TAR Campania (Napoli) sent. 40 del 4 gennaio 2007
Beni culturali. Espropriazione



REPUBBLICA ITALIANA
N. 40 Reg.Sentenze
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO ANNO 2007
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania - Sezione V^ - composto dai Signori: N. 8041 Reg. Ric.
ANNO 1996
1) Carlo d’Alessandro - Presidente
2) Paolo Carpentieri - Consigliere – relatore
3) Michelangelo Francavilla - Referendario
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 8041/1996 Reg. Gen., proposto dalla società Marotta & C. s.n.c., in persona del legale rapp.te p.t., amministratore unico sig. Marotta Andrea, quest’ultimo anche in proprio, nonché da Marotta Michele, rappresentati e difesi dall’avv. Camillo Lerio Miani, con domicilio eletto in Napoli alla via Toledo 116
contro
il Ministero per i beni e le attività culturali, in persona del ministro p.t., rappresentato e difeso in giudizio, ex lege, dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato, presso i cui uffici domicilia, ope legis, in Napoli alla via Diaz 11;
la Presidenza del consiglio dei ministri, in persona del presidente p.t., rappresentata e difesa ut supra;
il Prefetto della Provincia di Napoli p.t., rappresentato e difeso ut supra;
per l’annullamento, previa sospensiva
quanto al ricorso introduttivo:
sub a) e, comunque non è consentita l’idonea individuazione, mai comunicata alla ricorrente; c) e, per quanto di ragione, dell’allegato elenco-piano particellare ed in parte qua, relativamente alla individuazione del terreno di proprietà della soc. ricorrente ed alla determinazione della presunta spesa; d) della autorizzazione del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 197 dell’8.9.1995 ad assumere gli impegni di spesa relativi alla procedura di espropriazione de qua, anch’essa richiamata dal decreto sub a) e di cui si ignora l’esatto contenuto; e) di ogni altro atto preordinato, connesso e consequenziale, comunque lesivo dello jus proprietatis della soc. ricorrente.>>.
quanto al ricorso per motivi aggiunti:
jus proprietatis dei ricorrenti.>>.
VISTI il ricorso ed i relativi allegati;
VISTI gli atti di costituzione in giudizio delle amministrazioni intimate con le annesse produzioni;
VISTO il ricorso per motivi aggiunti depositato dalla difesa di parte ricorrente in data 25 agosto 2006;
VISTA l’ordinanza cautelare n. 524/1996 del 19 novembre 1996, con la quale la Sezione ha respinto la domanda di sospensione dei provvedimenti impugnati;
VISTE le memorie depositate dalle parti a sostegno delle proprie difese;
VISTI gli atti tutti di causa;
UDITI alla pubblica udienza del 26 ottobre 2006 - relatore il Magistrato Dr. Carpentieri – gli avv.ti riportati a verbale;
RITENUTO e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
Con il ricorso introduttivo – ritualmente notificato in data 11 ottobre 1996 e depositato nella Segreteria del Tribunale il successivo 2 novembre – la società ricorrente, proprietaria di un terreno sito in Nola alla via M. De Sena, località Masseria D’Angerio, riportato in catasto terreni al folio 17, p.lla 277, partita 20193, ricadente in zona classificata “industriale” nella vigente strumentazione urbanistica (in parte occupato da un capannone adibito a deposito e vendita di materiali edili, giusta concessione edilizia rilasciata dal Comune di Nola il 17 novembre 1986, in parte pavimentato e destinato a deposito di materiale edile), ha impugnato il provvedimento in epigrafe indicato – asseritamente mai notificatole o comunicatole - con il quale il Ministero per i beni culturali e ambientali ha dichiarato la pubblica utilità degli immobili descritti nell’allegato piano particellare, tra cui il terreno di proprietà della società Marotta s.n.c., e ne ha disposto la conseguente acquisizione al demanio dello Stato mediante espropriazione, per la rimessa in luce delle strutture di un anfiteatro romano cd. “Laterizio”, di età tardo-repubblicana, i cui resti dovrebbero insistere nella parte sottostante l’intero suolo da espropriare.
