Il decreto legislativo di recepimento delle direttive comunitarie sulla tutela penale dell’ambiente: nuovi reati, nuova responsabilità degli enti da reato ambientale.
di Carlo Ruga Riva
1. Genesi e linee portanti del decreto legislativo. – 2. L’art. 727-bis c.p. – 3. L’art. 733-bis c.p. – 4. La responsabilità da reato ambientale degli enti. – 5. Problemi. - 5.1. Eccesso di delega? – 5.1.1 I reati di falso, un vero problema. - 5.2. Inadempimento delle direttive?
1. Il 7 luglio il Consiglio dei Ministri ha varato il decreto legislativo n. 121/2011, attuativo di due importanti direttive sulla tutela penale dell’ambiente (2008/99/CE)1 e sull’inquinamento provocato da navi (2009/123/CE) 2.
Il decreto, a sua volta attuativo della legge delega n. 96/2010 (c.d. legge comunitaria 2009), già pubblicato in Gazzetta Ufficiale, entrerà in vigore il 16 agosto 20113.
Ad una prima lettura d’insieme, circoscritta agli illeciti penali, il decreto in commento - contenente modifiche talvolta significative rispetto allo schema precedentemente elaborato4 - offre meno di quello che le direttive sembravano promettere agli occhi di buona parte dei commentatori5.
In particolare, il legislatore non ha introdotto fattispecie di pericolo concreto o di danno rilevante per le matrici ambientali o per la salute e integrità fisica delle persone, come richiesto dall’art. 3 lett. a) della direttiva 2008/99/CE6.
La tutela penale contro gli inquinamenti è rimasta imperniata su reati di pericolo astratto contenuti nelle vigenti discipline di settore (acqua, rifiuti, aria), senza alcun riferimento a decessi o lesioni gravi o a danni significativi per l’ambiente.
Il decreto legislativo n. 121/2011, lungi dallo stravolgere l’attuale architettura della disciplina penale dell’ambiente, si limita ad introdurre due nuove fattispecie penali (uccisione, distruzione, cattura ecc. di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette, artt. 727-bis c.p.; distruzione o deterioramento di habitat, art. 733-ter) e ad inserire nel corpo del d.lgs. 231/2001 (all’art. 25-undecies) un nuovo catalogo di reati ambientali presupposto, idonei a fondare la responsabilità dell’ente.
3. All’art. 727-bis del codice penale viene introdotta la contravvenzione di “Uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette”), punita, ove avente oggetto specie animali selvatiche protette, “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, e “fuori dei casi consentiti”, con l’arresto da uno a sei mesi o con l’ammenda fino a 4.000 euro, “salvo i casi in cui l’azione riguardi una quantità trascurabile di tali esemplari e abbia un impatto trascurabile sullo stato di conservazione della specie”.
Il co. 2 incrimina, con l’ammenda fino a 4.000 euro “chiunque, fuori dai casi consentiti, distrugge, preleva o detiene esemplari appartenenti ad una specie vegetale selvatica protetta…” fatta salva l’identica clausola di esiguità di cui al co. 1 ultima parte.
L’art. 733-bis, co. 2 c.p., precisa che “ai fini dell’applicazione dell’articolo 727-bis c.p. per specie animali o vegetali selvatiche protette si intendono quelle indicate nell’allegato IV della direttiva 92/43/CE e nell’allegato I della direttiva 2009/147/CE”.
La clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisce un più grave reato” comporta il prevalere di fattispecie interferenti punite più severamente.
E’ il caso dell’art. 544-bis c.p. (Uccisione di animali), delitto punito con la pena della reclusione da tre a diciotto mesi.
Si badi che il requisito del cagionare la morte di un animale “per crudeltà o senza necessità”, tipico dell’art. 544-bis c.p., può dirsi racchiuso nella più ampia formula “fuori dei casi consentiti” posta in apertura dell’art. 727-bis c.p. 7.
La nuova fattispecie è destinata a soccombere anche in rapporto a talune fattispecie venatorie punite più severamente.
Si pensi all’art. 30, co. 1 lett. b), c) ed l) l. n. 157/1992), nella parte in cui incrimina l’abbattimento, la detenzione, la cattura di mammiferi o uccelli particolarmente protetti8, o di specifici animali (orso, stambecco, camoscio d’Abruzzo, muflone sardo9), così come il loro commercio o la loro detenzione a fine di commercio.
Qualora le condotte incriminate dall’art. 727-bis c.p. interferiscano con quelle tipiche di fattispecie venatorie punite meno severamente, il relativo conflitto sarà risolto in base ai consueti criteri interpretativi.
Così ad esempio, nel caso di abbattimento, cattura o detenzione di esemplari appartenenti alla tipica fauna stanziale alpina, ricompresi tra le specie selvatiche protette indicate nell’allegato IV della direttiva 92/43/CE, si applicherà, in base al principio di specialità, l’art. 30, lett. g) l. 152/1992.
L’appartenenza alla fauna stanziale alpina è infatti requisito specificativo del più generale requisito dell’appartenenza al genus di animale selvatico protetto.
Gli esempi riportati dimostrano che l’ambito di applicazione del nuovo reato in esame è alquanto angusto.
L’art. 727-bis c.p., destinato a soccombere rispetto alle citate fattispecie venatorie e rispetto all’uccisione volontaria di animali (art. 544-bis c.p.), sembra applicabile solo all’uccisione colposa di animali fuori dell’ambito dell’attività di caccia.
