Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20195 del 19/04/2006 Ud.
(dep. 13/06/2006 ) Rv. 234331
Presidente: Postiglione A. Estensore: Amoroso G.
Relatore:
Amoroso G. Imputato: Ciullo e altro. P.M. Fraticelli M.
(Conf.)
(Rigetta, App. Lecce, 8 aprile 2005)
BELLEZZE NATURALI (PROTEZIONE DELLE) - Attività di cava - In
assenza di autorizzazione paesaggistica - Reato di cui all'art. 181
D.Lgs. n. 42 del 2004 - Configurabilità.
La realizzazione di una cava in difetto della preventiva autorizzazione
paesaggistica integra il reato di cui all'art. 163 del D.Lgs. n. 490
del 1999 (ora sostituito dal D.Lgs. n. 42 del 2004), atteso che si
viene a determinare una alterazione del territorio, per la cui
configurabilità non è necessario il verificarsi
di un
danno ambientale.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: udienza pubblica
Dott. POSTIGLIONE Amedeo - Presidente - del 19/04/2006
Dott. MANCINI Franco - Consigliere - SENTENZA
Dott. GENTILE Mario - Consigliere - N. 640
Dott. FIALE Aldo - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. AMOROSO Giovanni - Consigliere - N. 36717/2005
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Ciullo Ippazio, n. a Taurisano il 15.1.1954;
avverso la sentenza dell'8 aprile 2005 della Corte d'Appello di Lecce;
Udita la relazione fatta in Pubblica Udienza dal Consigliere Dr.
Giovanni Amoroso;
Udito il P.M., in persona del S. Procuratore Generale Dott. Fraticelli
Mario che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Uditi gli avv.ti Conte F. G. e M. G. Spata.
la Corte osserva:
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza in data 23.03.2004, il Tribunale di Lecce - sezione
distaccata di Gallipoli dichiarava Ciullo Ippazio colpevole della
contestata violazione paesaggistica di cui all'art. 163 D.Lgs. n. 490
del 1999, per avere, nella qualità di legale rappresentante
della società F.lli Ciullo s.n.c. di Ciullo Ippazio e C.
(esercente attività estrattiva), eseguito lavori di
estrazione
nell'ambito dell'area contraddistinta dalla "particella n. 20 del
Foglio di Mappa n. 34 del comune di Gallipoli, della superficie di ha.
39.44.00 e zone limitrofe, per una superficie pari a ha. 2.00.00,
impiegando mezzi meccanici, trattandosi di zona sottoposta a vincolo
paesaggistico, coperta da bassa macchia mediterranea, in assenza di
qualsivoglia autorizzazione dell'Autorità preposta al
vincolo.
Il Tribunale irrogava la pena di mesi tre di arresto ed Euro 17.000,00
di ammenda, cui accedeva l'ordine di rimessione in pristino dello stato
dei luoghi, al cui effettivo rispetto, entra il termine di mesi sei dal
passaggio in giudicato della pronuncia, era subordinata la fruizione
del beneficio della sospensione condizionale. Lo stesso Ciullo era
altresì condannato al risarcimento dei danni, da liquidarsi
in
separato giudizio, in favore del comune di Gallipoli, costruitosi parte
civile, mentre era contestualmente assolto con ampia formula dalla
contravvenzione di cui all'art. 734 c.p., per la quale pure era stato
rinviato a giudizio, per insussistenza del fatto di reato ascritto. 2.
Avverso l'anzidetta pronuncia i difensori di fiducia del Ciullo, a
mezzo di un unico atto a firma congiunta, proponevano tempestivo
appello, con cui, premesso che l'istruttoria dibattimentale aveva
consentito di acclarare come l'area realmente interessata dal
contestato intervento avesse un'estensione di soli due ettari, ponevano
in evidenza come l'ineccepibile assoluzione, disposta dal primo giudice
in ordine all'addebito di cui all'art. 734 c.p., fosse stata adottata
sulla scorta della rilevata assenza di danni ascrivibili alla condotta
posta in essere dal Ciullo, stante la scomparsa, "già da
tempo",
della macchia mediterranea in origine esistente in loco. Da
ciò
discendeva l'erroneità della pronuncia impugnata, atteso che
anche in presenza di un reato formale e di pericolo presunto - e la
contravvenzione contestata identificava certamente una fattispecie di
reato formale e di pericolo - è riservata al giudice la
verifica
in concreto della offensività specifica della condotta
tenuta
dal soggetto attivo, verifica che deve essere condotta sulla base di un
giudizio ex ante e che perciò deve essere diretta ad
accertare,
se il tipo di intervento eseguito, a prescindere dalle concrete
modalità con le quali è stato realizzato, era
astrattamente idoneo a ledere il bene giuridico tutelato.
