroneamente il T.a.r. avrebbe ritenuto adeguatamente motivati i provvedimenti di ripristino in ragione dell’oggettivo riscontro del carattere abusivo dell’intervento edilizio, stante la sua limitata entità e il notevole lasso di tempo trascorso dall’abuso; parimenti l’Amministrazione avrebbe dovuto adeguatamente motivare circa l’interesse pubblico specifico alla emissione della sanzione demolitoria;
4) Error in iudicando, eccesso di potere, difetto di istruttoria, travisamento dei fatti, violazione del principio di buon andamento della p.a., motivazione carente ed erronea. Erroneamente il T.a.r. avrebbe ritenuto infondata la doglianza involgente il difetto di istruttoria considerato che:
- la qualificazione come «agricola» di una determinata area non può, in tesi, porsi quale ragione ostativa di ampliamenti volumetrici dei fabbricati costruiti in tali zone;
- il mero ampliamento del fabbricato ad uso deposito agricolo, non attribuirebbe al fabbricato medesimo i caratteri di un insediamento residenziale, sicché non avrebbe potuto essere (in linea di principio) vietato;
- la destinazione a zona agricola di un’area non imporrebbe un obbligo specifico di autorizzazione in tal senso;
- i limiti di edificabilità discendenti dal vincolo paesaggistico non sarebbero stati presi in considerazione in occasione del rilascio del precedente titolo abilitativo;
5) Error in iudicando, violazione artt. 3 e 7 l. n. 241 del 1990; violazione art. 97 Cost. L’omessa comunicazione di avvio del procedimento – poi definito con gli impugnati provvedimenti – avrebbe compresso le facoltà partecipative della ricorrente.
5.- Il Comune di Somma Vesuviana, sebbene raggiunto dalla notificazione dell’appello, non si è costituito in giudizio.
6.- All’udienza pubblica del 3 ottobre 2024 l’appello è stato trattenuto in decisione.
7.- In primo luogo va respinta l’istanza di rinvio della trattazione avanzata dal nuovo procuratore dell’appellante, non ravvisandosi le ragioni di eccezionalità ex art. 73, comma 1-bis, c.p.a. per disporre il richiesto differimento.
8.- L’appello, alla stregua di quanto si dirà, è infondato.
9.- In primo luogo va esaminata la doglianza, veicolata con il primo motivo d’appello, circa l’errata qualificazione delle opere quali realizzate in totale difformità o costituenti variazioni essenziali rispetto a quelle oggetto di un precedente titolo, oltre che inerente alla rispondenza (o meno) dell’ordine demolitorio al canone di proporzionalità.
9.1.- Il motivo è infondato.
9.2.- Sin dalla legislazione statale antecedente al 1977 – in particolare la legge urbanistica n. 1150 del 1942, sia nel suo testo originario sia in quello innovato dalla legge n. 765 del 1967 – è stato previsto che il committente titolare della licenza, il direttore dei lavori (quest’ultimo a partire dalla disciplina introdotta nel 1967), nonché l’assuntore dei lavori fossero «responsabili di ogni inosservanza così delle norme generali di legge e di regolamento come delle modalità esecutive che siano fissate nella licenza di costruzione» (art. 31, terzo comma, della citata legge, che diviene comma 12 a seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 765 del 1967). E a garanzia del rispetto di tale disciplina, il podestà, prima, e il sindaco, poi, avevano il compito di vigilare sull’attività edilizia e dovevano ordinare l’immediata sospensione dei lavori con riserva dei provvedimenti che risultassero necessari per la modifica delle costruzioni o per la rimessa in pristino (art. 32, secondo comma, della legge n. 1150 del 1942).
Di seguito, con la legge n. 10 del 1977, il regime sanzionatorio è stato semplicemente graduato (Corte cost. n. 217 del 2022) secondo uno schema generale tuttora vigente: le opere eseguite in assenza di concessione o in totale difformità dalla stessa dovevano essere demolite a spese del proprietario o del costruttore (art. 15, terzo e ottavo comma); le opere invece realizzate in parziale difformità dovevano essere demolite a spese del concessionario, ma, ove non potessero essere rimosse senza pregiudizio per le parti conformi, il concessionario restava assoggettato a una sanzione amministrativa pecuniaria (art. 15, undicesimo comma).
A tale graduazione sanzionatoria si è, successivamente, correlata la differenziazione tra variazioni essenziali e non essenziali, introdotta dagli artt. 7 e 8 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), di seguito trasfusi negli artt. 31 e 32 d.P.R. n. 380 del 2001.
«In particolare, le variazioni essenziali vengono assoggettate al più severo regime sanzionatorio proprio della totale difformità, mentre quelle non essenziali restano ascritte al vizio della parziale difformità, correlato alle sanzioni stabilite, all’epoca, dall’art. 12 della legge n. 47 del 1985 e, di seguito, dall’art. 34 t.u. edilizia» (Corte cost. n. 217 del 2022, cit.).
