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L’AMBIENTE E LA SUA TUTELA

a cura della Dott.ssa Rossella Marino

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1. L'art.18 della legge 8 luglio 1986 n. 349: aspetti problematici e possibili soluzioni
II primo importante problema da risolvere al fine di individuare una adeguata tutela dell'ambiente è quello relativo alla definizione esatta dell'oggetto di tutela, individuando una possibile definizione di danno all'ambiente.
In una valutazione comparatistica è possibile costatare come, non tutte le leggi che hanno introdotto la responsabilità civile come strumento di politica ambientale condividono lo stesso oggetto di tutela.
Alcuni interventi legislativi prendono in considerazione solo i danni a cose e persone derivanti da attività inquinanti, mentre in altre ipotesi dettano un'apposita disciplina per quei danni che riguardano l'ambiente in senso stretto, indipendentemente dalle lesioni arrecate a diritti individuali.
Nella prima ipotesi si parlerà dunque più appropriatamente di danno da inquinamento e solo nella seconda di danno ambientale in senso stretto.
La differenza non è di scarsa rilevanza in quanto riveste una serie di conseguenze in ordine alla quantificazione del danno, della legittimazione ad agire, e, in generale, su tutte le altre variabili della responsabilità civile.
La normativa che, in Italia, si prefigge l'obiettivo di sanzionare il danno ambientale in quanto tale è la legge 349 del 1986 il cui art. 18 sancisce: "Qualunque fatto doloso o colposo in violazione di norme di legge, o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato".
L'art.18 stabilisce quindi la risarcibilità del danno ambientale indipendentemente dalla violazione di altri diritti individuali quale la proprietà privata o la salute: con tale norma non si vuole tutelare non l'ambiente salubre, ma l'ambiente tout court": l'ambiente non è quindi tutelato mediatamente ossia attraverso la protezione accordata ad altri elementi, ma direttamente come bene giuridico di per sé indispensabile per il benessere della
collettività.
Titolare del bene viene riconosciuto lo Stato (insieme agli altri enti territoriali minori) a cui viene attribuita la legittimazione attiva nel giudizio di danno ambientale. Se si legge, infatti, il dettato di tale norma in combinato disposto con quanto stabilito all'art. 1 della stessa legge, sembrerebbe che il legislatore abbia adottato un concetto assai ampio ed unitario di ambiente, individuando il danno ambientale come un danno pubblico che può essere cagionato da chiunque. In sostanza, l'articolo 18 traduce in termini legislativi la natura giuridica del danno all'ambiente così come l'aveva tratteggiata la Corte dei Conti che lo aveva individuato come "danno pubblico ambientale" nella più ampia specie del danno erariale ed aveva esteso la sua competenza giurisdizionale non solo ai funzionari ed ai pubblici amministratori, ma anche nei confronti dei privati.
La legge del 1986, nel cui contesto si possono trovare diversi principi innovativi di pratico ed immediato utilizzo da parte dei cittadini e delle associazioni di protezione ambientale, ha senz'altro il merito di avere normativizzato, per la prima volta, la protezione giuridica dell'ambiente all'art.18, tuttavia, con riferimento a questa norma il legislatore difetta per essersi espresso secondo una formulazione eccessivamente generica.
La normativa in questione non consente, infatti, secondo parte della dottrina, di ricostruire in modo chiaro i connotati essenziali del danno de quo con conseguente impossibilità per l'interprete di dare risposte definitive alle questioni pratiche e teoriche poste dalla normativa stessa; le anzidette problematiche derivano principalmente dalla difficoltà oggettiva di utilizzare concetti e strumenti privatistici, come il risarcimento del danno, in relazione alla tutela degli interessi ambientali, stante il fatto che questi si presentano generalmente come interessi sociali allo stato diffuso non suscettibili, come tali, di appropriazione da parte del singolo individuo. L'incongruenza più grave consiste, sempre a detta della dottrina, nella pretesa di tradurre un valore costituzionalmente protetto, come l'ambiente, in un "bene dello Stato".
Secondo altri una lettura complessiva della L. 349/1986 induce a pensare che tale norma rafforzi, attraverso l'intervento del giudice, la tutela dell'ambiente, senza modificarne la natura di "interesse sociale alimentato dalla partecipazione". La rilevanza attribuita dalla legge all'informazione ed al diritto di accesso del cittadino alle conoscenze ambientali (art. 14 L.349/1986), il potere attribuito agli enti territoriali di attivare l'azione di risarcimento e di intervento nei relativi giudizi (art. 18, terzo comma), nonché la facoltà riconosciuta alle associazioni ambientaliste (art. 13) di intervenire nei giudizi di danno ambientale e di proporre ricorso in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento degli atti illegittimi (art. 18, quarto comma), sono alcuni elementi che contribuiscono a ridimensionare la concezione di un interesse ambientale monopolizzato dallo Stato.
