Cass. Sez. III, Sentenza n. 1356 del 19-1-2007 (Ud. 5/12/2006 )
Presidente: Papa E. Estensore: Sensini MS. Imputato: P.G. in proc. Scotti.
(Annulla con rinvio, Trib. Pavia, 12 maggio 2005)
PRODUZIONE, COMMERCIO E CONSUMO - PRODOTTI ALIMENTARI (IN GENERE) - REATI - IN GENERE - Vendita di risi miscelati - Illecito amministrativo di cui alla legge 586 del 1962 - Reato di frode in commercio - Concorso reale - Fondamento.

Il reato di frode nell'esercizio del commercio, di cui all'art. 515 cod. pen., si pone in relazione di concorso reale con la disposizione di cui all'art. 2 della legge 5 giugno 1962 n. 586, divieto di immissione al consumo di miscele di risi, sanzionata amministrativamente, atteso che quest'ultima è posta a garanzia della qualità dei prodotti e della salvaguardia della salute, mentre la disposizione codicistica tutela la correttezza e lealtà commerciale. REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. PAPA Enrico - Presidente - del 05/12/2006
Dott. ONORATO Pierluigi - Consigliere - SENTENZA
Dott. GENTILE Mario - Consigliere - N. 1966
Dott. FRANCO Amedeo - est. Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. SENSINI Maria Silvia - Consigliere - N. 41149/2005
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO TRIBUNALE di PAVIA;
nei confronti di:
1) SCOTTI ANGELO DARIO, N. IL 26/01/1956;
avverso SENTENZA del 12/05/2005 TRIBUNALE di PAVIA;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. SENSINI MARIA SILVIA;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. PASSACANTANDO G. che ha concluso per annullamento con rinvio;
udito il difensore Avv. PALIERO Carlenrico (Milano). SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE
Con sentenza in data 12/5/2005 il Tribunale di Pavia mandava assolto Scotti Angelo Dario dall'imputazione di cui all'art. 515 c.p. con la formula "perché il fatto non costituisce reato".
Emergeva dalla sentenza che l'esercizio di vendita al dettaglio "Big Market" di Bogara deteneva per la vendita confezioni di riso "vialone nano semifino" provenienti dalla riseria di cui l'imputato era legale rappresentante, confezioni che, secondo l'analisi effettuata dell'Ente Nazionale Risi, in realtà contenevano una miscela di risi composta per il 28% di riso cripto di qualità inferiore a quella dichiarata. Il fatto suddetto, ad avviso del Tribunale di Pavia, integrava l'illecito amministrativo previsto dalla L. 18 marzo 1958, n. 325, art. 4, lett. a, con esclusione - in applicazione del principio di specialità di cui all'art. 15 c.p. - del reato di cui all'art. 515 c.p..
Avverso la sentenza ricorreva per saltum il Procuratore Generale, deducendo: 1) violazione della L. n. 689 del 1981, art. 9, comma 3 (art. 606 c.p.p., lett. b) posto che il richiamato principio di specialità non poteva, nel caso concreto, trovare applicazione in virtù della deroga contenuta nel citato art. 9, comma 3, ricadendosi - nella specie - sotto la disciplina della L. n. 283 del 1962, art. 5, lett. a; 2) violazione dell'art. 9 legge citata, comma 1, trovando applicazione - il principio di specialità ivi previsto - solo allorché la norma amministrativa e quella penale prevedano lo stesso fatto: per contro, nella specie, si era in presenza di norme con oggettività giuridica diversa. Si chiedeva l'annullamento della sentenza. Con memoria difensiva ai sensi dell'art. 121 c.p.p. il difensore dello Scotti evidenziava, in via preliminare, l'infondatezza del ricorso del Procuratore Generale, stante la sua evidente contraddittorietà "interna". Invero, nel primo motivo di gravame, il ricorrente era partito dall'assunto di una identità di oggetto giuridico tra la L. n. 283 del 1962, art. 5, lett. a, e l'art. 515 c.p., contestato nella specie. Solo in tal modo, infatti, potevano trovare spiegazione le argomentazioni del Procuratore Generale, che aveva negato l'applicabilità del principio di specialità sulla base della norma derogatoria di siffatto principio generale, fissata dalla L. n. 689 del 1981, art. 9, comma 3. Per contro, nel secondo motivo del ricorso, si affermava che la norma sugli alimenti e l'ipotesi disciplinata dall'art. 515 c.p. avevano diversa oggettività giuridica. Evidente, pertanto, la contraddittorietà dei due motivi. Passando all'esame nello specifico, argomentava la difesa che l'errore che viziava la prima censura concerne va la stessa identificazione delle