Cass. Sez. III n. 14246 del 11 maggio 2020 (CC 27 feb 2020)
Pres. Izzo Est. Reynaud Ric. Marraffa
Ambiente in genere. ZPS e ZSC classificate come aree protette
Il concetto di "aree naturali protette" è più ampio di quello comprendente le categorie dei parchi nazionali, riserve naturali statali, parchi naturali interregionali, parchi naturali regionali e riserve naturali regionali, in quanto ricomprende anche le zone umide, le zone di protezione speciale, le zone speciali di conservazione ed altre aree naturali protette . Ed invero, anche le zone ZPS e ZSC sono classificate come aree protette, giusta la previsione di cui all’art. 1, Deliberazione Ministero dell’Ambiente 2 dicembre 1996, adottata, ai sensi dell’art. 3, comma 4, l. 394/1991, dall’allora competente Comitato per le aree naturali protette.
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 22 ottobre 2019, il Tribunale di Palermo ha rigettato la richiesta di riesame proposta dall’odierno ricorrente avverso il decreto con cui il pubblico ministero aveva convalidato il sequestro probatorio di un fucile ed alcune munizioni, effettuato da personale del Corpo Forestale della Regione Siciliana in relazione ai reati di cui all’art. 21, comma 1, lett. b), l. 11 febbraio 1992, n. 157, nonché 11, comma 3, lett. f) e 30, comma 1, l. 6 dicembre 1991, n. 394 per aver introdotto arma da caccia carica ed esercitato attività venatoria in area protetta individuata come sito Natura SIC e ZPS.
2. Con il primo motivo di ricorso si lamenta violazione degli artt. 2, comma 5, 11, comma 3, lett. f), e 30, comma 1, l. 394/1991 sul rilievo che i siti di Natura 2000, qual è quello di specie, non sarebbero assimilabili alle aree protette.
In ogni caso, la citata legge non potrebbe trovare applicazione, poiché essa pone a carico di chi esercita la caccia l’onere di individuare le aree sottratte all’esercizio venatorio soltanto con riguardo ai parchi nazionali, mentre per i parchi regionali o le altre zone protette occorre l’individuazione delle aree vietate alla caccia ai sensi dell’art. 10, comma 9, l. 157/1992.
3. Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione della disposizione da ultimo richiamata – e conseguentemente dell’art. 21, comma 1, lett. b), l. 157/1992 – essendo pacifico che l’area ove fu trovato il ricorrente fosse priva di tabellazione ed apposite segnalazioni, né poteva logicamente affermarsi che il ricorrente fosse consapevole del divieto o che il divieto fosse conoscibile con l’ordinaria diligenza, non potendo la mera indicazione di un sito Internet nel calendario venatorio fondare una presunzione di conoscenza. Del resto, il ricorrente era stato poco prima controllato nella medesima zona da altra pattuglia del Corpo Forestale dello Stato senza che gli fossero state mosse contestazioni.
4. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta violazione dell’art. 253 cod. proc. pen. sul rilievo che si tratta di sequestro probatorio e che per l’accertamento dei fatti di reato contestati – che non presuppongono necessariamente l’uso di un’arma – non occorra svolgere alcun accertamento balistico, come invece ritenuto dall’ordinanza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso non è fondato, anche se la sussistenza del fumus commissi delicti va limitata ad una sola delle due contravvenzioni ipotizzate, vale a dire a quella prevista dal combinato disposto degli artt. 21, comma 1, lett. b), e 30, comma 1, lett. d, l. n. 157 del 1992.