Nel riferire i giudizi critici che hanno coinvolto la normativa in esame, occorre ancora valutare come il danno all'ambiente va preso in considerazione sotto un duplice profilo fenomenologico: come risultato di singole attività inquinanti e come risultato di una interazione tra attività inquinanti. In questo senso, individuando l'art.18 il danno all'ambiente nella "compromissione" dello stesso, stante la vastità di tale accezione e la carenza previsionale in ordine alle modalità del suo manifestarsi, tale "compromissione" ben potrebbe ricomprendere tanto il danno da inquinamento graduale tanto quello da inquinamento puntuale. Inoltre, il risultato della condotta inquinante può avere più di una conseguenza: incidere sulla salute delle persone; causare danni fisici alle cose; procurare interruzioni di attività; rendere impossibile l'utilizzo di beni ambientali.
Le più complesse problematiche sorte all'indomani dell'emanazione di questa legge e che hanno acceso un aspro dibattito (per certi aspetti ancora attuale) interessano la formulazione dell'art.18 e, in particolar modo: la natura del danno ambientale; l'individuazione dei soggetti legittimati all'azione risarcitoria e i parametri per la quantificazione del danno.
Riservando a quest'ultimo aspetto una autonoma e successiva trattazione, con riferimento alle altre sopra riferite questioni, appare opportuno delineare i tratti fondamentali oggetto di dibattito.
Con riferimento alla natura del danno disciplinato dall'art.18 dottrina e giurisprudenza appaiono divise tra una soluzione che ne ravvisa la natura patrimoniale ed una che sostiene la natura non patrimoniale. La Corte costituzionale, con la sentenza 30 dicembre 1987, n. 641 fornisce la definizione giuridica di ambiente e individua come "patrimoniale" tale danno: "sebbene, sia svincolato da una concezione aritmetico-contabile e si concreti piuttosto nella rilevanza economica che la distruzione o il deterioramento o l'alterazione o, in genere, la compromissione del bene riveste in sé e per sé e che si riflette sulla collettività la quale viene ad essere gravata da oneri economici. La tendenziale scarsità delle risorse ambientali naturali, impone una disciplina che eviti gli sprechi e i danni sicché si determina una economicità ed un valore di scambio del bene. Pur non trattandosi di un bene appropriabile, esso si presta ad essere valutato in termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo".
Il carattere patrimoniale del danno ambientale viene in seguito ripreso ed approfondito dalla Corte di Cassazione che conduce ad individuare il danno all'ambiente come nozione che "presenta una triplice dimensione: personale (quel lesione del diritto fondamentale dell'ambiente di ogni uomo); sociale (quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità umana (articolo 2 Cost.); pubblica (quale lesione del diritto-dovere pubblico delle istituzioni centrali e periferiche con specifiche competenze ambientali)."
Anche in ordine ai rapporti tra l'art. 18 e il 2043 c.c. è stato sollevata una disputa. Una parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene che il danno ambientale presenti tutte le caratteristiche per essere collocato nell'alveo dell'articolo 2043 c.c., nel senso tradizionale che il danno è ingiusto (quindi, presuppone una relazione danneggiante e danneggiato) e, pertanto, risarcibile quando coincide con la lesione di una situazione giuridica soggettiva. Però, si osserva che, pur ricalcando la formulazione dell'articolo 2043 c.c., l'articolo 18 crea un nuovo tipo di illecito che, a sua volta, crea una nuova tipologia di danno: tale danno è distinto dai danni che il medesimo illecito può causare al singolo bene ambientale, il risarcimento dei quali dovrà seguire il regime improntato all'aticipicità dell'illecito di cui all'articolo 2043 c.c..
Altra parte della dottrina è di avviso decisamente contrario, affermando che nel panorama "idilliaco" della disciplina codicistica della responsabilità civile, l'articolo 18 si è insinuato "con effetti devastanti, quale disposizione anomala che non rientrerebbe in alcun modo nel solco tracciato dall'articolo 2043 c.c.".
