Cass. Sez. III n. 12947 del 6 aprile 2021 (UP 20 gen 2021)
Pres. Ramacci Est. Gai Ric. Ambrosio
Beni Ambientali. Rapporto tra disciplina paesaggistica ed urbanistica

Va escluso il concorso apparente di norme fra la fattispecie prevista dall'art. 181, comma 1, del D. Lgs., n. 42 del 2004 e quella di cui all'art. 44 lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001, in ragione del fatto che non ricorre identità di materia fra la disciplina relativa alla tutela del paesaggio e quella riguardante l'urbanistica. L'unica sanzione applicabile alle violazioni previste dall'art. 181 comma 1 del D. Lgs. 42/04, qualunque sia la condotta violatrice concretamente accertata, è quella fissata dell'art. 44 lett. c) del D.P.R. 380/01


RITENUTO IN FATTO
1. Con l’impugnata sentenza, la Corte d’appello di Napoli ha confermato la sentenza del Tribunale di Nola con la quale Ambrosio Giuseppe era stato condannato, alla pena di mesi quattro di arresto e € 23.000,00 di ammenda, per i reati di cui all’art. 44 lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001 (capo a), artt. 93, 94 e 95 d.P.R. n. 380 del 2001 (capo b), art. 181 comma 1 del d.lvo n. 42 del 2004 (capo c) per avere realizzato, quale proprietario, senza autorizzazione in zona sottoposta a vincolo paesaggistico e zona sismica, una tettoria al secondo piano costituita da struttura portante in ferro con pilastrini imbullonati al solaio, copertura a doppia falda in lamiera coibentata, munita di grondaie avente superficie mq. 220 e altezza m. 3,00. Accertati in San Giuseppe Vesuviano il 23/01/2016. Con la medesima sentenza è stata disposta la demolizione dell’opera abusiva e il ripristino dello stato dei luoghi con la sospensione condizionale della pena subordinata al ripristino di questi.

2. Avverso la sentenza l’imputato ha presentato ricorso per cassazione, a mezzo del difensore di fiducia, e ne ha chiesto l’annullamento deducendo con un unico e articolato motivo la violazione di legge in relazione all’art. 15 cod.pen. e all’art. 649 cod.proc.pen.
Argomenta il ricorrente che la giurisprudenza di legittimità consolidata secondo cui tra la violazione di cui all’art. 44 lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001 e l’art. 181 comma 1 del d.lvo n. 42 del 2004 non è configurabile il concorso apparente di norme, non sarebbe più in linea con il portato della giurisprudenza di legittimità, di quella sovranazionale, espressa in relazione all’art. 4 Prot. 7 della Cedu, ed anche dei giudici delle leggi (Corte costituzionale sentenza n. 200 del 2016) alla stregua del quale il “fatto” penalmente rilevante, ai fini dell’applicazione del divieto di cui all’art. 649 cod.proc.pen.. deve presentare caratteri di identità nei suoi elementi costitutivi, condotta-evento-nesso di causa, sì che, indipendentemente dal nomen iuris attribuito, il fatto penalmente rilevante involge l’accadimento storicamente verificatosi tenuto conto anche dell’azione umana (così SU n. 41588 del 2017).
Quanto al caso in esame, premessa l’unicità della condotta di avere edificato senza le prescritte autorizzazioni in area vincolata ai sensi dell’art. 142 del d.lvo n. 40 del 2004, la lett. c) dell’art. 44 cit. si pone in termini di specialità rispetto alla lett. b) in quanto aggiunge un elemento specializzante della sottoposizione delle zone d’intervento a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico e ambientale, ma anche l’art. 181 comma 1 del d.lvo n. 42 del 2004 si pone in termini di specialità rispetto all’art. 44 lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001 e ciò in quanto ha più ampi confini («esegue lavori di qualsiasi genere») e ingloba in sé la fattispecie di cui all’art. 44 lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001 con l’ulteriore elemento specializzante della assenza dell’autorizzazione paesistica, dando luogo ad un rapporto di specialità per aggiunta a fronte di un nucleo uguale delle fattispecie, senza, tuttavia, che vi sia un rapporto di specialità inversa poiché, ai sensi dell’art. 146 cit., l’autorizzazione paesistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso a costruire. Alla stregua di siffatti principi chiede l’annullamento della sentenza con dichiarazioni di non doversi procedere in relazione al capo a) perché assorbito nel capo b).

letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Ciro Angelillis ai sensi dell’art. 23 comma 8 del d.l. n. 137 del 2020, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è manifestamente infondato perché contrario all’orientamento consolidato di Questa Corte di legittimità che il Collegio non intende rivisitare.
2. Il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 15 cod.pen. e dell’art. 649 cod.proc.pen. sull’argomentato rilievo di un rapporto di specialità tra le norme che dà luogo ad un concorso apparente di norme, da cui consegue l’assorbimento della violazione urbanistica in quella paesistica.
Deve rilevarsi, anzitutto, che il ricorrente impropriamente invoca la preclusione processuale ai sensi dell’art. 649 cod.proc.pen. in relazione alla violazione del divieto di doppio giudizio contenuto nell’art. 4 Prot. 7 della Cedu., in quanto nel caso in esame non vi è un precedente giudicato rispetto al quale deve essere compiuta la valutazione dello stesso fatto per ritenere operante la preclusione processuale del divieto di nuovo giudizio. Peraltro, il Collegio valuterà (vedi infra) il diverso profilo della compatibilità del diritto interno alla luce dei principi di matrice sovrannazionale.
3. Sin da risalenti pronunce, la giurisprudenza di legittimità aveva con orientamento consolidato escluso il concorso apparente di norme fra la fattispecie prevista dall'art. 181, comma 1, del D. Lgs., n. 42 del 2004 e quella di cui all'art. 44 lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001, in ragione del fatto che non ricorre identità di materia fra la disciplina relativa alla tutela del paesaggio e quella riguardante l'urbanistica (Sez. 3, n. 50620 del 18/06/2014, Rv. 261914 – 01).
Secondo la citata giurisprudenza l'unica sanzione applicabile alle violazioni previste dall'art. 181 comma 1 del D. Lgs. 42/04, già contemplate dall'art. 1 sexies della L. 431/85 (poi sostituito dall'art. 163 comma 1 del D. Lgs. 490/99 ed oggi dal menzionato D. Lgs. 42/04), qualunque sia la condotta violatrice concretamente accertata, è quella fissata dell'art. 44 lett. c) del D.P.R. 380/01 (già art. 20 lett. c) della legge fondamentale urbanistica del 1985 (v. tra le tante Sez. 3^ 29.5.2008 n. 35903, Mascolo, Rv. 241076; idem, 3.7.2007 n. 37518, Carusotto e altro, Rv. 237560; idem 15.6.2001 n. 30866, Visco V. e altro, Rv. 220101).
Come è noto, infatti, l'art. 181 comma 1 del richiamato D. Lgs. 42/04 dispone testualmente che "Chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici, è punito con le pene previste dal D.P.R 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, lett. c)". Da tale richiamo quoad poenam, contenuto nel corpo del D.Lgs. 42/04, all'art. 44 lett. c) del T.U. sull'urbanistica veniva tratta la conclusione che tra le due norme non vi fosse un concorso apparente, essendo diverse le due fattispecie per diversità di scopi, presupposti ed oggetto.
Si chiariva che mentre la prima disposizione è volta a tutelare il paesaggio e l'ambiente in genere nel suo complesso, come autonoma entità giuridica meritevole di tutela specifica, il D.P.R. n. 380/01 mira alla tutela del territorio sotto il profilo dell'assetto urbanistico nel suo insieme. La conferma veniva principalmente tratta dal fatto che diverse sono sia le autorizzazioni preventive richieste per una edificazione all'interno di un'area vincolata paesaggisticamente, sia le autorità preposte al rilascio di tali autorizzazioni, a riprova che diversi sono gli oggetti giuridici della tutela penale (Sez. 3, n. 30866/01 cit., Sez. 3, n.2704 del 5/02/1998, Catalini, Rv. 210279).