A sostegno dell’azione proposta, la società ricorrente ha dedotto diversi motivi di incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere, contestando – soprattutto – la mancanza di una adeguata istruttoria che di fatto avrebbe impedito all’amministrazione la conoscenza dello stato dei luoghi (sull’intera area interessata dal procedimento espropriativo insistono vari fabbricati destinati a civili abitazioni, nonché immobili destinati ad attività commerciali e industriali), con la conseguente errata valutazione dell’importo necessario per affrontare la procedura espropriativa e la conseguente incongruità della valutazione dell’indennità di esproprio.
In data 13 novembre 1996 si sono costituiti in giudizio il Ministero per i beni e le attività culturali, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Prefetto della provincia di Napoli, con memoria di stile.
Con successivo ricorso per motivi aggiunti, notificato in data 21 agosto 2006 e depositato nella Segreteria del Tribunale il successivo 25 agosto, la società ricorrente ha altresì impugnato tutti gli atti presupposti al decreto ministeriale del 29 aprile 1996, di cui avrebbe avuto conoscenza soltanto dopo il deposito effettuato da parte della Avvocatura Distrettuale dello Stato in data 21 giugno 2006.
Con ordinanza n. 524/1996 del 19 novembre 1996, la Sezione ha respinto la domanda di sospensiva dei provvedimenti impugnati.
In data 21 giugno 2006 l’Avvocatura dello Stato ha depositato una relazione della Soprintendenza per i beni archeologici delle province di Napoli e Caserta, datata 1 giugno 2006, nella quale si espone che l’immobile di proprietà dei sigg.ri Marotta fu sottoposto a vincolo archeologico con d.m. 9 ottobre 1985, in quanto contenente strutture di un anfiteatro romano cd. “Laterizio” di età tardo repubblicana; che, nell’ambito della procedura espropriativa, è stata offerta ai ricorrenti la relativa indennità calcolata sulla base delle colture in atto e nella misura già determinata dal piano particellare di esproprio in conformità ai criteri adottati dall’U.T.E. in casi analoghi; che è stato quindi disposto il pagamento della suddetta indennità nei confronti dei sigg.ri Marotta, per un complessivo importo di £ 15.051.000 (pari a € 7.773,19) afferente all’esproprio di una parte limitata della p.lla 277; che la Corte di Appello di Napoli, I Sezione civile, ha respinto l’opposizione alla stima proposta da alcuni soggetti le cui proprietà rientravano anch’esse nell’oggetto del presente esproprio, giudicando corretti i criteri adottati dall’amministrazione nel determinare l’indennità spettante.
Alla pubblica udienza del 26 ottobre 2006 la causa è stata chiamata, discussa e assunta in decisione.
DIRITTO
Il ricorso è privo di fondamento e va conseguentemente rigettato. Esso si palesa peraltro improcedibile, in ragione della mancata impugnazione del decreto definitivo di esproprio del 31 gennaio 2001 (notificato alla ditta Marotta il 1° marzo 2001), depositato in copia in atti dall’amministrazione intimata in data 21 giugno 2006 (e rimasto inoppugnato nonostante la successiva proposizione di motivi aggiunti, notificati il 21 agosto 2006).
Risulta dagli atti che l’area oggetto di esproprio è stata vincolata con d.m. 9 ottobre 1985. Copia del decreto di vincolo è stata depositata in atti dall’amministrazione resistente nella predetta produzione del 21 giugno 2006. Dalla copia ora menzionata non si evince la prova dell’avvenuta notifica ai proprietari delle aree interessate. Tuttavia parte ricorrente non ha impugnato il decreto di vincolo, nemmeno con i motivi aggiunti notificati il 21 agosto 2006. Il vincolo è dunque certamente inoppugnabile. Ogni contestazione, sia pur indiretta, che fosse svolta, con il ricorso introduttivo o con l’atto di motivi aggiunti, contro le ragioni fattuali e giuridiche della sottoposizione a tutela del bene archeologico in questione, oltre che inammissibile – sotto il profilo della mancata esplicitazione e argomentazione motivazionale – sarebbe dunque del tutto tardiva.