II filone dottrinale che invece vede il danno ambientale come un danno globalmente non patrimoniale o non esclusivamente patrimoniale è suffragato dalla recente sentenza della Corte di Cassazione, a sezioni unite, riguardante il caso Seveso la quale ha riconosciuto la risarcibilità di un danno morale soggettivo, a favore degli abitanti di Seveso, derivante dal turbamento psichico causato dall'esposizione a sostanze inquinanti, dalle conseguenti limitazioni al normale svolgimento della vita e dall'incertezza sulle conseguenze sulla loro salute, anche in mancanza di una lesione all'integrità psico-fisica o di altro evento produttivo di danno patrimoniale.
2. La legittimazione ad agire
Il comma terzo dell'art 18 della l. 349/86 stabilisce che "l'azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale è promossa dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo".
Dalla norma risulta chiaramente che lo Stato potrà agire in sede giurisdizionale, sia in sede civile sia nei procedimenti penali relativi agli illeciti ambientali, in quanto massimo ente esponenziale della collettività nazionale.
Qualche dubbio interpretativo sorge con riferimento all'indicazione degli enti territoriali (Regioni, Province e Comuni) quali soggetti legittimati ad agire nei giudizi di danno ambientale in quanto risulta difficile stabilire il contenuto del rapporto tra la legittimazione ad agire dello Stato e quella dei predetti enti territoriali. Secondo un primo orientamento, aderente al dettato letterale dell'art. 18, titolare del diritto al risarcimento sarebbe solo lo Stato, unico titolare del diritto al risarcimento del danno ambientale, mentre gli enti territoriali sarebbero legittimati ad adire il giudice solo in qualità di sostituti processuali. La norma, secondo tale orientamento, amplierebbe il novero dei soggetti legittimati a promuovere un giudizio di danno, che comunque verrebbe esercitato a favore dello Stato. Questo orientamento desta perplessità riguardo all'effettivo interesse da parte di un ente territoriale ad esercitare un'azione senza poter, anche in caso di sentenza di accoglimento della domanda, ottenere il risarcimento dei danni. Secondo un contrario orientamento dottrinale, gli enti territoriali hanno un potere di azione iure proprio, finalizzato a tutelare un diritto ed un interesse appartenente alla comunità locale rappresentata dall'ente, che implicherebbe un immediato e diretto risarcimento per il danno ambientale in concreto subito. In questo senso sembra orientarsi anche la giurisprudenza civile che si è espressa nel senso di una legittimazione iure proprio degli enti territoriali "in quanto rappresentativi della collettività organizzata lesa in un suo bene primario ed assoluto".
La l.349/86, inoltre, contiene al 5° comma dell'art. 18 una espressa previsione relativa al ruolo delle associazioni ambientaliste riconosciute (e cioè ex art.131. 349/86 quelle a carattere nazionale o presenti in almeno cinque regioni, ed individuate con decreto del Ministero dell'Ambiente) nei giudizi di danno ambientale: "Le associazioni individuate in base all'art. 13 della presente legge possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi".
Questa norma è stata aspramente criticata dalla dottrina per la sua formulazione poco chiara e carente sotto vari aspetti. Tali critiche, in particolare, riguardano la mancata indicazione del tipo di intervento e della portata dei poteri attribuiti al soggetto interveniente, nonché la mancata previsione della possibilità per le associazioni ambientaliste di costituirsi parti civili.
Per quanto riguarda la prima questione la dottrina ha escluso che l'intervento delle associazioni ambientaliste possa considerarsi principale, in quanto non sarebbe ravvisabile una posizione delle predette associazioni, in relazione all'oggetto della contesa, che possa dirsi autonoma rispetto a quella degli enti territoriali. Nemmeno risulta configurabile un intervento adesivo litisconsortile ex art. 105 c.p.c. perché le associazioni ambientaliste non sono titolari delle medesime azioni aventi lo stesso contenuto di quelle già esercitate dagli enti territoriali. L'unica figura di intervento che resta pertanto spendibile dalle associazioni ambientaliste è l'intervento adesivo dipendente (ad adiuvandum) dalla portata più limitata rispetto ai precedenti.
Le associazioni, quindi, possono intervenire solo al fine di sostenere le ragioni degli enti territoriali, ad esempio introducendo nuove prove al fine di ampliare il thema probandum, senza però poter modificare in alcun modo il thema decidendum proponendo nuove domande, senza poter svolgere difese contrastanti o discordanti da quelle della parte principale, dovendo subire l'eventuale rinuncia o acquiescenza di questa, non potendo infine impugnare autonomamente la sentenza.
