Cass. Sez. III n. 22632 del 17 giugno 2025 (UP 15 mag 2025)
Pres. Ramacci Rel. Galanti Ric. PM in proc. Majid
Alimenti.Cattivo stato di conservazione
Il fine primario della normativa in materia di alimenti (il c.d. «bene-fine») è la tutela della «salute pubblica», in relazione al quale la violazione di cui all'articolo 5, lettera b), I. 283 del 1962 si pone come reato di pericolo presunto; essa si ottiene attraverso la tutela della «sicurezza alimentare» (c.d. «bene-mezzo», o bene «strumentale»), a presidio della quale è posta, a carico di coloro che intervengono professionalmente in tutta la filiera alimentare (produzione, distribuzione e vendita), una serie di obblighi tali da garantire la sussistenza dei requisiti di igiene, in relazione al quale la violazione di cui sopra si pone come reato di danno. La presenza di alimenti in cattivo stato di conservazione all'interno del complesso dell'esercizio commerciale viola l'affidamento» del consumatore a che il prodotto giunga al consumo con le cure igieniche imposte dalla sua natura, cui corrisponde, sul versante del soggetto attivo del reato, una posizione di garanzia circa la sussistenza, in tutta la filiera alimentare, dei requisiti di igiene, e ciò indipendentemente dalla concreta messa in vendita dell'alimento.
PREMESSO IN FATTO
1. Con sentenza del 25 giugno 2024, il Tribunale di Trieste assolveva Muhamad Majid, titolare del pubblico esercizio "Baba kebab", in relazione alla contravvenzione di cui all'articolo 5, lettere b) e d), I. 283/1962, commessa in data 8 agosto 2022, perché il fatto non sussiste.
2. Avverso tale sentenza propone ricorso il pubblico ministero triestino, lamentando, con un unico motivo, che, contrariamente a quanto affermato in sentenza, la detenzione di alimenti in cattivo stato di conservazione all'interno dei locali del pubblico esercizio, in locale attiguo a quello di vendita, configurasse l'ipotesi contravvenzionale contestata.
3. In data 3 marzo 2025 l'Avv. Salvatore Dionesalvi, per l'imputato, depositava memoria in cui contestava il ricorso del Procuratore della Repubblica, evidenziando, in primis, che la sentenza della Cassazione citata dal ricorrente per argomentare le proprie doglianze al provvedimento impugnato, attiene a fattispecie diversa dal caso oggetto del presente processo, atteso che il luogo in cui si cristallizzava il fatto di tale invocata sentenza era il locale delle cucine di un esercizio commerciale destinato alla commercializzazione ed alla vendita delle pietanze calde.
Nel caso in esame, invece, si fa riferimento ad un frigo, collocato in un magazzino, ovvero posizionato all'interno di altro locale, distante e diverso dalle sale del bar ove veniva effettuata la mescita di bevande da parte dell'indagato, il cui esercizio commerciale era dotato e perfettamente funzionate di altro frigo, ben visibile all'utenza, contenente i prodotti destinati all'attività commerciale al pubblico, tutti immuni da censure o da criticità.
Ne consegue che il richiamo che il Sig. Procuratore della Repubblica di Trieste nel suo ricorso fà a tale sentenza non è sovrapponibile al caso in esame, ma è del tutto inconferente e va, pertanto, disatteso in toto.
Nel merito, comunque, il difensore contesta il ricorso, atteso che non sarebbe sufficiente ad integrare la fattispecie contravvenzionale la mera disponibilità da parte del commerciante delle sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione, in quanto occorre che le stesse siano destinate alla vendita.
Ma la destinazione alla vendita di tali alimenti non è stata provata (anche se si tenta di desumerla erroneamente), atteso che all'interno del locale, con accesso al pubblico, e dunque ben visibile, del Sig. Majid, vi era un altro frigorifero, quello operativo e funzionale all'esercizio commerciale, che serviva all'attività di vendita, ma che non è stato attenzionato dagli operanti perché contenente prodotti destinati al commercio ed alla vendita in buon stato, e di fatto idonei alla commercializzazione, alla vendita ed al consumo.
Ne consegue la legittimità e la correttezza della sentenza impugnata, che motiva l'assoluzione dell'imputato perché il fatto non sussiste.
