ANCORA SUI BENI COMUNI: PARTENDO DALL’ACQUA (TARIFFA, REFERENDUM, FINANZA).
di Alberto PIEROBON

Dopo un lungo periodo dove la moda e/o il modello della “privatizzazione” sembrava aver preso il sopravvento (peraltro ultimamente in modo arrogante e becero) - parzialmente o totalmente - ancorchè in forme articolate se non diverse (per i diversi settori interessati dal fenomeno: vedi gas, rifiuti, acque, trasporti, ecc.) almeno con riferimento (e in contrapposizione) alla cosiddetta “statalizzazione” (ora, ri-battezzata “pubblicizzazione”, senza però spiegare cosa è successo e cosa si intende col nuovo conio che non è solo terminologico) dei servizi pubblici locali, ora l’esito referendario di giugno teoricamente (perché finora al pratico si è visto bene poco, salvo l’esempio pioneristico di Napoli, ancora agli esordi) fa vacillare, se non franare, questa tendenza.

Non ci vogliamo qui soffermarci sulla questione della privatizzazione, essendo tematica troppo impegnativa per venire in questo intervento disaminata. Basti qui limitarci ad evidenziare come la privatizzazione venga propinata (gridata,se non imposta) e giustificata sostanzialmente per la incapacità e/o per la logica burocratica degli enti pubblici (ancorchè in forma di azienda) che sarebbero tali da aver impedito (e,ancora, impedire) una vera “aziendalizzazione” dei servizi, quantomeno da intendersi nel senso di una loro efficientizzazione e del contenimento (se non miglioramento) delle tariffe e della qualità dei medesimi servizi. Ma l’idea “principe” rimane quella per la quale il mercato, e i suoi spiriti selvaggi, possano di per sé consentire una crescita e una sana competizione e/o concorrenza, con utilità anche per il consumatore e per il cittadino. Questa tesi assumerebbe valore per tutti i servizi, in particolare per quelli pubblici, col correttivo della regolazione e con la garanzia del controllo pubblico (anche tramite autorità indipendenti,etc.).

Solo per dare un cenno alla sempreverde questione della tariffa del servizio idrico integrato, ricordiamo come, essendo essa tariffa - giuridicamente parlando - un “corrispettivo” di un servizio, dovrebbe essere determinata tenendo conto di tutti i costi del servizio. E in questo coacervo “pesano”, soprattutto, i costi relativi agli investimenti programmati ed alla manutenzione (ordinaria, programmata e straordinaria), onde assicurare quel livello di standard quali-quantitativo del servizio così come stabilito dalla regolazione dell’Autorità d’Ambito, e come “pattuito” nel contratto di servizio tra l’ente locale e il concessionario del medesimo servizio.

Però, gli enti locali (o chi per essi) consapevoli che una siffatta tariffa, laddove applicata bendatamente, potrebbe essere iniqua per le “fasce deboli” della popolazione, persino (ipotesi non remota, anzi talvolta soventemente realistica) arrivando a diminuire la possibilità di accedere ad una risorsa essenziale e vitale come l’acqua, possono prevedere degli interventi, appunto “sociali” (che qualcuno deve comunque sempre pagare: vedi oltre), con la tariffa denominata “sociale”, fermo restando la necessità di garantire l’equilibrio economico-finanzario della gestione.

In effetti, la doverosità dell’equilibrio economico-finanziario (sia che si operi con il modello dell’azienda pubblica, che con quello dell’impresa privata) è prevista, non solo dall’art. 154, comma l, del D.Lgs. n.152/2006ss.mm. e ii. (c.d. codice ambientale) stabilendo che la tariffa deve assicurare la copertura integrale dei costi di investimento, ma anche dall'art. 117 del D.Lgs. n. 267/2000 ss.mm. e ii. (cosiddetto T.U.E.L.) che prevede come, tra gli elementi e/o criteri di calcolo della tariffa, devono ricomprendersi anche quelli relativi all’adeguatezza della remunerazione del capitale investito e all’integrale copertura dei costi del servizio (si badi: di tutti i costi).

