Il trappolone del MIBAC
(Commento all’art. 143 del D. Lgs. n. 42/2004 e ss.mm.ii.)
di Massimo GRISANTI
Ogni qualvolta cado su di una notizia pubblicata su internet relativa all’individuazione – da parte degli enti locali – delle aree degradate ex art. 143, comma 1, lettera g) del Codice dei Beni Culturali e del paesaggio mi viene da sorridere.
Recita la norma in commento:
“Art. 143 – Piano paesaggistico.
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L’elaborazione del piano paesaggistico comprende almeno:
(…)
g) individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate e degli altri interventi di valorizzazione compatibili con le esigenze della tutela; (…)”.
Orbene, sovente mi è capitato di vedere planimetrie redatte da Enti Locali ove sono comprese – quali aree significativamente compromesse o degradate – porzioni di territorio già vincolate per decreto ai sensi della legge n. 1497/1939 in quanto riconosciute a suo tempo dal Ministero come “bellezze panoramiche”.
Sovente la motivazione a sostegno della proposizione del vincolo era seguente:
“… le colline predette hanno notevole interesse pubblico perché formano una serie di quadri naturali d’incomparabile bellezza, offrendo inoltre numerosi punti di vista accessibili al pubblico dai quali sono godibili tali bellezze nonché le visioni panoramiche dei nuclei monumentali circostanti l’abitato del comune di …”.
In tutta evidenza tali luoghi erano stati riconosciuti meritevoli perché tali bellezze e viste erano al tempo sussistenti.
Per tale ragione era stato impresso il vincolo e dovevano essere tutelate a mezzo dell’esercizio della funzione autorizzatoria, che veniva rilasciata inizialmente dalle strutture periferiche ministeriali (soprintendenze) e poi dalle Regioni o enti delegati.
Il provvedimento autorizzativo costituisce l’accertamento della compatibilità delle opere con le ragioni vincolistiche, e quindi ciò che viene autorizzato dovrebbe, quantomeno, non costituire un danno per il bene oggetto di tutela.
Si consideri, peraltro, che il Consiglio di Stato, con orientamento costante, ha sancito che la sanzione ex art. 15 della legge n. 1497/1939 non costituisce una riparazione del danno arrecato, bensì l’effetto della semplice violazione degli obblighi di condotta.
Solamente per i casi che riguardano i provvedimenti di condono edilizio potremmo essere in presenza anche di un effettivo danno ambientale.
Ciò posto, nei casi in cui gli Enti Locali individuassero “aree significativamente compromesse o degradate” in cui le ragioni della compromissione e/o del degrado sono generate non tanto dalla presenza di opere condonate, ma quanto da quella delle opere “regolarmente autorizzate”, ecco che saremmo inequivocabilmente in presenza di una denuncia di danno/disastro ambientale.
Le opere sarebbero logicamente e sostanzialmente abusive, perché realizzate in forza di un’apparente autorizzazione paesaggistica (atteso che quella rilasciata, dalla soprintendenza o dall’ente locale, non era idonea – per fatti concludenti – all’esclusiva finalità di tutela prescritta dal legislatore statale).
Ad avviso dello scrivente, qualora l’individuazione delle aree degradate o compromesse effettuata dagli enti locali venisse sussunta nel piano paesaggistico regionale, l’operazione di sussunzione equivale – nei fatti – ad un accertamento del danno condotto dai soggetti istituzionalmente preposti alla tutela (Regione e Stato).
Da tale momento decorre, quindi, il termine quinquennale (pena la prescrizione) per la proposizione – da parte di associazioni ambientaliste – di ricorsi alle competenti Autorità Giudiziali al fine di far concorrere al ristoro dei danni causati al paesaggio “bene comune” sia le strutture periferiche del MIBAC, sia le strutture regionali o quelle da quest’ultime delegate all’esercizio della funzione autorizzatoria (eseguita invalidamente).
Scritto il 22 novembre 2013