4. Il processo, inizialmente fissato per il 18 marzo 2025, veniva rinviato a data odierna per un difetto di notifica.
RITENUTO IN DIRITTO 2
1. Il ricorso è fondato.
2. Preliminarmente, il Collegio evidenzia che, sotto un profilo lessicale, con il termine «conservazione» si deve intendere sia «l'effetto del conservare» (ossia il mantenimento delle caratteristiche iniziali dell'alimento), che «l'atto e il modo di conservare» (e cioè le attività dirette ad assicurare tale mantenimento); parimenti, con l'espressione «stato di conservazione» vanno indicati tanto il «risultato dell'attività di mantenimento», quanto «le condizioni presenti per ottenere il risultato stesso» (così Sez. U, n. 443 del 19/12/2001, dep. 2002, Butti, Rv. 220717).
Inoltre, lo stesso aggettivo «cattivo» può essere inteso sia quale «"predicativo dell'oggetto" e cioè delle sostanze alimentari, sia come "complemento di modo", che indica la maniera in cui si compie l'azione espressa dal verbo».
In altri termini, con la locuzione in parola si possono intendere sia le «caratteristiche intrinseche delle sostanze alimentari», sia «le modalità estrinseche con cui si realizza, che devono uniformarsi alle prescrizioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso contrario, a regole di comune esperienza» (così anche Sez. 3, n. 16347 del 11/01/2021, Tagliavia, Rv. 281034 - 01), riferendosi l'illecito a sostanze alimentari «mal conservate, e cioè preparate, confezionate o messe in vendita senza l'osservanza delle prescrizioni dirette a prevenire il pericolo di una loro precoce degradazione, contaminazione o comunque alterazione del prodotto» (Sez. 3, Sentenza n. 33313 del 28/11/2012 Ud. (dep. 01/08/2013 ) Rv. 257130 *- 01).
Tale soluzione ermeneutica deriva anche da una lettura sistematica dell'articolo 5 in parola, in cui la lettera b), a differenza delle ipotesi previste nelle lettere a) c) e d), che si riferiscono alle sostanze alimentari già private delle sostanze nutritive, viziate o alterate (con cariche microbiche superiori ai limiti consentiti e sostanze insudiciate, invase da parassiti, in stato di alterazione o comunque nocive, ovvero sottoposte a lavorazioni o trattamenti diretti a mascherare un preesistente stato di alterazione), non può che riferirsi, anche alla non buona conservazione sotto il profilo igienico — sanitario.
Si è, così, ritenuto che concretizzino la contravvenzione in parola la detenzione di alimenti surgelati in violazione del disposto dell'art. 3 d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 110 (Attuazione della direttiva 89/108/CEE in materia di alimenti surgelati destinati all'alimentazione umana), ove la preparazione dei prodotti da surgelare e l'operazione di surgelamento non siano effettuate «senza indugio» ed osservando le modalità normativamente descritte (Sez. 3, n. 46860 del 16/10/2007, Pulejo, Rv. 238449 - 01), ovvero la detenzione all'aperto di frutta esposta agli agenti atmosferici ed inquinanti (Sez. 3, n. 6108 del 17/01/2014, Maisto, Rv. 258861 - 01), ovvero ancora la conservazione di bottiglie di acqua minerale all'aperto ed esposte al sole (Sez.
3, n. 39037 del 10/05/2018, Malcaus, Rv. 273919 - 01) o, ancora, la detenzione di prodotti a base di carne all'esterno del banco frigorifero del supermercato ove erano destinati alla vendita (Sez. 3, n. 41260 del 16/09/2004, Fina, n.m.).
3 3. Secondo la piana giurisprudenza della Corte, inoltre, il giudice può apprezzare il cattivo stato di conservazione degli alimenti senza necessità di prelievo di campioni e di specifiche analisi di laboratorio, sulla base di dati obiettivi risultanti dalla documentazione relativa alla verifica e dalle dichiarazioni dei verbalizzanti, essendo lo stesso ravvisabile, in particolare, nel caso di evidente inosservanza delle cautele igieniche e delle tecniche necessarie ad assicurare che le sostanze si mantengano in condizioni adeguate per la successiva somministrazione (Sez. 3, n. 20937 del 26/04/2021, Ipito, Rv. 281651 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 2690 del 06/12/2019, dep.2020, Barletta, Rv. 278248).