3. Con sentenza dell'8.4.2005 la Corte d'appello di Lecce rigettava la
proposta impugnazione e condannava l'appellante al pagamento delle
spese processuali verso l'Erario e verso la costituita parte civile.
Osservava in particolare che era emerso che la società
amministrata dall'appellante nel 2001 divenne proprietaria dell'intera
cava, dell'estensione di circa 40 ettari, ubicata in
località
"Itri" del comune di Gallipoli, cava di cui già negli anni
'80,
allorche' la stessa era sottoposta a sequestro giudiziario, nell'ambito
della causa civile intentata per la rivendica del diritto di
proprietà sull'area in questione, aveva ottenuto in
concessione
i diritti di sfruttamento, di poi oggetto di periodico rinnovo fino
all'acquisizione della piena titolarità. Ed è
altresì pacifico che la detta società, all'uopo
munita di
tutte le autorizzazioni amministrative, fatta eccezione del nulla-osta
paesaggistico richiesto dall'esistenza del vincolo imposto ai sensi
della L. n. 1497 del 1939, fece luogo alla coltivazione solo di un'area
ristretta dell'intera cava, dell'estensione di circa due ettari, che si
estende a nord del sito, in direzione del boschetto noto come "Li
Foggi", da cui dista poche centinaia di metri, mentre la restante parte
dell'area medesima, essa pure coltivata a cava "sin da numerosi decenni
addietro" già risultava in parte dismessa ed abbandonata ed
in
parte utilizzata addirittura come discarica di rifiuti, ad opera del
comune di Gallipoli e di altri comuni limitrofi.
Il 31 gennaio 2002, all'atto dell'accertamento da cui il processo
prendeva le mosse - originato da numerose segnalazioni pervenute al
Corpo Forestale dello Stato di Gallipoli - veniva constatato che erano
in corso, anche con l'ausilio di mezzi meccanici, lavori di
coltivazione della cava, circoscritti all'area ristretta sopra
indicata, in una zona, cioè, in cui il c.t.p. ing. L'INCESSO
aveva sottolineato che la macchia mediterranea, in origine copiosamente
presente, era da tempo scomparsa. In punto di diritto la Corte
territoriale osservava che la fattispecie prevista e punita dal D.Lgs.
n. 490 del 1999, art. 163 - così come dal pregresso L. n.
431
del 1985, art. 1 sexies - rientra nell'ambito dei reati c.d. di
pericolo astratto, per i quali la sussistenza del requisito della
pericolosità è già oggetto di
valutazione
affermativa da parte del legislatore, di talché non rileva
l'accertamento dell'effettiva dannosità della condotta
rientrante nell'ambito dello schema normativo, essendosi comunque
realizzata la lesione del bene tutelato. Ne discende che, in tanto
può parlarsi di violazione del principio di
offensività,
con conseguente venir meno della rilevanza penale del fatto, in quanto
ci si trovi in presenza di un comportamento che, neppure astrattamente
rivesta l'idoneità necessaria a realizzare la lesione del
bene
oggetto della salvaguardia apprestata dalla norma penale.
Nella specie - ha ulteriormente osservato la Corte d'Appello - la
constatata scomparsa della macchia mediterranea non ha carattere
assoluto, la stessa essendo evidentemente suscettibile di ricrescita,
come emergeva dalla documentazione fotografica. In proposito anche il
primo giudice aveva ritenuto la "presenza sporadica di vegetazione".
Inoltre - ha rimarcato la Corte territoriale - la disposizione
incriminatrice è finalizzata, grazie alla tutela anticipata
da
essa predisposta, "a prevenire qualsivoglia compromissione estetica
dell'ambiente realizzata attraverso un'apprezzabile modificazione dello
stato dei luoghi..., e ciò in special modo con riferimento
all'attività di escavazione e di coltivazione della cava,
idonea
per sua natura a provocare un'alterazione morfologica permanente del
territorio e del paesaggio suscettibile di costante ampliamento e che,
pertanto, rende necessario l'intervento dell'Autorità
amministrativa preposta alla tutela del vincolo per le necessarie
verifiche di compatibilità...".
