Cass. Sez. III n. 6998 del 14 febbraio 2018 (Ud 22 nov 2017)
Presidente: Di Nicola Estensore: Mengoni Imputato: Martiniello
Acque. Assimilazione alle acque reflue domestiche, ai fini dello scarico in pubblica fognatura, delle acque reflue di vegetazione dei frantoi oleari
L’assimilazione alle acque reflue domestiche, ai fini dello scarico in pubblica fognatura, delle acque reflue di vegetazione dei frantoi oleari, disposta dall’art. 101, comma 7-bis dlv 152\06 opera soltanto ai fini dello scarico in pubblica fognatura e non interviene in modo automatico, sol perché si tratti di acque reflue di vegetazione dei frantoi oleari, risultando invero necessario che ricorrano le numerose condizioni di cui alla seconda parte della norma stessa, il cui solo accertamento - su adempiuto onere dimostrativo dell’imputato – consente di sottrarre lo scarico delle acque in esame alla disciplina ordinaria di cui al d. lgs. n. 152 del 2006 in tema di scarichi industriali.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 4/7/2016, il Tribunale di Benevento dichiarava Luigi Martiniello ed Errico Martiniello colpevoli della contravvenzione di cui agli artt. 110 cod. pen., 256, commi 1, lett. a) e 2, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, e li condannava ciascuno alla pena di 2.000,00 euro di ammenda; agli stessi, nelle qualità e con le modalità indicate in rubrica, era contestato di aver smaltito rifiuti speciali non pericolosi (acque reflue di vegetazione da frantoio oleario) in difetto della necessaria autorizzazione.
2. Propongono congiunto ricorso per cassazione i Martiniello, a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
- erronea applicazione del d. lgs. n. 152 del 2006 per come modificato dalla l. 28 dicembre 2015, n. 221. La sentenza non avrebbe considerato che – giusta la l. n. 221 del 2015 – le acque reflue di vegetazione dei frantoi oleari sono assimilate a quelle domestiche, sì che la condotta ascritta ai ricorrenti non costituirebbe più reato;
- mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione. Il Tribunale non avrebbe tenuto conto di plurime emergenze dibattimentali, che evidenzierebbero che, nel periodo di accesso degli operanti, il frantoio era chiuso, che vi erano state abbondanti piogge, che l’impianto era munito di regolare autorizzazione per smaltire i reflui di vegetazione nei terreni limitrofi; inoltre, non sarebbe stato compiuto alcun campionamento dei liquidi in oggetto, sì che non si potrebbe ritenere certa la natura di rifiuto, specie alla luce delle acque meteoriche cadute in quei giorni.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. I ricorsi risultano manifestamente infondati.
Con riguardo alla prima doglianza, occorre rilevare che l’art. 101, d. lgs. n. 152 del 2006 è stato innovato dalla l. 28 dicembre 2015, n. 221, che vi ha inserito il comma 7-bis, che si riporta integralmente: “Sono altresì assimilate alle acque reflue domestiche, ai fini dello scarico in pubblica fognatura, le acque reflue di vegetazione dei frantoi oleari. Al fine di assicurare la tutela del corpo idrico ricettore e il rispetto della disciplina degli scarichi delle acque reflue urbane, lo scarico di acque di vegetazione in pubblica fognatura è ammesso, ove l’ente di governo dell’ambito e il gestore d’ambito non ravvisino criticità nel sistema di depurazione, per i frantoi che trattano olive provenienti esclusivamente dal territorio regionale e da aziende agricole i cui terreni insistono in aree scoscese o terrazzate ove i metodi di smaltimento tramite fertilizzazione e irrigazione non siano agevolmente praticabili, previo idoneo trattamento che garantisca il rispetto delle norme tecniche, delle prescrizioni regolamentari e dei valori limite adottati dal gestore del servizio idrico integrato in base alle caratteristiche e all’effettiva capacità di trattamento dell’impianto di depurazione”.
5. Dalla chiara lettera della legge, dunque, emerge che l’assimilazione in oggetto: a) opera soltanto ai fini dello scarico in pubblica fognatura; b) non interviene in modo automatico, sol perché si tratti di acque reflue di vegetazione dei frantoi oleari, risultando invero necessario che ricorrano le numerose condizioni di cui alla seconda parte della norma stessa, il cui solo accertamento - su adempiuto onere dimostrativo dell’imputato – consente di sottrarre lo scarico delle acque in esame alla disciplina ordinaria di cui al d. lgs. n. 152 del 2006 in tema di scarichi industriali. Quel che, peraltro, ben emerge dalla stessa ratio dell’intervento normativo, volto sì ad agevolare un particolarissimo settore produttivo, di sicura rilevanza economica specie in determinate aree del Paese, ma solo in presenza di ben definiti presupposti (tra i quali, assenza di criticità nell’impianto di depurazione; provenienza esclusivamente regionale delle olive; collocazione delle aziende agricole in terreni ove metodi di fertilizzazione e irrigazione non sono praticabili in modo agevole), invero necessari a giustificare la previsione derogatoria stessa, soprattutto in rapporto a differenti ambiti che la medesima assimilazione non hanno ricevuto. D’altronde, anche il precedente comma 7 dello stesso art. 101, nello stabilire che “salvo quanto previsto dall’art. 112, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, sono assimilate alle acque reflue domestiche” determinate acque reflue (indicate nelle lettere a-f), impone sovente specifiche condizioni, oggetto di prova da parte dell’interessato, che sole consentono l’assimilazione richiamata, non risultando dunque sufficiente la mera natura del refluo di volta in volta coinvolto.