4. Nel caso oggetto dell'odierno scrutinio, a pag. 2 della sentenza impugnata si dà atto che, dalla deposizione degli operanti, emergeva che all'interno di un frigorifero/congelatore collocato nel magazzino dell'esercizio commerciale denominato «Baba Kebab di Majid Muhammad» venivano rinvenuti «circa 2 kg. di pomodori marcescenti e nove confezioni di generi alimentari, alcune delle quali aperte ma tutte apprezzabili per il cattivo stato di conservazione e per la presenza di alterazioni organolettiche, nonché per del cibo sfuso, anch'esso in pessimo stato di conservazione».
Tale valutazione, di mero fatto, non appare contestabile in sede di legittimità, e del resto la stessa sentenza gravata non censura l'aspetto «topografico» della vicenda, dianzi evidenziato, appuntando le ragioni dell'assoluzione sull'assenza di cibi in cattivo stato di conservazione sul bancone di vendita, nonché sulla presenza di altro frigorifero contenente solo alimenti ben conservati, elementi da cui ha desunto l'assenza di prova circa la «destinazione alla vendita».
5. Tanto premesso in fatto, il Collegio evidenzia come la giurisprudenza della Corte abbia stabilito che il reato di cui all'art. 5 della legge 30 aprile 1962, n. 283, è integrato dalla mera presenza di prodotti alimentari in cattivo stato di conservazione o di alterazione nelle cucine di un esercizio pubblico autorizzato alla vendita o alla distribuzione di essi, essendo irrilevante, quale causa di esclusione della responsabilità, la «cessazione momentanea della attività di somministrazione dei cibi ai clienti» (Sez. 3, n. 19179 del 13/01/2015, Callegari, Rv. 263741 - 01); inoltre, la condotta prevista dalla norma in parola «deve considerarsi pienamente integrata nel caso di rinvenimento, all'interno di un frigo congelatore esistente nei locali dispensa di un esercizio di somministrazione di cibi e bevande al pubblico, di alimenti in cattivo stato di conservazione o di alterazione» (ex plurimis, sez. 3, 11 novembre 2010 n. 42503, Rv. 248760), essendo irrilevante, ai fini dell'esclusione della responsabilità penale, finanche la momentanea chiusura del ristorante.
Analogamente, nel contiguo settore della frode in commercio (in relazione al quale - a conferma della stretta correlazione tra le due ipotesi di reato - si è ritenuto che non violi il principio di correlazione con l'imputazione la condanna in ordine al reato di detenzione per il commercio o somministrazione di alimenti in cattivo stato di conservazione a fronte della 4 contestazione di tentativo di frode in commercio, Sez. 3, n. 42503 del 11/11/2010, De, Rv. 248760 - 01; Sez. 3, n. 31317 del 05/06/2019, Rahaman, Rv. 276595 - 01), questa Corte ha ritenuto che, nel caso in, cui gli alimenti (in quel caso surgelati, ma il principio vale anche per gli alimenti «freschi») siano conservati nelle cucine, in modo tale da renderne evidente la loro destinazione alla preparazione delle pietanze da somministrare ai clienti dell'esercizio commerciale, non occorre alcun inizio della contrattazione per ritenere che la condotta sia diretta in modo idoneo e non equivoco a realizzare il reato di frode in commercio, essendo chiara la destinazione di detti alimenti surgelati alla preparazione di cibi (Sez. 3, n. 10375 del 11/12/2019, dep. 2020, Bonanni, n.m.).
Tali semplici considerazioni sarebbero di per sé sufficienti per una pronuncia cassatoria.
6. Va peraltro doverosamente aggiunto, per i riflessi che proietta sul presente processo, che la citata sentenza Butti delle Sezioni Unite ha chiarito, con principio successivamente ribadito dalle Sezioni semplici (Sez. 3, n. 35234 del 28/06/2007, Lepori, Rv. 237518; Sez. 3, n. 40772 del 05/05/2015, Torcetta, Rv. 264990), che l'articolo 5, lettera b), I. 283/1963 non tutela il cittadino dalla produzione di un danno alla salute, per cui il reato «può essere qualificato quale reato "di danno" a condizione che si individui nell'interesse protetto dalla norma quello del rispetto del c.d. "ordine alimentare", ovvero quello del consumatore a che la sostanza alimentare giunga al consumo con le garanzie igieniche imposte per la sua natura» (Sez. 3, n. 35828 del 07/07/2004, Cicolella, Rv. 229392 - 01; Sez. 3, n. 6108 del 17/01/2014, Maisto, Rv. 258861 - 01).