Non sussiste, di fatti, il fumus dell’altro reato ipotizzato, quello di cui all’art. 11, comma 3, l. 394/1991, i cui divieti – nella specie, a quanto si comprende, viene in rilievo quello previsto dalla lett. f) per l’introduzione non autorizzata di un’arma – sono sanzionati penalmente ai sensi del successivo art. 30, comma 1. Posto che tali divieti si riferiscono esclusivamente ai parchi nazionali, giusta il chiaro campo di applicazione definito dalla disposizione, in mancanza di analoga, specifica, estensione dei medesimi divieti ad aree protette di diversa natura - ed in particolare, per quanto qui rileva, alle ZPS (Zone di Protezione Speciale) – nell’ambito di misure di salvaguardia o previsioni regolamentari, il principio di tassatività impedisce di configurare il reato. Va invero tenuto conto del fatto che le diverse tipologie di aree protette hanno differenti discipline e la stessa legge-quadro n. 394/1991 distingue le aree protette nazionali – cui è riservato il titolo secondo della legge, artt. 8-21, con tutela differenziata tra parchi nazionali, riserve naturali statali e aree protette marine - e le aree naturali protette regionali, cui è dedicato il titolo terzo (artt. 22-28).
Ai parchi nazionali la legge-quadro assicura la più incisiva forma di protezione, trattandosi peraltro dei siti che, per le modalità di istituzione (con d.P.R., ex art. 8, comma 1, l. 394/1991) e per la loro forma più strutturata quale ente pubblico con personalità giuridica, di regola istituito con legge ex art. 8, comma 6. l. 394/1991 (cfr., quanto alla disciplina dell’ente ed ai suoi organi, artt. 9 e 10 l. 394/1991), garantiscono una immediata riconoscibilità, anche dei relativi confini, così circoscrivendo chiaramente l’area in cui vigono i divieti penalmente sanzionati. L’ente parco – avente, come detto, personalità giuridica pubblica – ha inoltre potestà regolamentare ed i relativi regolamenti, da adottarsi da parte del Ministro dell’ambiente e da pubblicarsi sulla Gazzetta ufficiale, hanno efficacia sovraordinata anche rispetto ai regolamenti comunali (art. 11, comma 6, l. 394/1991).
Con particolare riguardo all’esercizio venatorio, è da rimarcare che il citato art. 11, comma 3, ne fa assoluto divieto all’interno dei confini del paco nazionale (lett. a), donde il correlativo divieto per i privati di introdurre «armi, esplosivi e qualsiasi mezzo distruttivo o di cattura, se non autorizzati» (lett. f). La possibilità, consentita al regolamento dell’ente parco, di apportare eventuali deroghe al divieto di cui alla lett. a), concerne esclusivamente i «prelievi faunistici ed eventuali abbattimenti selettivi, necessari per ricomporre squilibri ecologici accertati dall'Ente parco» e gli stessi «devono avvenire per iniziativa e sotto la diretta responsabilità e sorveglianza dell'Ente parco ed essere attuati dal personale dell'Ente parco o da persone all'uopo espressamente autorizzate dall'Ente parco stesso» (art. 11, comma 4, l. 394/1991). E’ altresì previsto che eventuali diritti esclusivi di caccia delle collettività locali o altri usi civici di prelievi faunistici siano liquidati dal competente commissario per la liquidazione degli usi civici ad istanza dell'Ente parco (art. 11, comma 5, l. 394/1991). In sostanza, nei parchi nazionali è fatto ex lege assoluto ed inderogabile divieto di esercizio venatorio e, conseguentemente, di introduzione di armi, esplosivi o qualsiasi altro mezzo distruttivo e di cattura, e proprio questi specifici divieti – unitamente agli altri contenuti nel richiamato art. 11, comma 3, della legge – sono penalmente sanzionati a norma del successivo art. 30, comma 1, l. 394/1991. Detta previsione, poi, sanziona altresì penalmente, da un lato, la violazione delle misure di salvaguardia adottate, ai sensi dell’art. 6, con riguardo alle aree da proteggere di nuova individuazione, misure efficaci sino alla formale istituzione dell’area (art. 6, comma 2) ed eventualmente anche successivamente sino all’entrata in vigore della disciplina specifica di ciascuna area protetta (art. 8, comma 5); d’altro lato, una volta istituite le aree e prima dell’approvazione del relativo regolamento, si prevede altresì tutela penale per la violazione dei divieti previsti dall’art. 11 della legge (art. 6, comma 4). Ancora, l’art. 30, comma 1, l. 394/1991 sanziona, per un verso, la realizzazione di interventi, impianti ed opere all'interno di un parco nazionale senza il nulla-osta dell’Ente parco di cui all’art. 13; per altro verso, la violazione dei divieti posti dall’art. 19, comma 3, con riguardo alle aree protette marine.