Riguardo al potere di intervento delle associazioni ambientaliste, esso ha la particolarità di non dover essere preceduto dal consenso della persona offesa in quanto lo Stato stesso con l'art. 18 della legge 349/1986 ha prestato un preventivo e generalizzato consenso alle associazioni ambientaliste riconosciute ai sensi dell'art. 13 della l. 349/86.
Accanto al potere di intervento in sede civile e penale, la giurisprudenza è orientata nel senso di riconoscere alle associazioni ambientaliste la facoltà di costituirsi parti civili nei procedimenti penali per ottenere tutela giurisdizionale in caso di un danno patito dall'ente stesso lesivo di un interesse appartenente alla categoria dei diritti soggettivi. Tuttavia non è concesso alle associazioni di ottenere il risarcimento della lesione del bene ambiente in sé e per sé considerato. Tale risarcimento potrà liquidarsi solo a favore dello Stato e degli altri enti territoriali unici soggetti riconosciuti titolari dell'ambiente inteso come bene giuridico unitario.
Le enunciate critiche hanno condotto ad un intervento riformatore.
A riformulare il ruolo processuale delle associazioni ambientaliste, estendendone i limitati poteri originariamente attribuiti dalla l. 349/86, è intervenuta la norma contenuta al terzo comma dell'art.4 della legge 265/99, la quale dispone che "le associazioni di protezione ambientale di cui all'art.13 della legge 349/1986, possono proporre le azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario che spettino al Comune e alla Provincia, conseguenti a danno ambientale. L'eventuale risarcimento è liquidato in favore dell'ente sostituito e le spese processuali sono liquidate in favore o a carico dell'associazione".
Questa norma amplia la portata delle facoltà attribuite alle associazioni ambientaliste, rafforzandone il ruolo nell'ambito dei giudizi per danno ambientale. In caso di mancata attivazione degli enti territoriali, alle associazioni viene ora attribuito il potere di esercitare l'azione di danno ambientale in qualità di sostituti processuali. Si tratta non di un'azione iure proprio, ma di un'azione surrogatoria non subordinata, tuttavia, al consenso dell'ente territoriale sostituito bensì avente come unici presupposti legittimanti il riconoscimento giuridico dell'associazione ex art. 13 della legge 349/86 e l'inerzia dell'ente territoriale sostituito.
In questo modo l'associazione ambientalista può esperire cumulativamente, all'interno dello stesso procedimento, l'azione civile di danno ambientale mediante costituzione di parte civile iure proprio cioè per la tutela di un proprio diritto soggettivo leso e quella surrogatoria in qualità di sostituto processuale di enti territoriali per il danno arrecato al bene ambiente.
Anche con riferimento alla novella legislativa, tuttavia, è possibile rinvenire alcuni limiti. Innanzitutto appare criticabile l'esclusione della liquidazione del danno a vantaggio di queste associazioni che possono vedersi riconosciuto solo il diritto ad ottenere la rifusione delle spese processuali in caso di accoglimento della domanda. Ne deriva che, a fronte del rischio di condanna a rifondere le spese avversarie in caso di soccombenza o di compensazione, questa previsione funge da deterrente nei confronti dell'attivismo delle associazioni ambientaliste.
Un altro problema emerso dalla realtà processuale riguarda la conoscibilità per le associazioni ambientaliste dell'esistenza di giudizi di danno ambientale.
Raramente, infatti, i giudici notificano alle associazioni i decreti che dispongono il giudizio, prassi resa ancor più grave dal fatto che in molti casi nemmeno Stato, Comune, Provincia sono qualificati persona offesa dal reato ambientale.
Rimane infine da chiedersi che ruolo possono svolgere i singoli individui nell'ambito della protezione ambientale. Dopo l'approvazione della legge del 1986, il diritto soggettivo individuale all'ambiente salubre deve essere ricondotto alla lesione pura e semplice del diritto alla salute o all'esistenza, provocata dal degrado ambientale. L'art. 18 è norma di chiusura in questo senso.
3. I rimedi assicurativi.
Dopo aver esaminato la fattispecie risarcitoria disciplinata dall'art.18 della legge istitutiva del Ministero dell'Ambiente, occorre approfondire le già accennate valutazioni inerenti all'incidenza di condanne risarcitorie in capo alle aziende. In questo contesto è opportuno affrontare, in particolare, argomentazioni di matrice strettamente economica che, nel contesto della pianificazione aziendale, guardano all'ambiente come una voce da inserire nei costi dell'impresa o meglio come un fattore di rischio.