In altre parole, secondo le Sezioni Unite, se alla norma in esame si riconosce il «compito di tutelare l'ethos del consumatore, assicurando una protezione anche a quella sfera di tranquillità che ritrae dalla sicurezza che il prodotto sia giunto al consumo con le cure igieniche imposte dalla sua natura, il reato che essa reprime è un reato di danno».
E una ratio legis del genere non solo non eccede dall'ordinaria ragionevolezza, ma integra un elemento di fondazione di un «ordine alimentare», limite alla iniziativa economica privata, che si riallaccia all'utilità sociale.
La contravvenzione de qua sarebbe quindi un reato di danno, non già perché lede la salute del consumatore, sebbene perché offende l'interesse immediato del consumatore a che la sostanza alimentare giunga al consumo con le garanzie igieniche imposte dalla sua natura.
Il reato in parola sussisterebbe quindi tutte le volte in cui le modalità di conservazione delle sostanze alimentari «contrastino con previsioni normative, o anche soltanto con le regole dell'esperienza, sì da pregiudicare l'interesse del consumatore a che l'alimento sia oggettivamente ben mantenuto prima di essere ulteriormente lavorato o utilizzato nella produzione, venduto, preparato o somministrato per il consumo» (cfr. Sez. 3, n. 39037 del 10/05/2018, Malcaus, Rv. 273919; Sez. 3, n. 40554 del 26/06/2014, Hu Wei, Rv. 260655; Sez. 3, n. 6108 del 17/01/2014, Maisto, Rv. 258861; Sez. 3, n. 33313 del 28/11/2012, dep. 2013, Maretto, Rv. 257130).
In tal senso, quella di «conservazione» sarebbe una «nozione aperta di facile comprensione che rimanda anche a concetti generalmente condivisi dalla collettività, la quale, a parametro del proprio giudizio, prima ancora che atti normativi, pone regole di comune esperienza, usi e prassi, espressione della cultura tradizionale», ciò che non contrasta con il principio di tassatività che vige in materia penale, dovendo ovviamente ritenersi che, «sussistendo una disciplina promanante da un atto normativo, l'interprete si riferirà unicamente a quella e che l'operatività delle nozioni di esperienza ha un ambito meramente residuale» (così anche Sez. 3, n. 14549 del 05/03/2020, Di, Rv. 278775 - 01).
Pertanto, come peraltro già ventilato nel par. 2, il maggioritario orientamento di questa Corte ravvisa la sussistenza della contravvenzione in parola tutte le volte in cui le modalità di conservazione delle sostanze alimentari contrastino con previsioni normative, o anche soltanto con le regole dell'esperienza, sì da pregiudicare l'interesse del consumatore a che l'alimento sia oggettivamente ben mantenuto prima di essere ulteriormente lavorato o utilizzato nella produzione, venduto, preparato o somministrato per il consumo (cfr. Sez. 3, n. 39037 del 10/05/2018, Malcaus, Rv. 273919; Sez. 3, n. 40554 del 26/06/2014, Hu Wei, Rv. 260655; Sez.3, n. 6108 del 17/01/2014, Maisto, Rv. 258861; Sez. 3, n. 33313 del 28/11/2012, dep. 2013, Maretto, Rv. 257130).
Non mancano tuttavia pronunce (Sez. 3, n. 348 del 27/11/2018, dep. 2019, Signorelli, Rv.274566) in cui si è evidenziato che l'art. 5 del Regolamento CE 852/2004 stabilisce il principio che attribuisce agli operatori la responsabilità di «prevenire, eliminare o ridurre ad un livello accettabile il rischio che può presentare una contaminazione», ciò che costituisce, in realtà, il paradigma del reato di pericolo astratto, che consente una anticipazione della soglia della punibilità alla mera «detenzione per la somministrazione» di alimenti in cattivo stato di conservazione.