Ferma restando l’applicazione delle sanzioni amministrative previste dall’art. 30, commi 1-bis, 2 e 2-bis l. 394/1991, il delineato sistema di tutela penale in materia di aree protette è completato con l’estensione delle sanzioni penali previste dal primo comma al «caso di violazione dei regolamenti e delle misure di salvaguardia delle riserve naturali statali» (art. 30, comma 7, l. 394/1991) e con riguardo «alla violazione delle disposizione di leggi regionali che prevedono misure di salvaguardia in vista della istituzione di aree protette e con riguardo alla trasgressione di regolamenti di parchi naturali regionali» (art. 30, comma 8, l. 394/1991).
2. Per verificare l’applicabilità delle citate disposizioni penali, dunque, occorre in primo luogo chiarire quale sia la tipologia di area protetta che viene in rilievo, quale ne sia la disciplina applicabile e se risultino specifiche previsioni la cui violazione abbia rilevanza penale.
L’ordinanza impugnata attesta che il ricorrente è stato sorpreso, intento, con altri, nell’esercizio di attività venatoria, munito di fucile e con cani al seguito, all’interno dell’area di MONTAGNA LONGA, PIZZO MONTANELLO.
Si tratta – come correttamente ritenuto nell’ordinanza – di una Zona di Protezione Speciale (ZPS) della Rete Natura 2000, identificata con il codice ITA020021 ed inserita nell’Allegato A al d.m. Ministero dell’Ambiente 3 aprile 2000, recante Elenco dei siti di importanza comunitaria e delle zone di protezione speciali, individuati ai sensi delle direttive 92/43/CEE e 79/409/CEE, pubblicato in G.U. n. 95 del 22 aprile 2000 - Suppl. ord. n. 65. A norma dell’art. 2 di tale decreto, «i formulari standard "Natura 2000" e le cartografie delle Zone di Protezione Speciale e dei Siti di Importanza Comunitaria proposti sono depositati e disponibili presso il Servizio conservazione della natura del Ministero dell'ambiente e, per la parte di competenza, presso le regioni e dalle provincie autonome di Trento e Bolzano».
2.1. Ciò premesso, diversamente da quanto allega il ricorrente, va innanzitutto ribadito il risalente insegnamento secondo cui il concetto di "aree naturali protette" è più ampio di quello comprendente le categorie dei parchi nazionali, riserve naturali statali, parchi naturali interregionali, parchi naturali regionali e riserve naturali regionali, in quanto ricomprende anche le zone umide, le zone di protezione speciale, le zone speciali di conservazione ed altre aree naturali protette (Sez. 3, n. 14488 del 28/09/2016, dep. 2017, Orlandini, Rv. 269324; Sez. 3, n. 44409 del 07/10/2003, Natale, Rv. 226400). Ed invero, anche le zone ZPS e ZSC sono classificate come aree protette, giusta la previsione di cui all’art. 1, Deliberazione Ministero dell’Ambiente 2 dicembre 1996, adottata, ai sensi dell’art. 3, comma 4, l. 394/1991, dall’allora competente Comitato per le aree naturali protette. La stringata censura del ricorrente secondo cui tale classificazione sarebbe da ritenersi illegittima per un vizio del procedimento amministrativo è del tutto generica e non argomentata, non risultando, peraltro, che il giudice amministrativo abbia annullato per illegittimità il menzionato provvedimento classificatorio. Correttamente, poi, l'ordinanza impugnata ricorda che la Deliberazione 26 marzo 2008 della Conferenza Permanente per i Rapporti tra lo Stato e le Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano – che, a norma dell’art. 7, comma 1, d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, ha assunto le funzioni prima affidate, dall’art. 3 l. 394/1991, al Comitato per le aree naturali protette ed al Gruppo di lavoro per la carta della natura, tra cui figurano l’integrazione della classificazione delle aree protette e l’approvazione del loro elenco ufficiale - ha stabilito che alle ZPS e ZSC si applicano, tra l’altro, i Criteri minimi uniformi di cui al d.m. 17 ottobre 2007. Questa deliberazione, in sostanza, conferma la precedente