BREVI OSSERVAZIONI IN TEMA DI DIVIETO DI DILUIZIONE DEGLI SCARICHI

di Luca RAMACCI

 


(articolo pubblicato su Rivista Penale 1999 inserito a richiesta di un utente del sito che lamentava la non facile reperiblità)

La legge 10 maggio 1976 n.319 vieta, nell’articolo 9, la diluizione degli scarichi effettuata al fine di conseguire il raggiungimento dei limiti di accettabilità fissati dalla legge medesima.

 

La citata disposizione, infatti, nel prevedere al primo comma un’unica disciplina degli scarichi su tutto il territorio nazionale, dispone anche che i limiti prescritti vadano applicati con le modalità fissate nel titolo IV.

 

L’articolo 9 indica anche le modalità di misurazione degli scarichi (nel comma terzo) e, in modo netto ed inequivocabile, stabilisce al successivo comma quarto che “i limiti di accettabilità non potranno in alcun caso essere conseguiti mediante diluizione con acque prelevate esclusivamente allo scopo”.

 

Il settimo comma dell’articolo, infine, prescrive che “non è comunque consentito diluire con acque di raffreddamento, di lavaggio o prelevate esclusivamente allo scopo gli scarichi parziali contenenti le sostanze di cui al numero 10 delle tabelle A e C prima del trattamento degli scarichi parziali stessi per adeguarli ai limiti previsti dalla presente legge”.

 

L’individuazione dell’ambito di applicazione del divieto di diluizione ha determinato  diverse prese di posizione in dottrina e giurisprudenza.

 

In particolare, la Corte di cassazione ha in più occasioni ritenuto che l’articolo 9 citato introduca un generale ed assoluto divieto di diluizione per tutti gli scarichi, fornendo una lettura della norma che in alcuni casi è stata ritenuta dalla dottrina non conforme al dato letterale della disposizione applicata.

 

In una prima pronuncia, infatti la Cassazione, riconoscendo che i limiti di accettabilità vanno riferiti alla qualità dei reflui, ha ritenuto necessario procedere ad una specifica distinzione tra gli scarichi attinenti al ciclo produttivo e gli altri scarichi aventi origine in un medesimo insediamento, con la conseguenza che il prelevamento di campioni deve essere effettuato prima che gli scarichi confluiscano con altri di diverso tipo in violazione del divieto di diluizione stabilito dall’articolo 9 (nel caso sottoposto all’attenzione della Corte si trattava di scarichi di un lanificio ricondotti entro i limiti di accettabilità mediante commistione con acque provenienti da una turbina destinata alla produzione in proprio di energia elettrica)[1].

 

Nel commento alla decisione vengono effettuate alcune considerazioni sulla portata della disposizione esaminata dalla corte, rilevando come l’inserimento della norma più severa ad opera della legge 650\\1979 (articolo 12) abbia di fatto reso più evidente la limitazione imposta dal comma quarto alle sole “acque prelevate esclusivamente allo scopo”.

 

Si registrano inoltre, in dottrina, ulteriori riserve sull’interpretazione della norma in esame effettuata dalla Corte di Cassazione nella decisione appena richiamata ed in altre successive[2].  

 

Si è in particolare osservato, infatti, che il divieto di diluizione “assoluto” è solo quello contemplato nel quarto comma dell’articolo 9 e riferito alle acque appositamente prelevate per l’operazione, mentre il divieto di utilizzare, per il medesimo scopo, anche le acque di raffreddamento o di lavaggio resta limitato agli scarichi parziali contenenti le sostanze indicate al n. 10 delle  tabelle A e C della legge[3].

 

Ad ulteriore conferma della tesi che privilegia l’interpretazione restrittiva dell’articolo 9 si è anche osservato che solo nella normativa più recente in tema di inquinamento idrico (D.Lv. 133\\1992) il legislatore ha introdotto un divieto generale di diluizione[4].

