Cass. Sez. III n. 19692 del 7 maggio 2018 (Ud 21 mar 2018)
Presidente: Di Nicola Estensore: Cerroni Imputato: Gour
Beni Culturali. Presunzione di proprietà statale
Sui beni culturali vige una presunzione di proprietà pubblica, con la conseguenza che essi appartengono allo Stato italiano in virtù della legge (legge n. 364 del 1909, regio decreto n. 363 del 1913, legge n. 1089 del 1939, articoli 826, comma 2, 828 e 832 cod. civ.), la cui disciplina è rimasta invariata con l’introduzione del decreto legislativo n. 42 del 2004. Sono fatte salve ipotesi tassative e particolari, nelle quali il privato che intenda rivendicare la legittima proprietà di reperti archeologici deve fornire la relativa, rigorosa prova, dimostrando che: 1) i reperti gli siano stati assegnati in premio per il loro ritrovamento; 2) i reperti gli siano stati ceduti dallo Stato; 3) i reperti siano stati acquistati in data anteriore all’entrata in vigore della legge n. 364 del 1909.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 28 settembre 2016 la Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza del 18 ottobre 2013 del Tribunale di Roma, ha infine dichiarato non doversi procedere nei confronti di Jean Louis Gour per il reato di cui agli artt. 81, 110 cod. pen. e 174 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione.
2. Avverso la predetta decisione è stato proposto ricorso per cassazione con unico articolato motivo di impugnazione, deducendo violazione dell’art. 174, comma 3, del d.lgs. 42 cit..
2.1. In particolare, quanto all’implicita conferma del provvedimento di confisca dei beni archeologici in sequestro, il ricorrente ha osservato che, a norma dell’art. 240 cod. pen., era negato al Giudice il potere di disporre la misura ablativa in difetto di un accertamento definitivo di responsabilità penale, salve le ipotesi di confisca del prezzo o del profitto del reato, circostanze in specie non ricorrenti.
Qualora invece il provvedimento, trattandosi di esportazione di beni di interesse archeologico, avesse tratto fondamento dalla norma speciale di cui all’art. 174, comma 3, decreto legislativo 42 cit., anche l’eventuale natura restitutoria di detta previsione avrebbe comportato lesione del patrimonio dell’imputato. Laddove in specie l’accertamento della causa estintiva in grado d’appello aveva impedito di prendere cognizione delle censure formulate in proposito dall’imputato avanti alla Corte territoriale, circa la natura dei beni in sequestro.
3. Il Procuratore generale ha concluso nel senso dell’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. Il ricorso è manifestamente infondato.
4.1. Rappresenta principio consolidato che la confisca prevista per il reato di esportazione abusiva di beni culturali va disposta, oltre che in caso di pronuncia di condanna, anche in ipotesi di proscioglimento per cause che non riguardino la materialità del fatto e non interrompano il rapporto tra la res ed il reato (in ipotesi proprio di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione)(Sez. 3, n. 49438 del 04/11/2009, Zerbone, Rv. 245862).
Ciò posto, la stessa difesa del ricorrente ha richiamato la giurisprudenza intervenuta in proposito, che ha complessivamente affermato che, ai fini dell’applicabilità della confisca relativa a beni di interesse storico e artistico oggetto di illecito trasferimento all’estero, prevista dall’art. 174 del d.lgs. n. 42 del 22 gennaio 2004, non rilevano i principi affermati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza del 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia, in quanto, trattandosi di beni appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato, il provvedimento ablativo non incide sul diritto di proprietà privata. In conseguenza di ciò, la relativa confisca deve essere obbligatoriamente disposta anche se il privato non è responsabile dell’illecito o comunque non ha riportato condanna, fatta salva la sola eccezione che la cosa appartenga a persona estranea al reato, poiché trattasi di misura recuperatoria di carattere amministrativo la cui applicazione è rimessa al giudice penale a prescindere dall’accertamento di una responsabilità penale (Sez. 3, n. 42458 del 10/06/2015, Almagià, Rv. 265047-265046).