Si pensi alle ipotesi, non particolarmente realistiche, di uccisione per colpa di un animale selvatico protetto per mezzo della propria autovettura, nell’ambito della circolazione stradale.
Insomma, il nuovo reato, ad una valutazione complessiva, non sembra affatto rafforzare la tutela penale dell’ambiente (animale) richiesta dalla direttiva 2008/99/CE.
In sua assenza le varie condotte ivi descritte sarebbero state punite comunque, attraverso fattispecie già vigenti.
Paradossalmente l’unico profilo di rafforzamento della tutela, legato alla uccisione colposa dell’animale selvatico protetto, appare problematico rispetto al requisito soggettivo della colpa grave previsto nella direttiva 2008/99/CE.
Diversamente che nello schema di decreto legislativo, la seconda parte dell’art. 727-bis c.p. contiene una clausola di esiguità, calco perfetto della fattispecie europea, la quale fa salvi “i casi in cui l’azione riguardi una quantità trascurabile di tali esemplari e abbia un impatto trascurabile sullo stato di conservazione della specie”.
La clausola è funzionale ad espungere dal perimetro del fatto tipico casi di esiguo significato offensivo in rapporto alla quantità di esemplari sacrificati e al relativo impatto sullo stato di conservazione della specie.
I due requisiti negativi devono sussistere contestualmente affinché il fatto possa reputarsi inoffensivo (per il diritto penale degli uomini, non per l’animale sacrificato, naturalmente).
Teoricamente potrebbe rilevare anche l’uccisione, cattura ecc. di un solo (o di pochissimi) esemplari, qualora la specie protetta conti poche unità.
Ai fini dell’impatto sulla conservazione della specie protetta rileveranno ad es. il genere, l’età dell’animale e le difficoltà di riproduzione della relativa specie.
La clausola in commento sembra classificabile come clausola di esclusione del tipo, valevole cioè a “escludere il tipo “originario” delimitandone l’ampiezza”10.
Diversamente, la clausola “fuori dei casi consentiti”, posta in apertura della fattispecie, costituisce clausola di illiceità espressa, richiamante (superfluamente) tutte le norme e i provvedimenti basati su norme che facoltizzano o impongono l’uccisione, cattura ecc. di animali selvatici protetti, ad. es. per ragioni di salute pubblica, di pubblica incolumità o per ragioni scientifiche11.
L’art. 727-bis co. 2 punisce con l’ammenda fino a 4.000 euro chiunque, fuori dei casi consentiti, distrugge, preleva o detiene esemplari appartenenti ad una specie vegetale protetta, fatta salva la clausola di inoffensività sopra riportata in relazione alle specie animali protette.
La fattispecie in esame offre tutela penale alle specie vegetali protette indicate nelle direttive richiamate dall’art. 733-bis, co. 2.
La disposizione colma un vuoto di tutela, dato che le uniche fattispecie aventi ad oggetto specie vegetali selvatiche protette presenti nel nostro ordinamento penale incriminavano le diverse condotte di importazione, commercio ecc, senza le prescritte autorizzazioni e documentazioni (l. 150/1992).
La scelta sanzionatoria (sola ammenda oblazionabile pagando un terzo di 4.000 euro) non appare felice.
Sul piano della politica criminale nazionale in senso lato la scelta della sola pena dell’ammenda appare recessiva, ben potendo lasciare il campo – se fossero stati assenti vincoli comunitari di segno opposto - ad una sanzione amministrativa pecuniaria di importo equivalente.
Dal punto di vista dell’adempimento della direttiva 2008/99/CE è assai dubbio che lo standard di tutela penale imposta con la richiesta di sanzioni penali efficaci, adeguate e dissuasive possa dirsi soddisfatto, in presenza di una contravvenzione oblazionabile con 1.333 euro di ammenda.
Più in radice v’è da chiedersi se sia opportuno imporre, in sede europea, l’arma di pene serie per condotte che forse potrebbero essere sanzionate con adeguate sanzioni amministrative, senza scomodare le risorse e i tempi della giustizia penale.
3.1. Il decreto legislativo n. 121/2011 prevede l’introduzione, all’art. 733-bis c.p., del reato di distruzione o deterioramento di habitat all’interno di un sito protetto.
La collocazione nel titolo II del libro III del codice penale, dedicato alle “contravvenzioni concernenti l’attività sociale della pubblica amministrazione” non appare delle più felici.
Non si punisce infatti una violazione formale, né si tutelano le funzioni di pianificazione e controllo della pubblica amministrazione; al contrario si introduce un reato di danno avente un oggetto materiale di tutela particolarmente delicato (l’habitat all’interno di un sito protetto).
Volendo inserire la fattispecie menzionata nel codice penale, e non volendo inserirla in un nuovo titolo dedicato ai reati ambientali, la collocazione forse più idonea sarebbe stata in calce ad uno dei tanti reati di danneggiamento gemmati sul tronco dell’art. 635 c.p.
Al secondo comma dell’art. 733-bis c.p. si definisce “habitat all’interno di un sito protetto” “qualsiasi habitat di specie per le quali una zona sia classificata come zona a tutela speciale a norma dell’art. 4, paragrafi 1 o 2 della direttiva 2009/147/CE, o qualsiasi habitat naturale o un habitat di specie per cui un sito sia designato come zona speciale di conservazione a norma dell’articolo 4, paragrafo 4, della direttiva 92/43/CE”.