fattispecie ipotizzate in situazione di conflitto di norme. Invero, l'imputazione riguardava il delitto di frode in commercio; la sentenza impugnata aveva ravvisato un concorso di norme tra tale delitto e l'illecito amministrativo di cui alla L. n. 325 del 1958, art. 4, lett. a) e art. 13, qualificando tale concorso come "apparente" alla stregua della L. n. 689 del 1981, art. 9, comma 1. Una eventuale applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 9, comma 3, appariva priva di qualunque presupposto per due ordini di ragioni: in primo luogo, una norma derogatoria in malam partem deve intendersi sempre di stretta interpretazione e mai applicabile in via analogica; nella specie, la norma in questione faceva riferimento alla L. n. 283 del 1962, artt. 5, 6, e 12, fattispecie mai contestate nel presente processo. La seconda ragione era rappresentata dal fatto che sia la fattispecie effettivamente contestata - cioè quella di cui all'art. 515 c.p. - sia la norma evocata dal Procuratore Generale (L. n. 283 del 1962, art. 5) erano entrambe fattispecie di natura omogenea e penale, mentre la L. n. 689 del 1981, art. 9, comma 3 disciplina, in chiave derogatoria, il concorso tra norma penale e norma sanzionatoria amministrativa, vale a dire tra fattispecie eterogenee, l'una penale e l'altra amministrativa.
Infondato doveva ritenersi anche il secondo motivo del gravame del Procuratore Generale. Una volta esclusa l'applicabilità della L. n. 689 del 1981, art. 9, comma 3, restava aperta la possibilità di applicare la L. citata, art. 9, comma 1, come esattamente fatto dal Giudice di prime cure. Le censure del Procuratore Generale avevano per oggetto la presunta diversità dei fatti contemplate dalle due norme violate, trattandosi di norme con oggettività giuridica diversa e, pertanto, escluse dalla applicazione dell'art. 9. Un simile argomentare doveva ritenersi, però, infondato, apparendo del tutto congetturale l'interpretazione, proposta nel ricorso, delle due oggettività giuridiche. Al contrario, tra l'art. 515 c.p. e la disposizione di cui alla L. n. 325 del 1958, artt. 4 e 13, doveva ritenersi sussistente un concorso "apparente" di norme e che norma speciale - e, dunque, prevalente - doveva ritenersi quella di cui all'art. 13, più specifica rispetto a quella codicistica, anche per il fatto che - strutturalmente - meglio si attagliava all'attività contestata nel caso concreto. Si chiedeva il rigetto del ricorso del Procuratore Generale. Il ricorso, per contro, è fondato e va accolto per quanto di seguito esplicitato. Pur dovendosi convenire con la difesa dello Scotti - come perspicuamente dalla stessa osservato - che il primo motivo del ricorso poggia su un evidente equivoco in cui il Procuratore Generale è incorso, concernente la stessa identificazione delle fattispecie ipotizzate in situazione di conflitto, posto che la norma derogatoria, tra l'altro, derogatoria in malam partem e, dunque, di stretta interpretazione in ogni caso insuscettibile di applicazione analogica, è rigorosamente riferita a tre specifiche disposizioni legislative, vale a dire la L. n. 283 del 1962, artt. 5, 6 e 12, fattispecie mai contestate nel presente procedimento, la fondatezza del secondo motivo di censura è di per sè assorbente, e comunque tale da contrastare le contrarie argomentazioni difensive. Invero, il principio di specialità cui fa riferimento il più volte richiamato art. 9, comma 1, può trovare applicazione solo allorquando la disposizione penale e quella prevedente una sanzione amministrativa puniscano "uno stesso fatto". Nella specie, si osserva che la L. n. 325 del 1958, art. 4 (nel testo novellato dalla L. 5 giugno 1962, n. 586, art. 2), recita testualmente: "È vietato porre in vendita o comunque immettere al consumo, per l'alimentazione umana: miscele di risi superfini, fini, semifini e comuni o originari; per i primi tre gruppi è vietata la miscela di varietà anche se appartenenti allo stesso gruppo. Le miscele di risi appartenenti a varietà del gruppo "Superfino", "Fino", "Semifino" o varietà non classificate oppure a quelle del gruppo comune o originario sono consentite, purché vendute con la sola indicazione di "Riso Comune sottotipo", ovvero " Riso originario sottotipo", da riportarsi sulla confezione e sui cartellini con caratteri ben visibili, di formato non inferiore ad un centimetro di altezza".