Né tali variazioni sfuggono ad una connotazione in termini di violazioni amministrative, in conseguenza del d.l. 12 settembre 2014, n. 133 («Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive»), convertito, con modificazioni, nella l. n. 164 del 2014, che ha inserito il comma 2-bis nell’art. 22 t.u. edilizia, in cui viene contemplata la possibilità di presentare una segnalazione certificata d’inizio attività (SCIA) in caso di varianti al permesso di costruire che non costituiscano variazioni essenziali, se realizzate in corso di esecuzione dei lavori.
La legittimità delle opere in parola sussiste, pertanto, soltanto a condizione che la SCIA inerente alle varianti al permesso di costruire sia comunicata a fine lavori, tramite attestazione del professionista. Di conseguenza, la citata disciplina non può risolvere il problema delle variazioni non essenziali che non soddisfino tale condizione, le quali continueranno a costituire una parziale difformità ai sensi dell’art. 34 t.u. edilizia, salva l’eventuale sanatoria di cui all’art. 36 t.u. edilizia, ove ne ricorrano i presupposti.
«L’unica ipotesi in cui possono ritenersi regolari difformità esecutive rispetto a titoli abilitativi rilasciati in passato è quella delle cosiddette tolleranze costruttive, previste per la prima volta dall’art. 5, comma 2, lettera a), del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (“Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia”), convertito, con modificazioni, nella l. n. 106 del 2011, che aveva introdotto il comma 2-ter nell’art. 34 t.u. edilizia, e di seguito disciplinate dal nuovo art. 34-bis t.u. edilizia (introdotto dall’art. 10, comma 1, lettera p, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, con modificazioni, nella legge n. 120 del 2020). Quest’ultimo, in particolare, stabilisce che le tolleranze costruttive – ossia le difformità esecutive contenute nel limite del 2 per cento delle misure previste nel titolo abilitativo – non costituiscono violazioni edilizie (commi 1 e 2) e che, ove “realizzate nel corso di precedenti interventi edilizi […] sono dichiarate dal tecnico abilitato, ai fini dell’attestazione dello stato legittimo degli immobili, nella modulistica relativa a nuove istanze, comunicazioni e segnalazioni edilizie ovvero con apposita dichiarazione asseverata allegata agli atti aventi per oggetto trasferimento o costituzione, ovvero scioglimento della comunione, di diritti reali” (comma 3).
Se ne inferisce con chiarezza che le difformità eccedenti la soglia del 2 per cento, ancorché risalenti nel tempo, restano variazioni non essenziali, che integrano una parziale difformità» (Corte cost. n. 217 del 2022, cit.).
Secondo l’elaborazione della giurisprudenza di questa Sezione – alla quale il Collegio intende qui dare continuità – ai sensi degli artt. 31 e 32 t.u. edilizia, si è in presenza di difformità totali del manufatto o variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, allorché i lavori riguardino un’opera ‘diversa’ da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera (ex aliis Cons. Stato, sez, VI, n. 7644 del 2023 e n. 3596 del 2023).
Stando alla definizione enunciata dal citato art. 32, dà, dunque, luogo a una variante essenziale «ogni modifica incompatibile con il disegno globale ispiratore dell’originario progetto edificatorio, tale da comportare il mutamento della destinazione d’uso implicante alterazione degli standard, l’aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito e la violazione delle norme vigenti in materia antisismica; la nozione in esame non ricomprende, invece, le modifiche incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
L’attribuzione a un intervento edilizio della natura di variazione essenziale comporta rilevanti conseguenze. Invero, mentre le varianti in senso stretto al permesso di costruire, ai sensi dell’art. 22, comma 2, t.u. edilizia, e cioè le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementare e accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all’originario permesso a costruire; le variazioni “essenziali”, giacché caratterizzate da incompatibilità con il progetto edificatorio originario in base ai parametri ricavabili, in via esemplificativa, dall’art. 32 t.u. edilizia, sono soggette al rilascio di un permesso a costruire del tutto nuovo e autonomo rispetto a quello originario (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenze 3 giugno 2021, n. 4279 e 6 febbraio 2019, n. 891)» (Corte cost. n. 119 del 2024).
Un ulteriore richiamo alle variazioni essenziali è stato, da ultimo, operato dall’art. 36-bis d.l. n. 380 del 2001, introdotto dal d.l. n. 69 del 2024, convertito con l. n. 105 del 2024.
9.3.- Data tale premessa, la presenza di una variazione essenziale è stata, nel caso di specie, ampiamente tratteggiata dall’Amministrazione in seno ai provvedimenti impugnati in prime cure e ciò avuto riguardo alla compiuta descrizione di singoli interventi i quali, sia singolarmente considerati, sia nella loro globalità, correttamente sono stati considerati inquadrati sotto la categoria delle variazioni essenziali, in totale difformità rispetto al manufatto oggetto di precedente concessione edilizia.