Il concetto di habitat ha doppia natura: per così dire normativa in relazione alle due direttive comunitarie citate; “naturalistica” rispetto alla formula “qualsiasi habitat naturale”, che parrebbe rimandare alla valutazione in concreto del giudice, anche a prescindere da atti amministrativi o definizioni/classificazioni legislative.
Il reato di danneggiamento di habitat sembra poter concorrere con quello di distruzione o deturpamento di bellezze naturali (art. 734 c.p.), avente diverso bene tutelato: quest’ultimo protegge le bellezze naturali dal punto di vista estetico dell’uomo, e non gli habitat naturali intesi come luoghi in sé (o per le specie che vi dimorano) meritevoli di tutela.
La fattispecie abbraccia sia le condotte di distruzione dell’habitat (per es. di un bosco, di una palude), sia di deterioramento: in quest’ultimo caso occorre che la condotta produca la compromissione dello stato di conservazione.
Il concetto sembra da intendersi in senso funzionale più che quantitativo: occorre valutare l’incidenza del deterioramento sulla funzione ecologica rappresentata dall’habitat in questione.
A titolo esemplificativo potrà dirsi compromesso lo stato di conservazione di un bosco ove nidificano uccelli appartenenti a specie protette laddove l’abbattimento di molti ma non di tutti gli alberi comporti il venir meno anche solo parziale di quel sito come luogo di sosta e di riproduzione della specie.
La compromissione è da ritenersi tale anche qualora l’habitat possa essere successivamente ripristinato, a distanza di tempo significativa, con opere dell’uomo (per es. rimboschimenti, bonifiche ecc.) o con il lento passare del tempo (si pensi alla ricrescita spontanea di piante).
L’art. 733-bis si apre con la clausola “fuori dei casi consentiti”.
Si tratta dell’ennesima clausola di illiceità espressa, la quale rinvia alle norme e ai provvedimenti amministrativi che facoltizzano o impongono di tenere la condotta tipica.
Si pensi ad es. all’attività antincendio con prodotti chimici che interessi un bosco lambito dalle fiamme, o al taglio di piante per ragioni di pubblica incolumità.
Analogamente a quanto discusso in relazione all’affine reato di distruzione e deturpamento di bellezze naturali (art. 734 c.p.) è presumibile si porrà la questione della rilevanza o meno (ad escludere il tipo o l’antigiuridicità) di eventuali autorizzazioni amministrative all’esecuzioni di lavori che comportino distruzione o deterioramento dell’habitat.
Va infatti sottolineato che pur mancando nell’art. 733-bis c.p. la formula “luoghi soggetti alla speciale protezione dell’autorità”, propria dell’art. 734 c.p., tutti i luoghi indicati nella prima fattispecie risultano comunque soggetti a vincolo ambientale, con conseguente necessità, per chi intenda modificarne lo stato, di munirsi di previa autorizzazione.
La nuova fattispecie interferisce con le fattispecie penali previste dall’art. 30 della legge n. 394/1991 (legge quadro sulle aree protette), poste a tutela dei parchi nazionali, delle riserve naturali, sia nazionali che regionali, delle aree marine protette e, secondo la giurisprudenza, anche delle zone umide, delle zone di protezione speciale, delle zone speciali di conservazione e delle altre aree naturali protette”12.
L’art. 30 l. 394/1991, al co. 1, prevede la sanzione penale dell’arresto fino a dodici mesi e dell’ammenda da 103 a 25.822 euro per le violazioni delle misure di salvaguardia e del preventivo rilascio del nulla osta per la realizzazione di interventi nelle aree protette; al co. 2 prevede la sanzione dell’arresto fino a sei mesi o dell’ammenda da 103 a 12.911 euro per la violazione del divieto a svolgere determinate attività potenzialmente offensive del patrimonio protetto.
Tali fattispecie soccombono rispetto al nuovo reato di cui all’art. 727-ter c.p., il quale costituisce figura speciale, riferita a fatti dannosi e più specifici (distruzione e compromissione) rispetto a violazioni più generiche (delle misure di salvaguardia ecc.), attestanti pericoli.
Anche dal punto di vista sanzionatorio la nuova fattispecie codicistica è punita più severamente rispetto alle fattispecie dell’art. 30 l. 394/1991.
4. La novità più significativa del testo in commento è rappresentata dall’introduzione della responsabilità degli enti per taluni reati ambientali commessi a vantaggio o nell’interesse dell’ente13.
In particolare, l’art. 7 della direttiva 2008/99/CE, intitolato “Sanzioni per le persone giuridiche”, impone agli Stati membri di adottare “le misure necessarie affinché le persone giuridiche dichiarate responsabili di un reato ai sensi dell’articolo 6 siano passibili di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive”14.
Il riferimento era ad una vasta gamma di fattispecie di pericolo concreto e di danno, vuoi per le matrici ambientali, vuoi per la salute e integrità fisica delle persone.
Il nostro legislatore delegante (l. 96/2010, c.d. legge comunitaria 2009), non è chiaro se per ignavia o per scelta, anziché prevedere l’introduzione di nuovi reati ambientali di pericolo concreto o di danno sul calco delle fattispecie europee, si è limitato a prefigurare illeciti penali puniti con la sanzione dell’arresto e/o dell’ammenda, ovvero illeciti contravvenzionali storicamente costruiti, nel nostro ordinamento, nella forma (e struttura) dei reati di pericolo astratto.