4.2. In specie, il ricorrente si è doluto che in appello il Giudice si era limitato a prendere atto dell’avvenuta estinzione del reato per intervenuta prescrizione, senza provvedere all’accertamento, sia pure incidentale, circa la natura dei beni in sequestro.
4.2.1. L’impugnazione non può essere condivisa.
Come è stato appunto ricordato, la disciplina dei beni culturali è retta da una presunzione di proprietà statale che non crea un’ingiustificata posizione di privilegio probatorio perché siffatta presunzione si fonda, oltre che sull’id quod plerumque accidit anche su una “normalità normativa” sicché, opponendosi una circostanza eccezionale, idonea a vincere la presunzione, deve darsene la prova.
Pertanto, dal complesso delle disposizioni, si ricava il principio generale della proprietà statale delle cose d’interesse archeologico, e della eccezionalità delle ipotesi di dominio privato sugli stessi oggetti (così, in motivazione, Sez. 3 n. 42458 cit.).
Nel caso di specie, sebbene il procedimento penale non si sia concluso con una affermazione di responsabilità, il ricorrente non ha fornito alcuna prova idonea a vincere la richiamata presunzione di proprietà statale sui beni in questione.
Al riguardo, infatti, è stato già ricordato che sui beni culturali vige una presunzione di proprietà pubblica, con la conseguenza che essi appartengono allo Stato italiano in virtù della legge (legge n. 364 del 1909, regio decreto n. 363 del 1913, legge n. 1089 del 1939, articoli 826, comma 2, 828 e 832 cod. civ.), la cui disciplina è rimasta invariata con l’introduzione del decreto legislativo n. 42 del 2004. Sono fatte salve ipotesi tassative e particolari, nelle quali il privato che intenda rivendicare la legittima proprietà di reperti archeologici deve fornire la relativa, rigorosa prova, dimostrando che: 1) i reperti gli siano stati assegnati in premio per il loro ritrovamento; 2) i reperti gli siano stati ceduti dallo Stato; 3) i reperti siano stati acquistati in data anteriore all’entrata in vigore della legge n. 364 del 1909.
Nulla al riguardo, e fermi tali presupposti in diritto, è stato neppure allegato dall’odierno ricorrente, che in questa sede ha affermato di avere richiesto l’accertamento della proprietà dei beni ma che in ogni caso, nel giudizio di appello, aveva solamente lamentato, al di là della preliminare questione processuale non più riproposta, la propria estraneità al delitto di esportazione illecita. In ordine alla quale è lo stesso ricorrente a convenire (cfr. pag. 3 del ricorso) che le doglianze colà formulate non fossero probabilmente idonee a superare il regime processuale di cui all’art. 129 cod. proc. pen..
In sede di gravame, in ogni caso, alcunché era stato dedotto nei confronti della misura di sicurezza patrimoniale già disposta dal Tribunale romano.
4.2.2. Né rileva, infine, il riferimento all’uno ovvero all’altro articolo di legge per giustificare il provvedimento ablatorio, trattandosi in ogni caso di provvedimento obbligatorio in ragione del titolo di reato, trattandosi appunto di ipotesi in forza della quale (l’art. 174 cit. punendo infatti chiunque trasferisce all’estero cose di interesse artistico, storico, archeologico, ecc. senza attestato di libera circolazione o licenza di esportazione) il giudice deve disporre la confisca delle cose, salvo che questi appartengano a persona estranea al reato.
In ordine all’estraneità non vi è alcun elemento “liquido” contrario all’accertamento di penale responsabilità (né il ricorrente ha inteso rinunciare alla prescrizione), ancor meno il ricorrente ha dedotto quanto all’accertamento di proprietà dei beni, tutti risalenti al più tardi all’età romana classica e quindi pienamente ricadenti nel patrimonio indisponibile dello Stato; alcuna compressione appare quindi ravvisarsi nei riguardi di un, inesistente, diritto di proprietà privata.
5. Il ricorso si presenta quindi manifestamente infondato, per cui ne va dichiarata senz’altro l’inammissibilità.
Tenuto altresì conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma il 21/03/2018