deliberazione 2 dicembre 1996 sulla classificazione delle aree protette adottata dal soppresso Comitato, aggiungendo, dopo l’art. 2, un art. 2-bis – rubricato Regime di protezione – che così dispone: «alle aree di cui all'art. 2 della presente deliberazione si applica il regime di protezione di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357 e successive modificazioni e integrazioni, al decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare 17 ottobre 2007 “Criteri minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione relative a Zone speciali di conservazione (ZSC) e a Zone di protezione speciale (ZPS) e ai relativi provvedimenti regionali di recepimento ed attuazione”, nonché al decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio del 3 settembre 2002 “Linee guida per la gestione dei siti Natura 2000”». Il citato d.m. 17 ottobre 2007 – che «integra la disciplina afferente la gestione dei siti che formano la rete Natura 2000» (art. 1, comma 1) – non prevede, tuttavia, il divieto assoluto di caccia nei siti stessi né, conseguentemente, il divieto di introdurvi armi. L’art. 5 del decreto, infatti, demanda a regioni e province autonome di prevedere divieti dell’esercizio dell’attività venatoria che possono essere soltanto parziali, così consentendo di desumere che – diversamente da quanto avviene per i parchi naturali nazionali, dove, come si è visto, l’esercizio della caccia è sempre vietato – detta attività debba formare oggetto di regolamentazione con provvedimenti assunti dalle regioni e dalle province autonome. Tali enti territoriali sono appunto competenti ad adottare le specifiche misure di conservazione (v. art. 4 d.P.R. 8 settembre 1997, n. 357, richiamato anche dal d.m. 3 settembre 2002, contenente le Linee guida per la gestione dei siti Natura 2000).
2.2. Stante anche la necessità del rispetto del principio di tassatività che vige in materia penale, la conseguenza – a parere del Collegio – è che non siano nella specie applicabili le sanzioni penali previste, nei soli casi più sopra individuati, dall’art. 30 l. 394/1991. Per un verso, di fatti, le ZSC e le ZPS non sono certo parchi nazionali ove vigono i divieti di cui all’art. 11, comma 3, della citata legge in materia di aree protette; per altro verso, trattandosi di area naturale protetta istituita sin dall’anno 2000, non risultano verosimilmente vigenti (né l’ordinanza impugnata le individua) misure di salvaguardia che estendano tali divieti; per altro verso ancora, non sono state individuate specifiche previsioni regolamentari riferibili all’area protetta in questione alla cui violazione potrebbero applicarsi le sanzioni penali ai sensi dei commi 7 e 8 dell’art. 30 l. 394/1991.
3. Esclusa dunque, in base a quanto risulta dall’ordinanza impugnata e dal ricorso – unici atti cui la Corte ha accesso - la sussistenza del fumus commissi delicti con riguardo alla sussistenza di quel reato, deve invece osservarsi come l’ordinanza correttamente ritenga la sussistenza del fumus della contravvenzione di cui all’art. 30 l. 152/1991, ciò che giustifica – anche per quanto più oltre si dirà – il mantenimento del sequestro probatorio nella specie adottato.
Con riguardo a tale reato, di fatti, le doglianze contenute in ricorso sono infondate.
L’ordinanza impugnata attesta – e si tratta di presupposto non contestato dal ricorrente – che l’art. 14 del calendario venatorio regionale 2019/2020, salvo eccezioni che nel caso di specie non rilevano, vieta espressamente l’attività venatoria nel sito protetto in cui il ricorrente è stato sorpreso. Si aggiunge che l’area in questione era specificamente indicata nella cartografia delle zone SIC e ZPS presenti sul territorio siciliano e che tale circostanza era agevolmente conoscibile dall’odierno indagato con l’uso dell’ordinaria diligenza, potendosi detta cartografia visionare – come anche in ricorso si ammette – sul sito Internet indicato nel calendario venatorio.