 

Il principio fissato nella prima sentenza di cui si è appena detto veniva successivamente ribadito affermando che il divieto di diluizione mediante “acque prelevate esclusivamente allo scopo” deve ritenersi riferito a tutte le acque che pur provenendo da un insediamento produttivo, non siano direttamente utilizzate in uno specifico ciclo di lavorazione quali quelle di raffreddamento o di lavaggio, cosicché doveva ritenersi correttamente eseguito il prelievo di campioni effettuato prima della commistione delle acque di processo con altre relative a servizi igienici, caldaie e raffreddamento[5].

 

Un ulteriore  precisazione dell’iter interpretativo seguito dalla Suprema Corte è stata formulata in una successiva decisione ove viene nuovamente affermato che il divieto previsto dal comma quarto dell’articolo 9 deve intendersi come avente carattere generale ed assoluto e riferito anche alle acque di raffreddamento e lavaggio perché “non inerenti direttamente al processo di produzione, bensì accessorie alla meccanica produttiva consentendo il funzionamento dei macchinari utilizzati ed altri interventi per la produzione”[6].

 

La Corte non limita il proprio intervento alla sola affermazione del principio provvedendo, invece, all’esame dell’originario contenuto dell’articolo 9 e delle modifiche introdotte dal legislatore con l’articolo 12 della legge 650\\1978.

 

Si è così osservato che  il carattere assoluto ed inderogabile del divieto appare evidenziato dall’utilizzazione da parte del legislatore delle parole “in alcun caso” e che i commi successivi al quarto, così come integrati dagli interventi del 1979, costituiscono una ulteriore conferma del principio fissato.

 

A tale proposito viene ribadito il significato dell’espressione “acque prelevate esclusivamente allo scopo” il quale va riferito a tutte quelle acque “che non partecipano in modo essenziale, specifico e diretto al ciclo produttivo, ma accompagnano, invece, la produzione in via accessoria e complementare”.

 

Si osserva poi che i successivi commi quinto, sesto e settimo non limitano ma, al contrario, estendono il divieto previsto dal quarto comma anche agli scarichi parziali contenenti sostanze pericolose e sottoposte a particolare trattamento che, proprio in ragione del divieto imposto, non potrà comunque essere influenzato da una illecita diluizione.

 

Il comma settimo, successivamente introdotto, andrebbe poi direttamente correlato non al comma quarto ma più correttamente al  sesto come dimostra la ripetizione delle parole “acque prelevate esclusivamente allo scopo” altrimenti superflua.

 

Ulteriore conferma viene infine rinvenuta nell’obbligo, previsto dal quinto comma, di restituzione “delle acque prelevate dai corpi idrici superficiali con le stesse caratteristiche qualitative  o quantitative, obbligo che non sarebbe  possibile rispettare ove il divieto di diluizione degli scarichi dello specifico ciclo produttivo non comprendesse anche le acque di lavaggio e le acque di raffreddamento, in quanto tali acque registrerebbero comunque un inquinamento “aggiuntivo””.

 

L’analisi della disciplina in tema di diluizione effettuata nella decisione sopra richiamata viene peraltro condivisa nel commento che accompagna la pronuncia medesima ove viene, in pratica, affermato che la lettura della disposizione effettuata dalla Cassazione risponde in pieno alla volontà del legislatore [7].

 

I principi enunciati dalla Corte sono stati ribaditi anche recentemente con riferimento alle modalità di prelievo dei campioni.

 

In una prima pronuncia, infatti, si è ritenuto che i prelievi devono essere effettuati sullo scarico  effettivamente proveniente dal ciclo produttivo “finalizzato alla  formazione  e  composizione  della "res" prodotta” prima della commistione dello stesso con scarichi parziali diluiti con acque, quali quelle di lavaggio o raffreddamento, utilizzate per attività “complementari o accessorie”.[8]

 

Con una successiva decisione si è invece specificato che le modalità di prelievo indicate nell’articolo 9 sono finalizzate ad assicurare che le caratteristiche eventualmente inquinanti del refluo siano accertate  prima che le stesse possano essere  modificate attraverso “altre immissioni che rendano  incerta  la sua composizione chimica, i caratteri fisici originari e l\'entità della concentrazione”.[9]

 

I principi fissati dalla Suprema Corte sono stati anche recepiti dalla giurisprudenza di merito.