Di conseguenza, il legislatore delegato, con le mani (troppo) “legate”, si è visto costretto a fare riferimento, per la responsabilità degli enti, a fattispecie contravvenzionali e di pericolo astratto già presenti nel nostro ordinamento penale.
In base al precedente schema di decreto legislativo, molti reati di natura formale in materia di inquinamento idrico, atmosferico e in tema di rifiuti sarebbero rientrati nel novero dei reati presupposto fondanti la responsabilità degli enti.
Con l’ultima versione il legislatore delegato ha parzialmente corretto il tiro, espungendo dal catalogo dei reati presupposto gli illeciti penali di natura più schiettamente formale (cfr. infra).
In particolare fonderanno la responsabilità dell’ente i seguenti reati ambientali:
nel settore dell’inquinamento idrico:
- scarico idrico in violazione delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione (art. 137, co. 3) e dei limiti tabellari per talune sostanze (art. 137, co. 5 primo periodo);
- scarico in acque marine da parte di navi od aeromobili (art. 137, co. 13).
In tutte e tre le ipotesi è prevista per l’ente la sanzione pecuniaria da 150 a 250 quote;
- scarico idrico in assenza di autorizzazione o con autorizzazione sospesa o revocata riguardante talune sostanze pericolose (art. 137, co. 2);
- scarico idrico in violazione dei limiti tabellari per talune sostanze particolarmente pericolose (art. 137, co. 5 secondo periodo);
- scarico sul suolo, nel sottosuolo o in acque sotterranee (art. 137, co. 11).
In tutte e tre le ipotesi è prevista la sanzione pecuniaria da 200 a 300 quote.
Assai più nutrito è il catalogo dei reati presupposto nel settore dei rifiuti:
- gestione abusiva di rifiuti non pericolosi (art. 256, co. 1 lett. a) e deposito temporaneo presso il luogo di produzione di rifiuti sanitari pericolosi (art. 256, co. 6): sanzione pecuniaria fino a 250 quote;
- gestione abusiva di rifiuti pericolosi (art. 256, co. 1 lett. b); realizzazione e gestione di discarica abusiva di rifiuti non pericolosi (art. 256, co. 3, primo periodo); miscelazione di rifiuti (art. 256, co. 5): sanzione pecuniaria da 150 a 250 quote;
- realizzazione e gestione di discarica abusiva di rifiuti pericolosi (art. 256, co. 3, secondo periodo); sanzione pecuniaria da 200 a 300 quote; le pene in relazione a tali reati sono ridotte della metà nel caso il reato consegua all’inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni (art. 2, co. 6 decreto in commento);
- omessa bonifica di sito contaminato da rifiuti non pericolosi (art. 257, co. 1) e pericolosi (art. 257, co. 2): rispettivamente sanzione pecuniaria fino a 250 quote e da 150 a 250 quote;
- trasporto di rifiuti pericolosi senza formulario e mancata annotazione nel formulario dei dati relativi (art. 258, co. 4 secondo periodo): sanzione pecuniaria da150 a 250 quote;
- spedizione illecita di rifiuti (art. 259. co. 1): sanzione pecuniaria da 150 a 250 quote;
- attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti: sanzione pecuniaria da 300 a 500 quote; da 400 a 800 se si tratta di rifiuti ad alta radioattività;
- per la violazione delle prescrizioni in materia di SISTRI (art. 260-bis) sono previste sanzioni pecuniarie da 150 a 250 quote o, rispettivamente, da 200 a 300 a seconda della tipologia di prescrizione violata.
Infine, nel settore dell’inquinamento atmosferico, il legislatore delegato è stato decisamente più parco, inserendo nel catalogo dei reati presupposto un solo reato: superamento dei valori limite di emissione e dei valori limite di qualità dell’aria previsti dalla normativa di settore (art. 279, co. 5), punito con sanzione pecuniaria fino a 250 a quote.
Il nuovo catalogo dei reati presupposto è significativamente più ristretto di quello previsto nella versione antecedente rappresentata dallo schema di decreto legislativo.
Sono “sparite” numerose violazioni di offensività meno pregnante (o più indiretta) nel settore dell’inquinamento idrico (scarico idrico non autorizzato di sostanze non pericolose; mancata conservazione dei risultati dei controlli in automatico degli scarichi; impedimento dell’accesso all’insediamento produttivo; violazione degli obblighi di comunicazione in capo al gestore del servizio idrico integrato; inottemperanza delle discipline regionali, utilizzazione agronomica al di fuori dei casi e delle procedure previste ecc.).
Il “taglio” è stato “amazzonico” rispetto ai reati di inquinamento atmosferico: nella versione originaria erano stati inseriti nel catalogo dei reati presupposto tutte le fattispecie penali descritte nell’art. 279, tranne quella di omessa comunicazione di modifica sostanziale allo stabilimento.
Nella versione odierna tutte le fattispecie rimangono fuori, tranne una: l’art. 279 co. 5, ovvero la violazione dei valori limite di emissione se il superamento dei valori determina anche il superamento dei valori di qualità dell’aria.