3. Avverso questa pronuncia l'imputato ha proposto distinti ricorsi per
Cassazione rispettivamente con un unico motivo e con due motivi. MOTIVI
DELLA DECISIONE
1. Con l'unico motivo del primo ricorso l'imputato censura l'impugnata
sentenza per non aver riconosciuto nella specie l'ipotesi del reato
impossibile (art. 49 c.p.) stante l'assoluta inidoneità
della
condotta contestata a determinare un pericolo per l'ambiente. Con il
secondo ricorso l'imputato censura la sentenza impugnata per mancanza e
manifesta illogicità della motivazione quanto
all'affermazione
della penale responsabilità (primo motivo) e quanto alla
condanna generica al risarcimento del danno (secondo motivo). 2. I
ricorsi - che possono essere esaminati congiuntamente atteso che, pur
sussistendo il principio della unicità del diritto di
impugnazione, il secondo ricorso ha la valenza della proposizione di
motivi nuovi, sempre consentita nel rispetto del termine di cui
all'art. 585 c.p.p. - sono infondati.
3. Quanto al primo ricorso ed al primo motivo del secondo ricorso, che
evocano entrambi il tema del reato impossibile e della dedotta mancanza
di offensività della condotta dell'imputato - deve rilevarsi
che
questa Corte (Cass., sez. 3^, 25 gennaio 2005, Di Cesare) ha
già
affermato che il reato di cui all'art. 163 D.Lgs. n. 490 del 1999 (ora
D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181) si perfeziona ponendo in essere
interventi in zone sottoposte a vincolo paesistico senza
l'autorizzazione amministrativa, condotta che, in quanto impedisce un
controllo preventivo della p.a. sull'opera, mette in pericolo il
paesaggio, bene tutelato in via mediata dalla disposizione, mentre non
ha alcun rilievo la eventuale mancanza di danno ambientale,
ancorché attestata dall'ufficio tutela del territorio.
Inoltre
Cass., sez. 3^, 1 dicembre 2004, Boscacci ha precisato che in tema di
tutela delle zone di particolare interesse ambientale, la realizzazione
di una attività di cava, consistente in lavori di scavo del
terreno, di sbancamento e successivo riempimento, con formazione di
cumuli in continua espansione volumetrica, integra il reato di
esecuzione di lavori senza autorizzazione in zone sottoposte a vincolo
paesistico, determinando una continua modificazione dei luoghi
astrattamente idonea a ledere il bene ambientale (conf. Cass., sez. 3^,
28 maggio 2004, Loprieno). Quindi da una parte correttamente la Corte
d'appello ha rilevato che la realizzazione di una cava di per
sè
altera la conformazione del territorio e quindi è soggetta
ad
autorizzazione paesaggistica nelle zone vincolate. D'altra parte la
stessa Corte ha evidenziato che nella specie vi era stato anche un
danno effettivo per la soppressione di residue zone di macchia
mediterranea. Non è pertanto invocabile nella specie la
tematica
del reato impossibile atteso che l'offensività della
condotta
sta proprio nella frustrazione dell'attività di controllo
dell'amministrazione pubblica preposta alla tutela del vincolo
paesaggistico. 4. Infondata è poi anche la specifica
doglianza
(contenuta nel secondo motivo del secondo ricorso) relativa alle
conseguenze civili e alla condanna dell'imputato al risarcimento del
danno in favore del Comune di Gallipoli.
Trattasi infatti di condanna generica che non implica, neppure in
minima parte, l'accertamento del quantum debeatur, che il ricorrente
allega essere insussistente in ragione della mancanza di
offensività in concreto della condotta contestatagli. In
disparte la accertata offensività di tale condotta, per
quanto
appena osservato, è sufficiente rilevare che la pronuncia di
condanna generica al risarcimento del danno postula l'accertamento
della potenziale capacità lesiva del fatto denunciato, non
di un
effettivo pregiudizio, riservato al procedimento di liquidazione. In
particolare la giurisprudenza civile di questa Corte (Cass., sez. 3^,
16 maggio 2003, n. 7637) ha affermato che la condanna generica al
risarcimento del danno, anche se contenuta in una sentenza penale,
consiste in una mera declaratoria iuris e richiede il semplice
accertamento della potenziale idoneità del fatto illecito a
produrre conseguenze dannose o pregiudizievoli, a prescindere dalla
esistenza e dalla misura del danno, il cui accertamento è
riservato al giudice della liquidazione; pertanto, ogni affermazione
della sentenza penale che non sia funzionale alla condanna generica
è insuscettibile di acquistare autorità di
giudicato e
non impedisce che nel giudizio di liquidazione sia riconosciuta
l'infondatezza della pretesa risarcitoria, ove si accerti che in
realtà nessun danno, anche per profili diversi da quelli
contemplati nel giudicato penale e da questo non esclusi, si sia
verificato o che quello esistente non sia eziologicamente ricollegabile
al fatto illecito accertato in sede penale.
5. In conclusione i ricorsi vanno rigettate con conseguente condanna
del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M.
La Corte rigetta i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali.
Così deciso in Roma, il 19 aprile 2006.
Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2006
Beni Ambientali. Attività di cava
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