Sulla stessa linea d'onda Sez. 3, n. 31035 del 09/06/2016, Greco, Rv. 267378 - 01, secondo cui, a fronte della deduzione difensiva secondo cui le disposizioni in tema di tracciabilità della materia prima non avrebbero alcuna incidenza sulla valutazione del prodotto finito e sulla sua pericolosità, riguardando esclusivamente il «rischio commerciale» dell'attività di impresa, ha affermato che la contravvenzione di cui all'art. 5, lett. b), I. n. 283 del 1962 costituisce un tipico reato di «pericolo presunto, con anticipazione della soglia di punibilità in ragione della rilevanza del bene-interesse tutelato (la salute umana), tale da prescindere dall'effettivo accertamento di un danno all'oggetto medesimo (da ultima, per tutte, Sez. 3, n. 40772 del 5/5/2015, Torcetta, Rv. 264990)».
Secondo tale indirizzo, nell'ottica di un reato di pericolo volto alla tutela della salute umana, la violazione sistematica (consapevole o colposa) delle disposizioni in tema di «tracciabilità» della 6 materia prima attiene direttamente all'insorgenza del rischio per il bene stesso e, di conseguenza, alla configurabilità del fumus del reato.
A ben vedere, i due indirizzi (l'uno che considera la contravvenzione in parola come reato «di danno» in relazione alla tutela dell'«ordine alimentare», l'altro come reato «di pericolo» in relazione alla tutela della «salute umana») sono solo apparentemente contrapposti, in quanto entrambi gli approcci consentono un approdo a conclusioni comuni.
Ed infatti, analizzando il Regolamento CE 852/2004 (che stabilisce «norme generali in materia di igiene dei prodotti alimentari») si chiarisce che la sua funzione è quella di «garantire un elevato livello di tutela dei consumatori con riguardo alla sicurezza degli alimenti» (considerando 7) lungo «tutta la catena alimentare, a cominciare dalla produzione primaria (art. 1, par. 1, lettera b).
La tutela della «salute pubblica» (considerando 3) si garantisce poi assicurando la «sicurezza degli alimenti», la quale a sua volta si ottiene, assicurando la «applicazione delle norme d'igiene» (considerando 17) e la «rintracciabilità degli alimenti e dei relativi ingredienti lungo la catena alimentare» (considerando 20).
L'articolo 3 del Regolamento stabilisce che «gli operatori del settore alimentare garantiscono che tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione degli alimenti sottoposte al loro controllo soddisfino i pertinenti requisiti di igiene fissati nel presente regolamento».
I principi di carattere generale contenuti nel regolamento del 2004 rendono pertanto evidente che, se il fine primario della normativa in parola (il c.d. «bene-fine») è la tutela della «salute pubblica» (rispetto al quale il reato in parola si configurerebbe come reato di pericolo astratto), essa si ottiene attraverso la tutela della «sicurezza alimentare» (c.d. «bene-mezzo», rispetto alla quale il reato in parola si configurerebbe come reato di danno), a presidio della quale è posta, a carico di coloro che intervengono professionalmente in tutte le fasi che vanno dalla produzione alla distribuzione, una serie di obblighi tali da garantire la sussistenza, in tutta la filiera alimentare, dei requisiti di igiene.
La legge, in altre parole, configura in capo a tutti i soggetti, che intervengono nelle fasi della produzione, trasformazione e distribuzione degli alimenti, una vera e propria «posizione di garanzia», cui corrisponde, sul versante opposto, un «affidamento» del consumatore sulla sicurezza degli alimenti a lui somministrati.
In tal senso, il Collegio condivide quella giurisprudenza secondo cui la norma in esame «persegue un autonomo fine di benessere, consistente nell'assicurare una protezione immediata all'interesse del consumatore a che il prodotto giunga al consumo con le cure igieniche imposte dalla sua natura» e che identifica il bene tutelato dalla norma ne «l'interesse del consumatore a che l'alimento sia ben mantenuto prima di essere ulteriormente lavorato o utilizzato nella produzione, venduto, preparato o somministrato per il consumo» (Sez. 3, n. 14549 del 05/03/2020, Di Lecce, Rv. 278775 - 01).
Conclusivamente, la violazione degli obblighi inerenti la posizione di garanzia individuata dalla legge e, specularmente, dell'«affidamento» ingenerato nel consumatore finale che nell'intera filiera alimentare siano rispettati i requisiti di igiene stabiliti dalla legge, rende evidente come il reato sia sicuramente ravvisabile, mediante ragionamento induttivo, nel caso - quale quello in esame - di detenzione dei cibi in cattivo stato di conservazione in locale contiguo a quello di somministrazione.