In sostanza non rilevano più, quali reato presupposto, l’emissione che superi i valori limite ma non anche quelli di qualità dell’aria; la violazione di aumento temporaneo delle emissioni e diverse fattispecie incentrate sull’omessa comunicazione di messa in esercizio o di dati relativi alle emissioni in atmosfera.
Sono inoltre venuti meno i reati presupposto contenuti nell’art. 29-quattuordecies in tema di autorizzazione integrata ambientale.
Tale ultima eliminazione suscita perplessità, specie riguardo a fattispecie di significativo spessore offensivo, come ad esempio la prosecuzione dell’attività dopo l’ordine di chiusura dell’impianto (co. 3).
Tanto più che per espressa previsione dell’art. 29-quattuordecies co. 10, per gli impianti soggetti ad AIA “non si applicano le sanzioni previste da norme di settore, relative a fattispecie oggetto del presente articolo”.
Sicché parrebbe che l’ente soggetto ad AIA cui siano ascrivibili reati presupposto in materia ambientale non ne risponderà, sia in assenza di specifico reato presupposto riferito alla normativa AIA, sia, dalla data di rilascio dell’autorizzazione AIA, in relazione ai “normali” reati in materia di rifiuti, inquinamento idrico e atmosferico, sottratti alle discipline di settore dal citato comma 10 dell’art. 29-quattuordecies.
L’irragionevolezza del trattamento sanzionatorio per l’ente soggetto ad AIA rispetto a quello non soggetto appare evidente.
Nessuna modifica è viceversa intervenuta per i reati presupposto in tema di rifiuti: al pari di quanto previsto dallo schema di decreto legislativo, tutte le fattispecie penali contenute nella parte quarta, titolo VI, capo I del D.lgs. n. 152/2006 sono idonee a fondare la responsabilità dell’ente, con l’unica confermata eccezione dell’abbandono/deposito incontrollato di rifiuti (art. 256, co. 2).
Non è agevole comprendere le ragioni della selezione di reati ambientali presupposto operata dal legislatore delegato rispetto allo schema di decreto legislativo.
Quest’ultimo prevedeva tre differenti cornici edittali per le sanzioni destinate all’ente, modellate su tre diverse tipologie di pena riferite alle cornici edittali dei reati presupposto15.
Una indicazione meramente quantitativa, che non sembrava suscettibile di filtri qualitativi.
Il legislatore delegato ha viceversa selezionato taluni reati scartandone altri, a parità di tipologia sanzionatoria.
La riduzione dei reati presupposto sembra essere, almeno in parte, di natura qualitativa e non quantitativa, legata cioè alla tipologia di reati (per es. quelli di omessa collaborazione con l’autorità) e, in taluni casi, alla pericolosità della condotta.
In quest’ottica si spiega ad es. l’eliminazione, tra gli illeciti penali presupposto, del reato di scarico idrico non autorizzato di sostanze non pericolose e di messa in esercizio di impianto con emissioni in atmosfera senza previa comunicazione (art. 279 co. 3 D.lgs. 152/2006).
Tale linea non è stata peraltro sempre percorsa con coerenza, posto che, ad es., è rimasto nel catalogo dei reati presupposto la contravvenzione di gestione abusiva di rifiuti non pericolosi.
Ad una prima impressione parrebbe che, seppure con qualche incoerenza, il legislatore delegato, limitatamente ai reati presupposto fondanti la responsabilità degli enti, ha operato una selezione del penalmente rilevante, nel senso invocato da una parte della dottrina di espulsione dall’orizzonte penalistico delle violazioni dotate di minore (o più indiretta) attitudine offensiva, per es. perché aventi ad oggetto sostanze non pericolose o perché espressive di mera mancata collaborazione con le autorità di controllo.
Fuori del D.lgs. 152/2006 è prevista la responsabilità dell’ente per taluni reati in materia di commercio internazionale di specie animali e vegetali protette (l. 150/1992, richiamata dall’art. 2, co. 3 del decreto legislativo in commento); di produzione e impiego di sostanze lesive dell’ozono (l. 549/1993, richiamata dall’art. 2, co. 4); di inquinamento provocato da navi (l. 202/2007, richiamata dall’art. 2, co. 5).
Tra i reati presupposto “entrano” anche i nuovi reati, sopra analizzati, di cui agli art. 727-bis e 733-bis c.p.
Sanzioni interdittive di durata non superiore a 6 mesi sono previste in caso di condanna “per i delitti” (lapsus del legislatore: si tratta di contravvenzioni, con l’unica eccezione dell’art. 260) indicati nell’art. 2, co. 7.
E’ prevista la sanzione dell’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività se l’ente o una sua unità organizzativa vengono stabilmente utilizzati allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione dei reati di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (art. 260 d.lgs. n. 152/2006) e di inquinamento marino doloso (art. 8 d.lgs. n. 202/2007).
5. Il decreto legislativo in commento pone due problemi:
a) di conformità ai criteri e principi direttivi della legge delega n. 96/2010;
b) di conformità con le direttive europee oggetto di recepimento.
5.1. More italico solito, la delega e i relativi criteri e principi direttivi sono caratterizzati da proverbiale vaghezza e indeterminatezza, tanto da apparire buoni, si fa per dire, ad abbracciare una vastissima gamma di disposizioni di natura diversa: “il Governo è delegato ad adottare, entro il termine di recepimento indicato in ciascuna delle direttive elencate negli allegati A e B, i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione alle medesime direttive” (art. 1 l. 96/2010).