La previsione di un unico regime sanzionatorio non era ritenuta illogica in quanto correlato, contemporaneamente, all'integrità ambientale quale "bene unitario di rilevante entità sociale" (Sez. 3, n. 30866 del 15/06/2001, Visco, Rv. 220101 – 01; Sez. 3, n. 2704 del 05/02/1998, De Nunzio, Rv. 210279 – 01; Sez.3, n. 2357 del 21/01/1997, Zauli, Rv. 209913) ed all'assetto urbanistico del territorio nella accezione più ampia meritevole, quindi, di una tutela rafforzata in termini di maggiore gravità della sanzione rispetto alle altre forme di illeciti edilizi (lett. a) e b) dello stesso art. 44 D.P.R. 380/01.
Si escludeva, quindi, il concorso apparente di norme, ritenendo invece un concorso formale tra reati, sul rilievo della diversa oggettività del bene protetto e della “diversa materia”.  E, si chiariva, che il concetto di identità della materia evocato  andava inteso in senso ristretto e non ampio di guisa che non poteva affermarsi che la materia della tutela del paesaggio, per le particolari implicazioni che essa comporta sia in tema di specifiche forme di tutela anche preventiva, sia in tema di peculiarità dei soggetti preposti al settore, risulti identica alla materia urbanistica che attiene al governo del territorio ed all'ordinato sviluppo di esso: un conto è parlare di assetto del territorio, un conto è parlare di salvaguardia dell'ambiente paesaggistico che mira ad una tutela più diffusa in ambito sociale (sent. 50620 del 18/06/2014).

4. Ora il ricorrente ritiene che tale orientamento debba essere rivisitato.
Ritiene il Collegio che l’indirizzo interpretativo espresso dalla giurisprudenza di legittimità debba essere confermato.
L’art. 15 cod.pen. che disciplina la materia del concorso tra norme penali, prevede che quando la "stessa materia" risulti regolata da più leggi penali o più disposizioni della medesima legge, la legge o la disposizione di legge speciale deroga a quella generale, salvo che sia altrimenti stabilito. Tuttavia, il legislatore non ha chiarito cosa debba intendersi per “stessa materia”. Si tratta di una definizione assai generica, ma che ha trovato specificazione nella giurisprudenza di legittimità con pronunce che forniscono la guida all’interprete.
Sotto un primo profilo, le Sezioni Unite di questa Corte, hanno precisato che «il riferimento all'interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell'applicazione del principio di specialità, perché si può avere identità di interesse tutelato tra fattispecie del tutto diverse, come il furto e la truffa, offensive entrambe del patrimonio, e diversità di interesse tutelato tra fattispecie in evidente rapporto di specialità, come l'ingiuria, offensiva dell'onore, e l'oltraggio a magistrato in udienza, offensivo del prestigio dell'amministrazione della giustizia» (Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017, La Marca, in motivazione; Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, in motivazione; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, P.G. in proc. Di Lorenzo, in motivazione).
Sul versante dell’individuazione della norma speciale, si è distinto a seconda dei casi di specialità c.d. unilaterale, caratterizzati dalla circostanza che tutti gli elementi della fattispecie c.d. generale siano ricompresi in quella c.d. speciale che ne prevede di ulteriori, da quelli di c.d. specialità bilaterale o reciproca. In ogni caso, perché tale norma possa trovare applicazione è necessario che i reati abbiano la stessa obiettività giuridica, nel senso che deve trattarsi di reati che devono disciplinare la medesima materia ed avere identità di struttura. In altri termini, «il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola sulla individuazione della disposizione prevalente posta dall'art. 15 cod. pen., risulta integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra fattispecie, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato» (Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017, La Marca, in motivazione).