Si tratta di temi di grande attualità che, tutt'oggi, costituiscono una delle branche più moderne della gestione d'imprese. Gli specialisti dell'ambiente, infatti, rivestono ruoli di sempre crescente importanza in ragione dell'essenziale contributo che sono in grado di fornire, sia in termini di prestigio che in termini economici, alle gestione delle imprese più all'avanguardia.
Una simile trattazione presuppone, tuttavia, alcune considerazioni, di carattere generale, sulla definizione di rischio d'impresa in modo da poter valutare, in questo contesto, l'incidenza del rischio ambientale.
Nella struttura ampia e articolata dei rischi aziendali, infatti, quella relativa all'ambiente è una particolare tipologia di rischio che assume un rilievo sempre crescente.
Con riferimento alla generale nozione di rischio d'impresa occorre costatare che esistono molteplici definizioni del concetto di rischio ed ognuna di esse è ugualmente valida e diversa a seconda della prospettiva secondo la quale si intende effettuare l'analisi in questione.
Secondo l'ottica di Risk Management, in particolare, si può dire che esiste un rischio quando sono contemporaneamente presenti:
1) la possibilità di una perdita, cioè quando l'individuo è esposto ad un avvenimento che gli può causare un danno di qualsiasi tipo;
2) un difetto di conoscenza circa il prodursi di tale perdita, cioè nel caso in cui non si ha la certezza del suo futuro manifestarsi. La probabilità del suo verificarsi deve essere diversa da zero, ma anche diversa da uno altrimenti non ci si troverebbe di fronte ad un rischio, bensì ad un costo, poiché il verificarsi della perdita sarebbe la conseguenza di un evento certo.
Nel caso in cui si decida di far fronte ai rischi ai quali si è sottoposti, è necessario agire puntando verso una riduzione della probabilità del manifestarsi della perdita, cercando di mettere in atto ogni metodo di prevenzione che permetta di raggiungere un risultato di questo tipo.
Un altro modo per cercare di limitare le conseguenze di un eventuale verificarsi del rischio è quello di agire sulla seconda variabile elencata, cioè cercare di ovviare al difetto di conoscenza relativo al suo manifestarsi, aumentando la quantità e la qualità delle informazioni disponibili in proposito.
Il sistema dei rischi caratterizza l'azienda in tutto il suo ciclo di vita: a tale proposito alcuni economisti operano una classificazione dei rischi in base alle singole fasi della vita aziendale (fase pre-aziendale, fase istituzionale, fase dinamico-probabilistica, fase terminale), inserendo il rischio ambientale nella base dinamico probabilistica.
Il sistema dei rischi d'azienda può essere quindi considerato come una combinazione di rischi di origine interna e rischi di natura esterna. In questo contesto il rischio ambientale è valutato come un rischio esterno, molteplice, puro. I rischi puri sono considerati degli ostacoli per l'azienda, ma non sempre conviene, o è possibile, eliminarli, come sarebbe auspicabile, in quanto i costi da sostenere per la loro eliminazione possono essere superiori ai benefici ottenibili da una maggior sicurezza.
Premesso ciò si intende illustrare brevemente quello che è trasferibile e quello che non è trasferibile del rischio ambientale guardando, in particolar modo, al sistema assicurativo.
Per quanto concerne la seconda componente di rischio individuata dal Risk managemente, e cioè la componente informativa, per ovviare a questi inconvenienti, gli assicuratori hanno sviluppato tecniche particolari con cui affrontare queste deficienze informative, al fine di mantenere fermi gli incentivi alla prevenzione del danno. Si tratta di evitare che la copertura assicurativa serva a rendere disponibile "una sorta di licenza ad inquinare", a "diminuire gli incentivi a investire in prevenzione" per l'assicurato e quindi di predisporre quegli strumenti necessari affinché l'assicurazione partecipi al meccanismo della responsabilità civile in modo coerente allo scopo di prevenzione del danno ambientale. Lo scopo dell'assicurazione per danno all'ambiente dovrebbe infatti essere quello di garantire ai danneggiati di essere in ogni caso risarciti, anche qualora la momentanea situazione finanziaria del danneggiante non lo permetta, e non quella di coprire i comportamenti illeciti dell'inquinatore.
Più in generale, tre sono gli strumenti di cui gli assicuratori si
servono in questo settore.