Dello stesso tenore l’art. 2 della legge delega, in forza del quale “Salvi gli specifici principi e criteri direttivi stabiliti di cui ai capi II e III, e in aggiunta a quelli contenuti nelle direttive da attuare, i decreti legislativi di cui all’art. 1 sono informati ai seguenti principi e criteri direttivi generali...” tra i quali, la previsione di sanzioni penali dell’arresto diversamente graduate, e comunque fino ad un massimo di tre anni e/o dell’ammenda fino a 150.000 euro, per infrazioni che ledono o espongo a pericolo beni costituzionalmente protetti.
Infine l’art. 19 della legge delega imponeva al Governo di adottare uno o più decreti legislativi al fine di recepire le due direttive citate in apertura, con due soli principi e criteri specifici, destinati proprio all’ente:
a) introdurre tra i reati di cui alla sezione III del capo I del d.lgs. n. 231/2001 le fattispecie criminose indicate nelle direttive di cui al comma 1;
b) prevedere, nei confronti degli enti nell’interesse o a vantaggio dei quali è stato commesso uno dei reati di cui alla lettera a), adeguate e proporzionate sanzioni amministrative pecuniarie, di confisca, di pubblicazione della sentenza ed eventualmente anche interdittive, nell’osservanza di principi di omogeneità ed equivalenza rispetto alle sanzioni già previste per fattispecie simili, e comunque nei limiti massimi previsti dagli artt. 23 e 13 d.lgs. n. 231/2001.
L’assenza, nella legge delega, di qualsiasi riferimento espresso all’introduzione, a monte della responsabilità degli enti, dei correlati reati presupposto, lascia il dubbio circa un eccesso di delega laddove, limitatamente ai reati di inquinamento, il decreto legislativo, anziché richiamare i reati di danno e di pericolo concreto indicati nella direttiva 2008/99/CE all’art. 3 lett. a), o gli equivalenti reati già presenti nel nostro ordinamento (per es. c.d. disastro ambientale, danneggiamento idrico, getto pericoloso di cose, omicidi colposi e lesioni colpose in concorso con singoli reati ambientali “settoriali” ecc.), ha viceversa ritenuto di menzionare taluni reati di pericolo astratto (art. 137, 256, 279 d.lgs. n. 152/2006 ecc.), di diverso contenuto e diversa struttura.
A nostro parere non vi è eccesso di delega.
In base alle citate direttive16, costituenti esse stesse criteri direttivi per il legislatore delegato (art. 2 legge delega n. 96/2010), i legislatori nazionali ben possono adottare standard di tutela più rigorosi di quelli contenuti in atti comunitari.
Inoltre l’art. 19 delegava il Governo ad adottare “uno o più decreti legislativi al fine di recepire le disposizioni” delle due direttive, lasciando ampia discrezionalità circa i modi dell’adempimento alla delega.
Se è vero che la direttiva non obbliga all’introduzione di nuovi reati, laddove gli Stati membri prevedano già fattispecie di maggior tutela, il richiamo, da parte della legge delega, alle direttive e a tutte le disposizioni necessarie al loro recepimento consentiva al Governo di non introdurre nuovi reati presupposto e di rinviare, per la responsabilità degli enti, a reati già inseriti nel nostro ordinamento penale17.
Tuttavia, la scelta conservatrice legittimamente compiuta dal nostro legislatore delegato rispetto alla responsabilità delle persone fisiche, circoscritta di regola a reati di pericolo astratto puniti blandamente (id est in modo proporzionato alla relativa distanza dall’offesa in concreto o dal danno), si è risolta, forse all’insaputa dello stesso legislatore nostrano, in una scelta potenzialmente “rivoluzionaria” rispetto alla responsabilità da reato degli enti.
La responsabilità degli enti scatta infatti – di regola - in presenza di reati di pericolo astratto, spesso costituiti da violazioni formali, con due differenze di disciplina fondamentali:
a) gli illeciti amministrativi degli enti, a differenza dei reati presupposto, non sono oblazionabili (art. 8 lett. b) D.lgs. n. 231/2001) e sono sottoposti a più lunghi termini di prescrizione (art. 22 D.lgs. n. 231/2001, il quale adotta una disciplina “civilistica” degli atti interruttivi);
b) le sanzioni amministrative pecuniarie previste per gli enti (di regola da 100 a 250 quote, ovvero da un minimo di 25.800 ad un massimo di 387.250 euro) sono decisamente più onerose delle ammende previste per gli autori dei reati presupposto.
5.1.1. Un discorso a parte merita l’inserimento, tra i reati presupposto, di taluni reati di falso, richiamati dall’art. 2, co. 3 lett. c) del decreto in commento, contenuti nell’art. 3-bis, co. 1 l. 150/1992,
Tale articolo prevede che “alle fattispecie previste dall’articolo 16, paragrafo 1, lettere a), c), d) ed l) del regolamento (CE) n. 338/97…in materia di falsificazione o alterazione di certificati, licenze, notifiche di importazioni, dichiarazioni, comunicazioni” ecc. “si applicano le pene di cui al libro II, titolo VII, capo III del codice penale”.
Ebbene, i reati di falso non sono indicati nell’art. 3 della direttiva 2008/99/CE cui rinvia la legge delega, e a rigore non sono neppure reati contro l’ambiente, bensì reati contro la fede pubblica, per quanto strumentali alla tutela dell’ambiente.