3.1. Quanto all’elemento oggettivo, risulta pertanto che – ai sensi del già citato art. 5 d.m. 17 ottobre 2007 – la Regione siciliana ha vietato l’esercizio venatorio nella ZPS in questione, sicché sussiste il fumus del reato di cui all’art. 30, comma 1, lett. d, in relazione al divieto posto dall’art. 21, comma 1, lett. b) e/o c), l. 157/1992, dovendo ritenersi che le suddette aree protette rientrino nel concetto di “parchi naturali regionali” o “riserve naturali” in cui, conformemente alla disciplina in materia, è vietata la caccia, o, quantomeno, nelle “oasi di protezione”.
Vale, di fatti, il principio secondo cui l’esercizio venatorio in zona destinata a riserva naturale in tanto costituisce violazione del precetto penale di cui all’articolo 30 legge 11 febbraio 1992 n. 157, in quanto una disposizione integrativa del precetto penale – disposizione che può essere contenuta in una legge regionale o in un provvedimento amministrativo regionale, secondo quanto prescrive (nella specie in Sicilia) la legge regionale avente competenza esclusiva in materia – abbia regolarmente inserito la zona in questione all’interno di una riserva naturale regionale o di un’oasi di protezione o di una zona di ripopolamento regionale e l’abbia di conseguenza qualificata come zona nella quale la caccia sia vietata (Sez. 3, sent. 33286 del 21/04/2005, Sgarlata, Rv. 232177, non massimata sul punto).
Non trattandosi, tuttavia, di parco nazionale, vale altresì il principio - di recente riaffermato da Sez. 3, n. 35195 del 30/03/2017, Ciriello, Rv. 270681 – secondo cui il disposto di cui all’art. 10, comma 9, l. 157/1992, che richiede la delimitazione con tabelle perimetrali, si applica a tutte le zone con divieto venatorio in cui il territorio nazionale è suddiviso ad opera dei piani faunistico-venatori regionali e non già alle aree protette nazionali, facendo appunto eccezione a tale regola soltanto i parchi nazionali per i quali, come più sopra si è visto, il divieto assoluto di esercizio venatorio risulta già dall’art. 11 l. 394/1991 (nello stesso senso, Sez. 3, n. 36707 del 17/04/2014, Ambrosino e a., Rv. 260165 secondo cui solo i parchi nazionali, essendo stati istituiti e delimitati con appositi provvedimenti pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, non necessitano della tabellazione perimetrale prevista dall’art. 10 della legge n. 157 del 1992 al fine di individuarli come aree in cui non si può svolgere l’attività venatoria, gravando in tal caso su chi esercita la caccia l’individuazione dei confini dell’area protetta all’interno della quale si configura il reato di cui all’art. 30, comma 1, lettera d), della richiamata legge n. 157; Sez. 3, n. 1989 del 10/12/2009, dep. 2010, n.m., ove si aggiunge che questa regola, anche per la sua natura di norma eccezionale o derogatoria, non può applicarsi, in mancanza di specifiche disposizioni normative, a fattispecie diverse, ossia ad aree che non rientrano tra i «parchi nazionali» ex lege n. 394 del 1991; Sez. 3, n. 32021 del 06/06/ 2007, Marcianò e aa., Rv. 237142; Sez. 3, n. 10616 del 23/02/2006, Romeo, Rv. 233677).
3.2. La necessità della perimetrazione, tuttavia, non attiene alla sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, bensì a quella dell’elemento soggettivo e l’ordinanza impugnata – come si è visto – si pone il cennato problema e, quantomeno a livello di fumus, lo reputa parimenti sussistente.