Orbene, rileva la Corte che, nel caso di specie, i presupposti ed i requisiti appena citati non risultano soddisfatti, come congruamente emerge dalla sentenza impugnata; per un verso, infatti, lo scarico in esame non avveniva in pubblica fognatura e, per altro verso, i ricorrenti non hanno affatto adempiuto all’onere probatorio in questione, né hanno affermato di avervi provveduto nel giudizio di merito, limitandosi a richiamare l’art. 101, comma 7-bis citato ed a farne derivare, sic et simpliciter, l’abolizione della fattispecie contravvenzionale loro ascritta.
6. Ciò premesso, risulta dunque corretta la qualificazione giuridica riconosciuta dal Tribunale, quale la violazione dell’art. 256, commi 1, lett. a), 2, d. lgs. n. 152 del 2006, dovendo nel caso di specie trovare applicazione la normativa in tema di rifiuti.
Ed invero, questa Corte ha più volte evidenziato che per la nozione di scarico, l'art. 183, lettera hh) rinvia all'art. 74, comma 1, lett. ff), il quale definisce, appunto, lo scarico come "qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione". Ne consegue che la disciplina delle acque sarà applicabile in tutti quei casi nei quali si è in presenza di uno scarico di acque reflue in uno dei corpi recettori specificati dalla legge ed effettuato tramite condotta, tubazioni, o altro sistema stabile; in tutti gli altri casi - nei quali manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore - si applicherà, invece, la disciplina sui rifiuti (cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 16623 dell’8/4/2015, D’Aniello, Rv. 263354; Sez. 3, n. 45340 del 19/10/2011, Pananti, Rv. 251335; Sez. 3, n. 22036 del 13/04/2010, Chianura, Rv. 247627).
7. Ribadito in termini generali quanto precede, ecco dunque – quanto al caso di specie - che la raccolta dei liquami nelle vasche interrompeva per certo la necessaria continuità tra il luogo in cui i reflui venivano prodotti ed il recapito finale, considerando che, all'iniziale collocazione nelle vasche di raccolta medesime, seguiva il “re-indirizzo” in un piazzale di cemento (e, da lì, in un vallone e, poi, in un fiume), attraverso un tubo lungo circa 10 metri. Si trattava, pertanto, di una situazione non qualificabile come "scarico", in quanto, sebbene tale nozione non richieda la presenza di una "condotta" nel senso proprio del termine, costituita da tubazioni o altre specifiche attrezzature, vi è comunque la necessità di un sistema di deflusso, oggettivo e duraturo, che comunque canalizza, senza soluzione di continuità, in modo artificiale o meno, i reflui fino al corpo ricettore (cfr. Sez. 3, n. 35888 del 3/10/2006, De Marco, non massimata).
Quel che non risultava nel caso in esame.
Ne consegue l’infondatezza manifesta della prima doglianza.
8. Negli stessi termini, poi, si conclude quanto alla successiva.
Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa Corte in forza del quale l'illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi; ciò in quanto l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074).
9. In tal modo individuato il perimetro di giudizio proprio della Suprema Corte, osserva allora il Collegio che le censure mosse dai ricorrenti al provvedimento impugnato si evidenziano come inammissibili; ed invero, dietro la parvenza di un vizio motivazionale, gli stessi di fatto invocano una nuova e diversa valutazione dei medesimi elementi in fatto già esaminati dal Giudice di merito, sollecitandone una lettura alternativa e più favorevole.
Il che, come richiamato, non è consentito.
A ciò si aggiunga che la sentenza impugnata – pronunciandosi proprio sulla medesima questione – ha steso una motivazione congrua e non manifestamente illogica; quindi, non censurabile in questa sede. In particolare, ha sottolineato che, al momento dell’intervento, i militari avevano riscontrato la fuoriuscita di liquami maleodoranti da una vasca, attraverso un tubo che scaricava – come già riportato – su un piazzale e, da lì, in un vallone e nel fiume Calore; ancora, il Tribunale ha esaminato la tesi difensiva (liquami mescolati ad acqua piovana, abbondantemente caduta in quei giorni), ma ne ha congruamente affermato l’irrilevanza, atteso che gli imputati – nelle loro qualità – avrebbero dovuto comunque vigilare sul corretto smaltimento delle acque (se del caso) meteoriche, evitando qualsiasi mescolanza con liquami provenienti dal frantoio. Quel che, pacificamente, non era avvenuto, sì da fondare il corretto giudizio di responsabilità penale a titolo di colpa.
10. I ricorsi, pertanto, debbono essere dichiarati inammissibili. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen. ed a carico di ciascun ricorrente, l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 22 novembre 2017