L’unico vago appiglio potrebbe forse trovarsi nell’art. 2, lett. g) della legge delega n. 96/2010, secondo il quale “nella predisposizione dei decreti legislativi…si tiene conto delle esigenze di coordinamento tra le norme previste nelle direttive medesime e quanto stabilito dalla legislazione vigente”.
Siamo peraltro ben lontani da un canone accettabile di chiarezza e sufficiente determinatezza dei criteri e principi direttivi della delega.
In definitiva sul punto, per i reati, concernenti falsità dei certificati relativi all’importazione, commercio ecc. di specie protette sembra sostenibile l’eccesso di delega legislativa, in violazione dell’art. 76 Cost.
5.2. L’art. 117 co. 1 subordina l’esercizio della potestà legislativa, tra l’altro, ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.
Rimane da verificare se tale obbligo sia stato rispettato.
Le direttive oggetto di recepimento fissavano un minimum standard di tutela, derogabile dagli Stati membri che intendessero offrire una tutela più avanzata e/o severa.
Circoscrivendo il discorso alla responsabilità da reato degli enti, il nostro legislatore delegato, diversamente da quello europeo, ha inserito nel catalogo dei reati presupposto reati di pericolo astratto, e non di danno o di pericolo concreto per l’ambiente e la salute/integrità fisica delle persone, come espressamente indicato nelle due direttive citate.
La scelta non è di per sé censurabile, nel senso che gli Stati membri possono approntare, come detto, una disciplina che colpisca offese più remote rispetto alla soglia individuata dalle direttive.
Tuttavia, mentre le persone fisiche autrici di reati di pericolo concreto (disastro ambientale, getto pericoloso di cose) o di danno (danneggiamento idrico) sono per interpretazione giurisprudenziale (a torto o a ragione) destinatarie delle menzionate fattispecie penali, queste ultime non sono state inserite nei reati presupposto della responsabilità dell’ente.
Sicché tale responsabilità scatta paradossalmente per le offese meno rilevanti, attestate sul pericolo astratto, mentre si arresta di fronte al passaggio verso soglie di pericolo concreto o di danno.
L’omesso inserimento delle citate fattispecie codicistiche (art. 635, 674 e 449 c.p.), o comunque l’omessa introduzione nell’ordinamento di nuove fattispecie di recepimento dei reati di pericolo concreto e di danno di matrice europea nel catalogo dei reati fondanti la responsabilità dell’ente costituisce una chiara violazione delle direttive citate, con contestuale violazione dell’obbligo comunitario e dell’art. 117, co. 1 Cost.
Rimane da sottolineare che quasi tutti i reati rimasti a comporre la gamma dei reati presupposto sono di pericolo astratto, seppure caratterizzati, rispetto a quelli eliminati, da una pregnanza offensiva tendenzialmente più marcata.
Il risultato complessivo dell’assetto di disciplina è asimmetrico.
La platea dei reati ambientali commissibili dalle persone fisiche è significativamente più ampia di quelli ascrivibili all’ente.
Per contro la disciplina è improntata a scarsa severità per le persone fisiche, destinatarie di illeciti penali contravvenzionali soggetti a prescrizione breve e a pene piuttosto blande, non di rado oblazionabili, mentre esprime significativo rigore per gli enti, destinatari di sanzioni pecuniarie (come non oblazionabili e soggette alla più lunga prescrizione civilistica) tutt’altro esigue (di regola da 100 a 250 quote, ovvero da un minimo di 25.800 ad un massimo di 387.250 euro) in presenza di reati presupposto che, pur dopo la “potatura” intervenuta in corso di elaborazione del decreto legislativo, continuano a punire pericoli astratti.
Esemplificando, nel caso forse più frequente di gestione abusiva di rifiuti non pericolosi (art. 256, co. 1, lett. a) il soggetto apicale potrà “chiudere” la sua vicenda penale pagando 13.000 euro a titolo di oblazione, o magari potrà tentare la via statisticamente non impossibile della prescrizione della contravvenzione; mentre l’ente rischierà una sanzione amministrativa pecuniaria da 25.800 a 387.250 euro, senza possibili vie di fuga quali l’oblazione o la prescrizione.
La nuova disciplina dovrebbe dunque spingere le aziende a dotarsi di efficaci modelli di prevenzione dei reati ambientali, al fine di evitare prevedibili notevoli costi di “gestione” del rischio penale.
Il condizionale dipende dall’immobilismo che ha caratterizzato la gran parte delle Procure italiane nell’affrontare la affine responsabilità degli enti da lesioni gravi e omicidi colposi.
L’inserimento dei reati ambientali nel catalogo dei reati presupposto servirà se non altro a verificare se tale immobilismo dipende da una generale ritrosia alle novità legislative o, viceversa, se è dovuto alla natura di evento dei reati di lesioni e omicidio colposo, che secondo una parte dei commentatori sarebbe incompatibile con il concetto di vantaggio o interesse per l’ente rappresentato dal reato.
Natura, come noto, diversa da quella dei reati ambientali, tipici illeciti di condotta (salvo eccezioni), che non pongono particolari problemi di ascrizione dell’interesse o vantaggio dell’ente, normalmente riferibili al risparmio sui costi di gestione conseguenti alle emissioni/immissioni inquinanti o alla gestione abusiva dei rifiuti.