Il punto dolente (riconnettendoci alle precedenti notazioni, per così dire… “macro”) è che sempre più i gestori debbono ricorrere al mercato finanziario per procacciarsi il denaro onde effettuare gli investimenti necessari o programmati. Il costo di questo finanziamento è ricompreso nella tariffa (si veda la componente “R”, ovvero la remunerazione del capitale investito) indicandosi nel famoso 7% il tasso di remunerazione da calcolarsi con riferimento alla media del capitale investito, così almeno viene previsto nel decreto noto come “Di Pietro”, cioè il D.M. 10 agosto 1996 recante il <Metodo normalizzato per la definizione delle componenti di costo e la determinazione della tariffa di riferimento del servizio idrico integrato>.

Il referendum, come noto, è intervenuto, tra altro, sui criteri di determinazione della tariffa del servizio idrico integrato fissati dall'art. 154, comma 1 (Tariffa del servizio idrico integrato) del D. Lgs. n. 152 del 2006 (cosiddetto “codice ambientale”) con riferimento proprio al criterio dell'adeguatezza della remunerazione del capitale investito. Trattasi, questa adeguatezza, delle componenti di costo per la determinazione della tariffa relativa ai servizi idrici per i vari settori di impiego dell'acqua, per le quali determinazioni doveva intervenire (comma 2, dell’art.154 cit. D.Lgs. n.152/2006) un decreto del MATTM, in assenza del quale ultimo rimane ancora applicabile (ex art.170 cit. D.Lgs. n.152/2006) il metodo normalizzato del cit. decreto “Di Pietro”. Nel frattempo, è cambiato anche il soggetto (da MATTM alla nuova Agenzia Nazionale: introdotta con il decreto legge n. 70/2011) che ha la competenza di determinare la tariffa.

Vero è che i servizi pubblici locali, riguardati sotto il profilo della tariffazione, soprattutto, come si è rilevato, per i pesantissimi investimenti reputati necessari (si ipotizza che, per adeguare allo standard europeo il nostro sistema acquedotti stico, siano necessari investimenti per circa 60 miliardi di euro!) richiedono il loro fronteggiamento in un arco temporale lungo, di circa 30 anni e più. Con il che si presuppone una capacità di rimborso “lunga”, ovvero che il soggetto finanziatore sia in grado di assumersi il rischio di vedersi restituire il prestito in un siffatto lasso temporale, per cui occorre che il soggetto beneficiario del prestito sia solvibile,e che il rapporto costì istaurabile si perfezioni in un ambito contrattuale e giuridico improntato alla certezza e rimedi abilità. Queste dimensioni finanziarie sembrano non essere agevolmente rese disponibili e/o acquisibili dalla finanza pubblica, la quale finanza, evidentemente, allo stato non è in grado di procacciarsi queste risorse tramite la cosiddetta “fiscalità generale”. Sembra, quindi, che il ricorso al mercato finanziario, ovvero tramite soggetti collocati fuori dal sistema della finanza pubblica, sia una scelta necessitata oltre che impellente).

Ed, ecco, riemergere la solita questione della “finanziarizzazione”. Se è vero che l’economia sembra aver terminato la propria fase della finanziarizzazione, questa ultima - possentemente condizionata dalle lobbies1 e da una sorta di pensiero unico2 - è ora, come dire…. “passata” allo Stato, che da tempo l’ha traslata alla spesa pubblica e quindi alla popolazione3.

La lotta sulle tariffe non va quindi solo riferita agli aspetti dualistici che tengono alto il dibattito (pubblico e privato) ed enfatizzata (se non eretta) sugli aspetti “interni” dei modelli (aziendali e di impresa), bensì va collegata ai meccanismi che sovraintendono al mercato, in particolare al mercato finanziario e alla governance4.

Su tutti questi aspetti si gioca il nostro futuro. Qui occorre meditare e fors’anche mediare, per ri-costruire le nuove composizioni sociali e i nuovi modelli di Governance, in un modo dinamico, senza cadere nelle solite visioni manichee o in facili (quanto depistanti) ideologismi.