La presenza, tra gli altri, degli incrementi di superficie e di cubatura, aspetti in fatto tutti rappresentati dal Comune e non contestati dall’appellante, correttamente sono stati ritenuti dar luogo ad una variazione essenziale rispetto al precedente titolo.
Né, ancora, può dirsi che l’Amministrazione abbia fatto cattiva applicazione della regola di proporzionalità nei sensi prospettati dall’appellante. Premesso che l’adozione dell’ordinanza di demolizione, con la quale l’autorità preposta alla tutela del territorio provvede alla repressione degli illeciti in materia edilizia e urbanistica, si connota come un preciso obbligo dell’Amministrazione, la quale non gode di alcuna discrezionalità al riguardo (ex aliis, Cons. giust. amm. sic., sez. riun., par. n. 198 del 2023), la violazione della regola di proporzionalità (che parte appellante aggancia alla presenza di opere «modeste») non può qui trovare utile invocazione considerato che la (come si è detto, corretta) configurazione delle opere, abusive, tratteggiata dal Comune non poteva che condurre al completo ripristino dello stato dei luoghi nei termini in cui è stata disposta.
10.- Parimenti infondato è il secondo motivo di appello volto a censurare l’omessa indicazione dell’area di sedime da acquisire in ipotesi di mancata ottemperanza all’ingiunzione di ripristino.
10.1.- Correttamente il T.a.r. ha ritenuto la predetta mancata indicazione dell’area di sedime da acquisire priva di effetto invalidante dell’ordine di demolizione, potendosi, al più ravvisare effetti unicamente sull’atto acquisitivo e, dunque, sul titolo per l’immissione nel possesso e sulla trascrizione nei registri immobiliari dell’acquisto in capo al Comune.
11.- Il censurato – con il terzo motivo di appello – difetto di motivazione dei provvedimenti impugnati in prime cure non è meritevole di pregio.
Va premesso che non risulta al vero che il Comune si sia limitato a rilevare che le opere ricadessero in zona agricola, avendo esso enucleato i presupposti per la qualificazione come ‘variazioni essenziali’, ciò che era sufficiente all’emanazione dell’ordine di ripristino, al di là di una ipotetica destinazione residenziale o meno del sito medesimo.
I provvedimenti attraverso i quali l'autorità preposta alla tutela del territorio provvede alla repressione degli illeciti amministrativi in materia edilizia ed urbanistica non richiedono, in ipotesi quale quella di cui trattasi, una particolare motivazione volta ad evidenziare le specifiche ragioni di pubblico interesse, né a comparare tale interesse pubblico con il sacrificio imposto al privato, atteso che l’attività di repressione degli abusi edilizi ha carattere obbligatorio e vincolato. Tanto meno può ravvisarsi nel decorso del tempo un elemento idoneo a fondare un legittimo affidamento del privato che abbia edificato contra legem e, del resto, il potere di irrogare sanzioni in materia urbanistica ed edilizia può essere esercitato in ogni tempo, posto che la legge non lo sottopone a termini di prescrizione né di decadenza e che riguarda una situazione di illiceità permanente, ossia una situazione di fatto attualmente contra ius.
12.- Il quarto motivo e il quinto d’appello (i quali per la loro omogeneità sostanziale possono essere trattati congiuntamente) sono, anch’essi, infondati.
In primo luogo va rilevato che nessun difetto di istruttoria connota i provvedimenti – vincolati – emessi dal Comune. La presenza di variazioni essenziali, come si è detto, imponeva il ripristino sicché risulta irrilevante ogni argomento volto a valorizzare la destinazione agricola dell’area e l’asserita (e, ove pure, in ipotesi, rilevante, ma non dimostrata) mancata considerazione dei profili paesaggistici al momento del rilascio del precedente titolo abilitativo. A ciò va aggiunto che nessuna comunicazione di avvio del procedimento il Comune era tenuto ad inoltrare stante la natura strettamente vincolata dell’atto impugnato, fermo restando che parte appellante ha omesso del tutto di indicare l’utilitas concreta discendente da siffatta ipotetica dovuta comunicazione, tale da determinare, ragionevolmente, un diverso esito del procedimento.
13.- Alla luce delle suesposte considerazioni l’appello va rigettato con conferma dell’impugnata sentenza.
14.- La mancata costituzione in giudizio del Comune appellato esonera il Collegio dalla statuizione sulle spese del presente grado di giudizio.
15.- Copia della presente sentenza va trasmessa al Sindaco del Comune di Somma Vesuviana e al Prefetto di Napoli (art. 41 d. P.R. n. 380 del 2001).
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe lo rigetta e, per l’effetto, conferma l’impugnata sentenza.
Nulla per le spese del grado.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Dispone, a cura della Segreteria della Sezione, la trasmissione della presente sentenza al Sindaco del Comune di Somma Vesuviana e al Prefetto di Napoli.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 ottobre 2024 con l’intervento dei magistrati:
Sergio De Felice, Presidente
Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere
Oreste Mario Caputo, Consigliere
Lorenzo Cordi', Consigliere
Giuseppe La Greca, Consigliere, Estensore