Raffrontando tale fattispecie con quella prevista dall'art. 515 c.p., si evince, come primo dato, la diversa materialità delle due norme a confronto. Infatti, mentre l'ambito di operatività della norma speciale va individuato nel divieto di porre in vendita e, comunque, di immettere nel consumo miscele di risi superfini, fini, semifini e comuni o originari, tranne l'ipotesi in cui le stesse siano vendute con la indicazione di "Riso comune sottotipo" ovvero di "Riso originario sottotipo", da riportarsi sulla confezione, l'elemento materiale del reato di cui all'art. 515 c.p. postula la consegna, nell'esercizio del commercio, di una cosa diversa da quella pattuita e dichiarata. Da ciò emerge che le due disposizioni in esame riguardano condotte diverse, presupponendo, la fattispecie codicistica, l'esercizio di un'attività commerciale o di uno spaccio aperto al pubblico, nel cui ambito di operatività viene posta in essere la condotta censurata dell'aliud pro alio, laddove la disposizione speciale sanziona (amministrativamente) la consegna di un prodotto, qualitativamente diverso, come genuino. L'ontologica diversità tra le riferite condotte può comportare, tra l'altro, il verificarsi dell'una senza la ricorrenza degli estremi dell'altra: si pensi, ad esempio, al caso non infrequente in cui la consegna di miscele di riso vietate intervenga tra privati, al di fuori dell'esercizio di un'attività commerciale. Di certo, in tal caso, non ricorrerà la fattispecie di cui all'art. 515 c.p., il quale richiede che la consegna di una cosa mobile per un'altra ovvero di una cosa mobile diversa per origine, provenienza, qualità o quantità da quella dichiarata o pattuita, intervenga nell'ambito di un'attività commerciale ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, ma sicuramente sussistente sarà la violazione di cui alla L. n. 325 del 1958, art. 4. Come pure sussisterà la sola violazione amministrativa nel caso in cui non vi sia divergenza tra quanto dichiarato ed il contenuto del prodotto consegnato, non essendovi spazio, neppure in tal caso, per la operatività del disposto di cui all'art. 515 c.p.. Ora, poiché il concorso apparente di norme presuppone, in virtù del principio di "specialità" che la norma incriminatrice speciale presenti necessariamente tutti gli elementi costitutivi di quella generale, oltre a quelli specializzanti, le considerazioni sopra svolte consentono di escludere un tale rapporto tra le due norme richiamate, rivelandosi conclusivo il fatto che l'una può ritenersi integrata senza che, necessariamente, sussista anche l'altra. Va, inoltre, evidenziato - secondo il consolidato orientamento di questa Corte - che le due previsioni normative si pongono in una relazione di concorso reale (non apparente) per la diversa obiettività giuridica e per il diverso interesse protetto: garanzia della qualità dei prodotti venduti e della salvaguardia della salute pubblica nel caso della disposizione speciale; tutela della correttezza e della lealtà commerciale, nel caso disciplinato dall'art. 515 c.p. (cfr., in termini, Cass. Sez. 3^, sent. n. 7318 del 2000, Godino; conf. Cass. Sez. 3^ sent. n. 1686 del 1998, Abrate).
Anche i beni giuridici tutelati, dunque, non soltanto non sono identici, ma nemmeno omogenei, con la conseguenza che - neppure sotto tale aspetto - può trovare applicazione il principio di specialità fissato dalla L. n. 689 del 1981, art. 9, comma 1. Conforta tale orientamento l'ulteriore previsione della circostanza aggravante di cui all'art. 517 bis c.p., introdotto dal D.Lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, art. 5, nel contesto della depenalizzazione, che aumenta la pena prevista dagli artt. 515, 516 e 517 c.p. nell'ipotesi di alimenti o bevande protette, garantendo una tutela specifica aggiuntiva rispetto a quella delle corrispondenti violazioni amministrative, delle quali, dunque, presuppone il concorso.
Il ricorso del Procuratore Generale è, dunque, fondato e la sentenza va annullata, con trasmissione degli atti al giudice a quo per un nuovo giudizio.
Secondo quanto già argomentato da questa Sezione circa il regime processuale del presente ricorso (cfr. Cass. Sez. 3^, 29/11/2006, Imberti), gli atti vanno trasmessi alla Corte di Appello di Milano per nuovo esame.
P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Milano.
Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2007