Il primo è quello costituito da una stringente disamina dei
rischi e, quindi, da una loro classificazione. La classificazione dei rischi serve a mantenere omogeneo il rischio per la classe degli assicurati, potendo cosi offrire dei prezzi più competitivi all'interno di ogni classe. Tale classificazione avviene generalmente secondo due modalità, che possono essere a loro volta combinati tra loro. Una prima modalità è quella basata sulle caratteristiche particolari dell'assicurato, quali la grandezza dell'impianto da questi gestito, la quantità di sostanze tossiche prodotte, la gestione del trasporto di queste da parte sua o meno. Una seconda modalità è quella empirica, che si basa sull'esperienza di un precedente periodo di attività dell'assicurato e delle eventuali perdite verificatesi in quel lasso di tempo.
Un secondo ed importante strumento impiegato nelle assicurazioni ambientali sono le c.d. franchigie , per cui qualunque sia l'ammontare del danno verificatosi, l'assicurato dovrà comunque sopportare una percentuale fissa del danno, incentivandolo quindi ad evitare il danno in ogni caso. In questo contesto si inseriscono anche le tecniche premiali, tipo quella di bonus malus, fondato su un aumento/diminuzione del premio assicurativo a seconda del numero di incidenti verificatisi in seno all'impianto, in modo da incentivare l'assicurato a tenere bassa la percentuale dei sinistri per conseguire un vantaggio economico a livello di prezzo dell'assicurazione. Con lo stesso fine operano anche le fissazioni di tetti massimi, oltre ai quali le assicurazioni non pagheranno il risarcimento del danno.
Il terzo metodo si basa sulla previsione di esclusioni specifiche per determinati tipi di danni al fine di colpire il comportamento se non doloso, almeno negligente da parte dell'assicurato.
Con specifico riferimento alla situazione italiana la legge del 1986 ha inciso, in maniera rilevante, anche nel settore assicurativo.
Alle compagnie assicurative si aprono notevoli prospettive assicurative in relazione alla possibilità di garantire i danni conseguenti al danno ambientale, soprattutto in relazione ad eventuali polizze da stipulare con lo Stato o con enti pubblici territoriali, titolari di un diritto soggettivo pubblico alla tutela del bene leso dai reati in materia sanitaria ed ambientale.
La polizza a favore dell'Amministrazione comunale o statale assicura la lesione della sfera patrimoniale dell'ente, in quanto il danno ambientale determina uno squilibrio ecologico e biologico che deteriora l'ambiente anche sotto il profilo urbanistico costringendo l'ente ad interventi riparatori che richiedono l'impiego di mezzi finanziari a volte non immediatamente disponibili per problemi burocratici; il ricorso a forme assicurative private da parte degli enti pubblici consentirebbe di ovviare a tale inconveniente e di assicurare il tempestivo ripristino della situazione precedente che sovente, a seguito del ritardo negli interventi ripristinatori, può aggravarsi con conseguenti ulteriori danni. Inoltre, polizze di questo tipo potrebbero essere stipulate a favore degli imprenditori a garanzia di eventuali danni cagionati nell'ambito dell'attività lavorativa.
Sulle formulate valutazioni, si conclude con alcune considerazioni specifiche in tema di rischio ambientale d'impresa. Vi sono manifestazioni del rischio ambientale che stanno assumendo sempre una maggiore significatività: la gestione dei rifiuti, le emissioni atmosferiche, l'inquinamento acustico, il rischio di contaminazione dei suoli, la mancanza di risorse rinnovabili, il problema idrico e così via. Una corretta gestione da parte del management aziendale non può prescindere dall'analisi di fattori così importanti.
La gestione ambientale delle aziende che vogliono affrontare la gestione del rischio ambientale con un approccio pro-attivo, ovvero considerando l'ambiente come fattore chiave per il loro sviluppo, non può quindi essere ricondotta ad una semplice politica di riduzione dei rischi, e considerata, quindi, come una mera componente del Risk management. Occorre, anche, guardare alla gestione ambientale come ad un sistema coordinato ed integrato con la strategia aziendale mirante, oltre che al controllo dei rischi, alla ricerca di soluzioni organizzative, manageriali e tecnologiche (di prodotto e di processo) maggiormente eco-compatibili, che possano costituire un fattore critico di successo. Tali aziende hanno al giorno d'oggi a loro disposizione per far fronte alla variabile ambiente sia strumenti di gestione del rischio che strumenti di comunicazione ambientale che, in un contesto economico in cui la competizione si va facendo sempre più globale e incalzante, concretizzano la possibilità per un'azienda o un gruppo di dimostrare ai propri interlocutori la propria affidabilità nella gestione del rapporto con l'ambiente.

Dott.ssa Rossella Marino.