Il confronto strutturale tra la fattispecie di reato di costruzione abusiva e quella di reato paesaggistico, come da tempo definito dalla giurisprudenza di legittimità, a cui il collegio intende dare continuità, che ha evidenziato che diverse sono sia le autorizzazioni preventive richieste per una edificazione all'interno di un'area vincolata paesaggisticamente, sia le autorità preposte al rilascio di tali autorizzazioni, a riprova che diversi sono gli oggetti giuridici della tutela penale (v. in questi termini oltre a Sez. 3, n. 30866/01 cit. Sez. 3, n. 5.2.1998 n. 2704, Catalini, Rv. 210279), esclude che si possa ritenere che si versi in casi regolati dalla “stessa materia” per cui opera il disposto dell’art. 15 cod.pen.  L’identità di materia è da escludere, nel caso in esame, ove ciascuna delle fattispecie presenta, rispetto all'altra, un elemento aggiuntivo eterogeneo costituito da diversi titoli abilitativi che a loro volta si fondano su diversi presupposti normativi e diverse autorità preposte al rilascio. Del resto, una conferma indiretta si rinviene nella circostanza che l’ambiente trova una tutela costituzionale nell’art. 9 Cost., mentre l’urbanistica non è direttamente contemplata se non nel riparto di compentenza ai sensi dell’art. 117 Cost.
5. Né gli approdi interpretativi sul “medesimo fatto” di fonte sovranazionale conducono a rivisitare, a parere del Collegio, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che il Collegio condivide.   
Sin dalla pronuncia delle Sezioni Unite Donati, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato come ai fini della preclusione connessa al principio del "ne bis in idem", l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, P.G. in proc. Donati ed altro, Rv. 231799).
La giurisprudenza successiva si è posta nel solco della citata pronuncia confermando l'affermazione che il fatto che rileva, ai fini del divieto di bis in idem, è quello storico-naturalistico, ossia l'accadimento materiale che, quantunque selezionato secondo criteri normativi, nel raffronto ai fini della delibazione preclusiva prescinde dall'inquadramento giuridico che ne è stato dato. In tal senso Sez. 4, n. 3315 del 06/12/2016, Shabani, Rv. 269223; Sez. 5, n. 47683 del 04/10/2016, Robusti e altro, Rv. 268502, secondo cui ai fini della preclusione del "ne bis in idem" l'identità del fatto deve essere valutata in relazione al concreto oggetto del giudicato e della nuova contestazione, senza confrontare gli elementi delle fattispecie astratte di reato.
Se, dunque, occorre un approccio storico-naturalistico, la identità della condotta e dell'evento, secondo le modalità con cui esso si è concretamente prodotto a causa della prima, potendosi affermare che il fatto oggetto del nuovo giudizio è il medesimo solo se si riscontra la perfetta coincidenza della triade, quanto al caso in esame, a fronte di una condotta unica appaiono diversificati gli eventi naturalistici per effetto di questa: il pregiudizio per l’ambiente conseguente alla condotta di chi esegue qualsiasi tipo di lavori su beni tutelati paesaggisticamente per il reato paesaggistico, mentre nel reato urbanistico, questo deve essere individuato nel pregiudizio per l’assetto e la pianificazione urbanistica nel senso del corretto sviluppo urbanistico del territorio e della programmazione urbanistica che compente in capo agli enti territoriale a cui è riconosciuto tale potere nell’ambito di ciascuna competenza.
6. Pertanto, correttamente la sentenza impugnata ha disatteso l'eccezione difensiva, dovendosi escludere la ricorrenza di un concorso apparente di norme, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale che mantiene tutt’ora validità nel quadro dei principi sia di matrice nazionale che sovranazionale.

7. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616 cod.proc.pen. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 20/01/2021