Per questo l’ennesimo dualismo tra economia reale e finanza sembra essere un altro trucco che occulta il tragico fenomeno (meccanismo) della estrazione del profitto, che ora avviene (come evidenziano i più avvertiti pensatori), fuori dagli edifici “lavorativi”, pescando nelle energie della società, quindi senza la necessità di una dotazione di capitale fisico. Il capitale cognitivo e quello “sociale” vengono, infatti, sussunti nel meccanismo di spostamento del profitto, il quale profitto non è più quella forma di remunerazione del capitale impiegato (per capirci) “industrialmente”, ma è, appunto, una diversa conversione del profitto che non remunera più il “lavoro” classicamente inteso. Rimane però fermo - occorre tenerlo presente - che il profitto si realizza comunque nella circolazione (rectius, con la compravendita) delle merci. E, quindi, se le tariffe (anche dei servizi pubblici locali) deprimono il potere di acquisto, anche questa circolazione diventa asfittica, creando ulteriori involuzioni economiche,eccetera. Ma con questa ultima notazione rimaniamo dentro il “pensiero unico”, cioè stiamo ragionando dentro la gabbia del meccanismo, per cui le soluzioni sono formulate dentro questo epistème e dentro questo assetto giuridico ed economico.

Occorre, invece, identificare degli elementi comuni in questa rivisitazione del mercato e della pubblicizzazione, sottraendoli al meccanismo, prima ancora alla palude del “pensiero unico”. La questione del servizio pubblico dell’acqua sembra essere, in questo senso, sintomatica e la cartina di tornasole dei beni comuni e della loro utilizzazione da parte della collettività che ne ha bisogno.

La dottrina sui beni pubblici si è vieppiù ingrossata, sia dall’angolo visuale economico, che giuridico, che sociologico, che filosofico, eccetera. Da ultimo, vogliamo segnalare la dotta e interessante ricostruzione fattane dal Giudice emerito della Corte Costituzionale, P. MADDALENA5, il quale, da subito, segnala la rilevanza della <dicotomia “appartenenza collettiva-appartenenza individuale o solitaria”> e che <è solo eventuale, e comunque poco rilevante, far riferimento alla dicotomia “pubblico-privato”>6. Invece, per il <regime codicistico, la proprietà privata, unitariamente e graniticamente concepita, è un concetto che mira a togliere cittadinanza giuridica alla proprietà collettiva, la quale può mascheratamene rintracciarsi soltanto in quel tipo di proprietà che è definita “demaniale” e che appartiene formalmente allo Stato-persona, considerato come persona giuridica unitaria, titolare di un diritto di proprietà individuale, ma sostanzialmente allo Stato-comunità, cioè all’intera Collettività >7. La nostra Costituzione dall’insieme dei suoi articoli consente di affermare che essa Carta fondamentale impone di perseguire la funzione sociale della proprietà, <mentre ogni cittadino ha il diritto sociale fondamentale ad ottenere la proprietà dei beni necessari per una esistenza “libera e dignitosa” (art. 36 Cost.), una proprietà definita dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948 “proprietà personale”. Il diritto alla proprietà privata è, conseguentemente, scorporato dai diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost. La proprietà privata non è un diritto umano inviolabile, che precede l’ordinamento giuridico, ma è un diritto che in tanto esiste in quanto la legge lo riconosca e garantisca subordinandolo allo scopo di assicurarne la “funzione sociale”>. Peraltro, continua il Nostro, <i Costituenti, pur dichiarando espressamente che “la proprietà è pubblica o privata”, hanno comunque attinto alla summa divisio romanistica tra beni in commercio e beni fuori commercio. Essi, infatti, hanno descritto una complessa disciplina giuridica soltanto per la proprietà privata solitaria, dimostrando così di ben conoscere la distinzione tra proprietà collettiva e proprietà individuale, ed implicitamente ammettendo la dicotomia “beni comuni (incommerciabili) e beni individuali (commerciabili)”.> Ancora, nella disciplina dei beni degli enti locali, alcuni beni , tra i quali il demanio idrico, per la loro funzione ed essenzialità (riferita ai bisogni della popolazione) sono intrasferibili (in modo assoluto), talchè l’esimio Autore trova sorprendente che la normativa sul cosiddetto “federalismo demaniale” preveda il contrario, trasferendo molti di questi beni ai demani regionali e provinciali, sdemanializzandoli ai sensi dell’art. 829 del codice civile, poiché <si tratta di provvedimenti legislativi di gravità eccezionale, che vanno contro la lettera e lo spirito della Costituzione>.