 

Pur non riconoscendo la natura assoluta ed inderogabile del divieto di diluizione che viene effettuato nelle decisioni in precedenza richiamate mediante l’iter interpretativo cui si è fatto cenno, si è riconosciuta la validità delle argomentazioni della Suprema Corte con le quali vengono individuate, tra le acque che il comma quarto dell’articolo 9 non consente di utilizzare per la diluizione, tutte quelle che non sono strettamente connesse con il ciclo produttivo e sono prodotte da attività accessorie o complementari.

 

A tale proposito va segnalata la decisione di un Pretore[10] nella quale viene operata una dettagliata distinzione tra i concetti di “acque di processo” e “acque di diluizione” ritenuta condivisibile anche da quella parte della dottrina che in passato aveva criticato l’atteggiamento eccessivamente rigoroso della cassazione[11]. 

 

Nella citata decisione si afferma che il divieto di diluizione desumibile dal combinato disposto dei commi quarto e settimo dell’articolo 9 è generale ed assoluto così come riconosciuto dalla Suprema Corte e comprende pertanto non solo le acque prelevate al solo fine di effettuare la diluizione, ma anche quelle che non vengono direttamente utilizzate nel processo produttivo, tra le quali vengono indicate, a titolo esemplificativo, quelle di raffreddamento, di lavaggio, meteoriche e dei servizi.

 

Il giudice, con articolata motivazione, opera dunque una netta distinzione tra le acque definite “di processo” e quelle utilizzate per la diluizione, prendendo in esame le caratteristiche dei singoli reflui che formavano lo scarico finale oggetto del procedimento e giungendo così ad accertare che le acque analizzate e confluenti nello scarico finale dovevano considerarsi come acque strettamente connesse al processo produttivo, escludendo la illecita diluizione dei reflui.

 

Nel far ciò, tuttavia, il giudice ribadisce in modo netto in principi richiamati in premessa, ricordando come non tutte le acque provenienti dall’insediamento siano da considerare, proprio in ragione di tale loro provenienza, come “acque di processo”, irrilevanti per quanto riguarda il divieto di diluizione ed escludendo pertanto che in tale categoria rientrino “quelle di raffreddamento, quelle utilizzate nell’impianto antincendio, per i consumi civili, per la manutenzione delle aree verdi etc.”

 

Sulla base delle argomentazioni svolte il pretore fornisce una ulteriore, importante, considerazione laddove riconosce la legittimità dell’utilizzazione delle acque non di processo per funzioni accessorie e complementari alla produzione pur precisando che deve in ogni caso tenersi conto della loro incidenza nella valutazione del rispetto dei limiti tabellari.

 

Già in precedenza, tuttavia, la giurisprudenza di merito aveva riconosciuto la sussistenza di un divieto assoluto di diluizione con acque non di processo[12].

 

Avuto dunque riguardo ai precedenti giurisprudenziali sopra richiamati deve ritenersi che vi sia un sostanziale accordo nel ritenere esattamente individuato l’ambito di applicazione del divieto di diluizione previsto dalla legge “Merli”.

 

La dottrina ha formulato riserve sulla correttezza dell’iter interpretativo seguito dalla Corte di cassazione ritenendo di dover privilegiare il dato letterale della norma ma sostanzialmente riconosce la validità della distinzione operata dalla Cassazione (e ribadita con ulteriori precisazioni dalla giurisprudenza di merito) tra “acque di processo” ed “acque di diluizione”.

 

Ciò posto, deve osservarsi come l’intervento del legislatore del 1979, pur se finalizzato ad inasprire il divieto originariamente imposto, abbia di fatto reso ambiguo il contenuto della disposizione in esame determinando i problemi interpretativi in precedenza evidenziati.

 

La soluzione adottata  dalla giurisprudenza nell’individuare la natura dei reflui utilizzati per la diluizione appare tuttavia adeguata ad impedire incertezze nella pratica applicazione della norma.