La tabellazione, infatti, consente di presumere la conoscenza del divieto di caccia, mentre, in mancanza di essa, è il pubblico ministero che deve dimostrare che il trasgressore fosse a conoscenza del divieto, non essendovi alcuna ragione per esentare dalla sanzione colui che è a conoscenza del divieto, pur mancando la tabellazione (Sez. 3, n. 10926 del 13/03/2019, Del Fiore, n.m., nella cui motivazione si legge che la prova della conoscenza deve risultare in base ad elementi di fatto quali, esemplificativamente, la conoscenza della zona dovuta al dimorare nella medesima o in luoghi prossimi ad essa, l’abituale esercizio della caccia in quei siti, la preesistenza di cartelli successivamente rimossi o danneggiati, magari proprio per eludere il divieto normativo e, in genere, le peculiari modalità dell’azione; nello stesso senso: Sez. 3, n. 17102 del 08/03/2016, Puglia, Rv. 266638; Sez. 3, n. 39112 del 29/05/2013, Tarquinio, Rv. 257525).
Nel caso di specie, l’ordinanza reputa sussistente la prova della conoscenza in base al fatto che la perimetrazione della zona ZPS in cui la caccia era vietata risultava dalla cartografia pubblicata sul sito Internet richiamato nel piano venatorio faunistico regionale. La motivazione sul punto, dunque, è esistente e non può essere altrimenti sindacata in questa sede, posto che, in forza dell’art. 325 cod. proc. pen., il ricorso per cassazione è ammissibile solo per violazione di legge (Sez. 3, n. 45343 del 06/10/2011, Moccaldi e a., Rv. 251616) ed è quindi deducibile soltanto l'inesistenza o la mera apparenza della motivazione, ma non anche la sua illogicità manifesta, ai sensi dell'art. 606, comma primo, lettera e), cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 5807 del 18/01/2017, Zaharia, Rv. 269119), sicché il giudice di legittimità non può procedere ad un penetrante vaglio sulla motivazione addotta nel provvedimento impugnato (v. già Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692, secondo cui il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli "errores in iudicando" o "in procedendo", sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice).
Va inoltre ricordato che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in sede di riesame dei provvedimenti concernenti misure reali, al giudice è demandata una valutazione sommaria in ordine al "fumus" del reato ipotizzato relativamente a tutti gli elementi della fattispecie contestata, sicché lo stesso giudice può rilevare anche il difetto dell'elemento soggettivo del reato, ma a condizione che esso emerga "ictu oculi" (Sez. 2, n. 18331 del 22/04/2016, Iommi e a., Rv. 266896; Sez. 4, n. 23944 del 21/05/2008, Di Fulvio, Rv. 240521), ciò che, per quanto osservato nell’ordinanza, nella specie non è.
4. Quanto alla necessità del sequestro probatorio nella specie operato, l’ordinanza impugnata rileva che lo stesso è stato giustificato dal pubblico ministero allo scopo di effettuare accertamenti balistici sulle armi sequestrate per verificarne la funzionalità, e la presenza di residui da sparo indicativi di un uso recente, al fine di provare l’esercizio venatorio. Risulta, pertanto, soddisfatto il requisito richiesto dall’orientamento che questa Corte, a Sezioni unite, ha di recente ribadito, affermando che il decreto di sequestro probatorio - così come il decreto di convalida - anche qualora abbia ad oggetto cose costituenti corpo di reato, deve contenere una motivazione che, per quanto concisa, dia conto specificatamente della finalità perseguita per l'accertamento dei fatti (Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli e a., Rv. 273548). Né, per quanto riferito supra, sub §. 3, tale motivazione può essere sindacata, come fa il ricorrente, ritenendo superfluo l’accertamento in questione alla luce dell’orientamento secondo cui l’esercizio venatorio può essere provato anche a prescindere dall’uso delle armi (cfr. Sez. 3, n. 46526 del 28/10/2015, Cargnello, Rv. 265401; Sez. 3, n. 16207 del 14/03/2013, Roscigno, Rv. 255486), non potendo certo impedirsi al pubblico ministero di acquisire obiettivi elementi che rafforzino la prova circa la sussistenza dell’ipotizzato reato.
5. Il ricorso, complessivamente infondato, deve pertanto essere respinto con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 27 febbraio 2020.