Tutto questo ci riporta alle nostre iniziali (da sviluppare in successivi interventi) considerazioni che non devono limitarsi ad affermazioni manichee: pubblico/privato, Stato/non stato, privatizzazione/statalizzazione (o pubblicizzazione che sia), eccetera.

Risolvere questi grandi temi a colpi di decreti e di slogans non serve se non a ingarbugliare ulteriormente la matassa, addirittura imbrogliando i concetti e le finalità che dovrebbero sostenere i cambiamenti che si auspicano in questa epoca post-post-moderna.

Si provino, quindi, a recuperare, prima di parlare (spesso in modo superficiale e modaiolo) questi temi, questa “cultura” impregnata di una grande storia (da recuperare e gustare) e,soprattutto, di avere il coraggio di rileggere la storia, le teorie e la prassi secondo i bisogni del “comune”.

1 <Come si vede negli ultimi mesi, il futuro dell’Europa dipende in maniera crescente non più dai capitali europei e americani ma dai capitali cinesi che stanno facendo acquisti in massa di imprese, fabbriche, marchi e beni europei. I «responsabili» europei se la cavano dicendo: «in una società capitalista non c’è nessun male in ciò. Ieri abbiamo dominato i cinesi. Oggi la ruota va in senso contrario. Punto». Ma lo spettacolo della debolezza strutturale e della disunione politica dell’Europa di fronte alla potenza schiacciante e micidiale dei soggetti finanziari, speculatori per di più, e persino delle società private di rating induce una smorfia di rabbia e di indignazione> così R. PETRELLA, Per un’europa dei beni comuni, in sbilanciamoci.org.

2 Sul pensiero unico si veda ex multis, E.BRANCACCIO, La crisi del pensiero unico, Milano, 2010.

3 La bolla dei debiti pubblici (si vedano i Paesi P.I.G.S. – Portogallo,Irlanda, Grecia, Spagna - tra i quali qualcuno vuole inserire una doppia “I” per l’Italia) è sintomatica, ed è stata grandemente sottovalutata fino alla sua recente esplosione (ancora sottovalutata). Nel tempo si è cercato di concentrare l’attenzione sulla bolla cosiddetta dei “sub-prime”, prima ancora su quella immobiliare e su quella internettiana. Si badi come la bolla dei debiti pubblici viene e verrà addossata alla popolazione (attuale e futura), con problematiche redistributive e di equità (anche intergenerazionale) che creeranno, quantomeno, problemi di coesione sociale nella caduta della cosiddetta “classe media”,ma soprattutto nella privazione di futuro per i giovani e della sicurezza di sostentamento per molti anziani (al di là delle perdite dei risparmi già realizzatesi per molti, dove la voracità del sistema finanziario ha mostrato il suo vero volto).

4 Sull’argomento molto stimolante, anzi decisamente istruttivo, è il volume (a cura di M.BLECHER, G.BRONZINI, R. CICCARELLI, J.HENDRY, C.JOERGES), Governance, società civile e movimenti sociali. Rivendicare il comune, Roma, 2009.

5 Si veda l’acuto scritto di P. MADDALENA, in www.federalismi.it, titolato <Beni comuni nel codice civile,nella tradizione romanistica e nella Costituzione della Repubblica Italiana> del 5 ottobre 2011.

6 Osserva sempre P. MADDALENA, op.cit., <Questa distinzione, del resto, era chiara già nell’art. 1 del Regolamento per l’amministrazione e la contabilità generale dello Stato, approvato con R.D. 4 maggio 1885, n. 3074, il quale disponeva testualmente: “I beni dello Stato di distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali. Costituiscono il demanio pubblico i beni che sono in potere dello Stato a titolo di sovranità, e formano il patrimonio quelli che allo Stato appartengono a titolo di privata proprietà”>

7 P. MADDALENA, Danno pubblico ambientale, Rimini, 1990, pag. 134.