Dal punto di vista delle politiche aziendali, è lecito attendersi un rinnovato interesse per modelli di organizzazione che, partendo da dalle certificazioni ISO 14001 ed EMAS18, inglobino in se le regole e i protocolli necessari a far fronte ai rischi di commissione dei reati ambientali indicati nel decreto legislativo in commento.
E’ vero che nelle disposizioni in commento manca una norma analoga all’art. 30 del d.lgs. n. 81/2008, la quale cioè indichi linee guida cui uniformare i modelli di organizzazione aziendale ai fini della loro presunta idoneità a prevenire reati ambientali.
Tuttavia è ragionevole ritenere che la prassi (e i giudici investiti della questione) non potranno che fare riferimento, almeno in prima battuta, ai sistemi di certificazione ambientale oggi in auge, opportunamente adeguati ai rischi da reato ambientale e alle peculiarità operative dei singoli enti.
Carlo Ruga Riva
Professore associato di diritto penale
e diritto penale dell’ambite
Università degli Studi di Milano-Bicocca
a) lo scarico, l’emissione o immissione illeciti di un quantitativo di sostanze o radiazioni ionizzanti nell’aria, nel suolo o nelle acque che provochino o possano provocare il decesso o lesioni gravi alle persone o danni rilevanti alla qualità dell’aria, alla qualità del suolo o alla qualità delle acque, ovvero alla fauna o alla flora”.
In relazione alla commissione dei reati previsti dal codice penale, si applicano le seguenti sanzioni pecuniarie:
a) per la violazione dell’articolo 727-bis la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;
b) per la violazione dell'articolo 733-bis la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote.
2. In relazione alla commissione dei reati previsti dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:
a) per i reati di cui all’articolo 137:
1) per la violazione dei commi 3, 5, primo periodo, e 13, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;
2) per la violazione dei commi 2, 5, secondo periodo, e 11, la sanzione pecuniaria da duecento a trecento quote.
b) per i reati di cui all’articolo 256:
1) per la violazione dei commi 1, lettera a), e 6, primo periodo, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;
2) per la violazione dei commi 1, lettera b), 3, primo periodo e 5, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;
3) per la violazione del comma 3, secondo periodo, la sanzione pecuniaria da duecento a trecento quote.
c) per i reati di cui all’articolo 257:
1) per la violazione del comma 1, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;
2) per la violazione del comma 2, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote.
d) per la violazione dell’articolo 258, comma 4, secondo periodo, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;
e) per la violazione dell’articolo 259, primo comma, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;
f) per il delitto di cui all’articolo 260, la sanzione pecuniaria da trecento a cinquecento quote, nel caso previsto dal comma 1 e da quattrocento a ottocento quote nel caso previsto dal comma 2;
g) per la violazione dell’articolo 260-bis, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote nel caso previsto dai commi 6, 7, secondo e terzo periodo, e 8, primo periodo, e la sanzione pecuniaria da duecento a trecento quote nel caso previsto dal comma 8, secondo periodo;
h) per la violazione dell’articolo 279, ad eccezione dell’ultima ipotesi del comma 1, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote.
3. In relazione alla commissione dei reati previsti dalla legge 7 febbraio 1992, n. 150, si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:
a) per la violazione dell’articolo 1, comma 1, 2, commi 1 e 2, e 6, comma 4, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;
b) per la violazione dell’articolo 1, comma 2, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;
c) per i reati del codice penale richiamati dall’articolo 3-bis, comma 1, rispettivamente:
1) la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote, in caso di commissione di reati per cui è prevista la pena non superiore nel massimo ad un anno di reclusione;
2) la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote, in caso di commissione di reati per cui è prevista la pena non superiore nel massimo a due anni di reclusione;
3) la sanzione pecuniaria da duecento a trecento quote, in caso di commissione di reati per cui è prevista la pena non superiore nel massimo a tre anni di reclusione;
4) la sanzione pecuniaria da trecento a cinquecento quote, in caso di commissione di reati per cui è prevista la pena superiore nel massimo a tre anni di reclusione.
4. In relazione alla commissione dei reati previsti dall’articolo 3, comma 6, della legge 28 dicembre 1993, n. 549, si applica all'ente la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote.
5. In relazione alla commissione dei reati previsti dal decreto legislativo 6 novembre 2007, n. 202, si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:
a) per il reato di cui all’articolo 9, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;
b) per i reati di cui agli articoli 8, comma 1, e 9, comma 2, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;
c) per il reato di cui all’articolo 8, comma 2, la sanzione pecuniaria da duecento a trecento quote.
6. Le sanzioni previste dal comma 2, lettera b), sono ridotte della metà nel caso di commissione del reato previsto dall’articolo 256, comma 4, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.
7. Nei casi di condanna per i delitti indicati al comma 2, lettera a), n. 2), b), n. 3), e f), e al comma 5, lettere b) e c), si applicano le sanzioni interdittive previste dall'articolo 9 comma 2 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, per una durata non superiore a sei mesi.
8. Se l'ente o una sua unità organizzativa vengono stabilmente utilizzati allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione dei reati di cui all’articolo 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e all’articolo 8 del decreto legislativo 6 novembre 2007, n. 202, si applica la sanzione dell'interdizione definitiva dall'esercizio dell'attività ai sensi dell'articolo 16, comma 3, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231.».