Non a caso, questa Corte (Sez. 3, n. 17548 del 25/03/2010, Seravini, Rv. 247488 - 01) ha ritenuto che integri il reato di detenzione per la vendita di prodotti alimentari in cattivo stato di conservazione la mera condotta consistente nella «materiale disponibilità» di quel prodotto da parte dell'operatore commerciale, sia esso grossista o dettagliante, «in vista della fornitura ai consumatori»; in tale ottica si è espressa anche Sez. 3, n. 7054 del 20/04/1999, Stacchini, Rv. 213997 - 01, secondo cui l'«immissione per il consumo» prevista dall'articolo 5 I. 283/1962 si verifica «quando il prodotto entra nella materiale disponibilità dell'operatore commerciale» che lo fornirà ai consumatori.
7. Tutto ciò posto, il Collegio evidenzia che, nel caso di specie, la mera presenza di altro frigorifero contenente alimenti ben conservati, nonché l'assenza sul bancone di vendita di cibi in cattivo stato di conservazione (v. pag. 3 sentenza gravata), non appaiono elementi sufficienti, in presenza di alimenti in cattivo stato di conservazione all'interno del complesso dell'esercizio commerciale, a escludere la violazione del principio di «affidamento» del consumatore dianzi evidenziato.
Coglie, del resto, nel segno il Procuratore generale laddove evidenzia che la normativa in materia di igiene alimentare impone il rispetto delle precise regole formali e sostanziali per confinare tale rifiuto in area destinata a deposito temporaneo a fini di smaltimento o recupero;
la violazione di tali obblighi di diligenza, nel non confinare il rifiuto, nel non distinguerlo dal prodotto da utilizzare, accettando necessariamente il rischio che quel prodotto - anche solo per errore - venga utilizzato o venga somministrato come idoneo, è già di per sé un concreto profilo di rimprovero che si ricava dalla fattispecie incriminatrice: chi mantiene nei propri impianti, tra i prodotti alimentari destinati alla distribuzione o al trattamento, dei prodotti alimentari non più correttamente utilizzabili in quanto non correttamente conservati, di fatto pone le condizioni perché essi si confondano con quelli utilizzabili e già questo integra la violazione del bene protetto dalla norma incriminatrice e costituisce rimprovero soggettivo penalmente rilevante, quanto meno sotto il profilo della colpa, essendo del tutto ultroneo che venga accertato anche l'ulteriore requisito della concreta messa in vendita del prodotto detenuto.
8. Tirando le fila di quanto sopra esposto, il Collegio conclude nel senso che:
- il fine primario della normativa in materia di alimenti (il c.d. «bene-fine») è la tutela della «salute pubblica», in relazione al quale la violazione di cui all'articolo 5, lettera b), I. 283 del 1962 si pone come reato di pericolo presunto; essa si ottiene attraverso la tutela della «sicurezza alimentare» (c.d. «bene-mezzo», o bene «strumentale»), a presidio della quale è posta, a carico di coloro che intervengono professionalmente in tutta la filiera alimentare (produzione, distribuzione e vendita), una serie di obblighi tali da garantire la sussistenza dei requisiti di igiene, in relazione al quale la violazione di cui sopra si pone come reato di danno;
- la presenza di alimenti in cattivo stato di conservazione all'interno del complesso dell'esercizio commerciale viola l'affidamento» del consumatore a che il prodotto giunga al consumo con le cure igieniche imposte dalla sua natura, cui corrisponde, sul versante del soggetto attivo del reato, una posizione di garanzia circa la sussistenza, in tutta la filiera alimentare, dei requisiti di igiene, e ciò indipendentemente dalla concreta messa in vendita dell'alimento.
La sentenza impugnata, che non ha correttamente applicato il quadro normativo in esame, va pertanto annullata con rinvio al Tribunale di Trieste in diversa persona fisica, che procederà a nuovo giudizio alla luce delle considerazioni di cui sopra.
9. La fondatezza del ricorso impone la verifica da parte del Collegio della eventuale sussistenza di cause estintive. Nel caso in esame la prescrizione del reato, contestato come commesso in data 8 agosto 2022, maturerà solo, in assenza di periodi di sospensione, in data 8 agosto 2027.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Trieste in diversa persona fisica.
Così deciso il 15/05/2025.