 

Sarà infatti agevole verificare, tenuto conto del processo produttivo utilizzato, delle materie prime impiegate e di altre informazioni facilmente reperibili all’atto del controllo, se i reflui da analizzare siano qualificabili come “acque di processo” ovvero se alla loro formazione concorrano altri reflui provenienti da attività strumentali ed accessorie che determinano così una miscelazione tale da alterare la loro originaria consistenza.

 

In tale ultimo caso dovrà essere verificato, in sede di analisi, quale contributo in concreto sia stato dato dalle acque di diluizione al mantenimento dei valori entro i limiti di legge ben potendosi verificare il caso in cui, indipendentemente dalla diluizione, i reflui prodotti siano comunque conformi ai limiti tabellari. 

 

Va poi rilevato come la soluzione adottata dalla giurisprudenza risponda a criteri di logica poiché non considerando come “acque prelevate esclusivamente allo scopo” anche quelle non strettamente connesse con il processo produttivo si renderebbe di fatto sempre possibile il rispetto dei limiti tabellari attraverso il ricorso a reflui comunque di pertinenza dell’insediamento rendendo estremamente facile aggirare il divieto.

 

Occorre infine osservare come un ulteriore conferma della correttezza dell’interpretazione delle disposizioni esaminate fornita dalla giurisprudenza sia data anche dal fatto che il legislatore non abbia avvertito l’esigenza di intervenire per integrare o modificare le disposizioni medesime.

 

Ciò infatti non è avvenuto quando nell’articolo 3 comma 6-bis della legge 6 dicembre 1993 n. 502 si è prevista una espressa deroga al divieto di diluizione contemplato dall’articolo 9 Legge 319\\76 e, soprattutto, con la legge 172\\95 con la quale sono stati operati radicali interventi sull’originario impianto della disciplina dell’inquinamento idrico anche in conseguenza di alcuni interventi della Corte di cassazione.  

 

Luca RAMACCI

 



[1] Cass.26\\4\\1988, Gremmo in Cass. Pen. 1989, 1154 con nota di F. GIAMPIETRO “Limiti di accettabilità agli scarichi, divieto di diluizione e obiettivi di qualità dei corpi idrici: dalla Legge “Merli” al DPR 24 maggio 1988 n.217”. 

[2] Si vedano, ad es. G. AMENDOLA “Legge Merli e diluizione degli scarichi” in Riv. Giur. Ambiente, 1988, pag. 325 e L. BUTTI “Decisioni “d’assalto” della Cassazione e tutela effettiva dell’ambiente” in Riv. Trim. dir. Pen. Economia, 1993, p. 767

[3] Così L. BUTTI op. cit.

[4] L. BUTTI op. cit.

[5] Cass. Sez. III 21\\7\\1988, Redaelli

[6] Cass. Sez. III 19\\1\\1994, Mattiuzzi in Riv. Giur. Amb. 1995 p.682 con nota di M.C. D’ASERO “La misurazione degli scarichi nei corpi idrici ricettori”

 

[7] M.C. D’ASERO op. cit.

[8] Cass. Sez. III 29\\7\\1994, Groenen in Ambiente, 1995, VI pag. 48

[9] Cass. Sez. III 15\\1\\1996, Mancaroni in Dir. e Giur. Agraria e dell’Amb. 1998, II pag. 46 con nota di T. PIRONE “Sulle modalità di prelievo dei campioni di acque inquinanti”

 

[10] Pret. Monza – Sez. Desio sent. n. 662 del 19/7/1996, Colombini ed altro

[11] L. BUTTI “Le nuove norme sull’inquinamento idrico” Milano 1997

[12] Così Pret. Mantova 23\\4\\1991 in Giur. Merito, III pag. 172 e ss. con nota di L. BUTTI “La diluizione degli scarichi, un problema aperto”. V. anche App. Brescia 26\\2\\1993 in L’impresa, l’ambiente, 1993, 8, pag. 64.