Ciò premesso, è appena il caso di evidenziare che il provvedimento impugnato si pone come conseguenza della dichiarazione di interesse archeologico dell’immobile di parte ricorrente. L’espropriazione, infatti, costituisce espressione della funzione prefigurata dall’art. 54 della legge n. 1089 del 1939 (poi art. 91 del testo unico del 1999 e art. 95 del vigente codice dei beni culturali e de paesaggio di cui al d.lgs. n. 42 del 1999). Il provvedimento impugnato, peraltro, costituisce soltanto l’atto di avvio della procedura espropriativa, poiché ha ad oggetto non già il definitivo esproprio dell’area, ma la dichiarazione di pubblica utilità dell’acquisizione. Tale atto, risalente al 1996, è stato poi seguito, nelle more del giudizio, dal conclusivo provvedimento di esproprio del 31 gennaio 2001, rimasto, come detto, inoppugnato.
La disciplina dell’espropriazione nell’ambito della legislazione di tutela dei beni culturali ha mantenuto la sua impostazione tradizionale. Essa assolve nello stesso tempo a finalità (prioritarie) di tutela (conoscenza, conservazione e protezione della cosa) e di fruizione/valorizzazione (migliore fruibilità pubblica e miglioramento delle condizioni di tutela). Come nella legge del 1939, la disciplina del 1999 e quella (vigente) del 2004 hanno conservato la tripartizione in espropriazione del bene (già dichiarato) culturale (art. 54 l. 1089 del 1939; art. 95 codice del 2004), espropriazione per fini strumentali (rispettivamente, artt, 55 e 96) ed espropriazione per interesse archeologico (artt. 56 e 97). Pur nell’unitaria finalità generale di tutela/fruizione del bene culturale, i tre istituti si differenziano per la funzione specifica perseguita, per l’oggetto e, in parte, per la procedura. Nel primo caso (espropriazione del bene culturale) il fine è di assicurare la miglior tutela e fruibilità pubblica del bene già conosciuto e dichiarato di interesse culturale (vincolato); in questo caso la dichiarazione di pubblica utilità (ministeriale) coincide con la manifestazione di volontà di assicurare migliori condizioni di tutela e fruibilità del bene vincolato mediante l’acquisto al demanio pubblico. Nel secondo e nel terzo caso, invece, il fine specifico è quello di isolare o restaurare monumenti, assicurarne la luce o la prospettiva, garantirne o accrescerne il decoro o il godimento da parte del pubblico, facilitarne l'accesso, ovvero di eseguire ricerche archeologiche; l’oggetto è un immobile che non è (o non è ancora) stato dichiarato di interesse culturale (vale a dire l’immobile, in sé privo di interesse culturale, confinante o vicino a quello vincolato, oppure l’area sulla quale eseguire le ricerche archeologiche); la dichiarazione di pubblica utilità richiede l’approvazione di un progetto (di isolamento o restauro etc. del monumento, ovvero della ricerca archeologica), come espressamente previsto dagli artt. 94, comma 2, del testo unico del 1999 e 98, comma 2, del vigente codice del 2004.
Il provvedimento oggetto di contestazione per la verità non giustifica in termini chiari e puntuali la propria base giuridica, se nell’art. 54 o nell’art. 57 della legge del 1939 (artt. 95 o 97 del codice del 2004). Tuttavia, vuoi per il generico richiamo alla legge di tutela del 1939, vuoi per i fatto del già intervenuto vincolo dell’area (d.m. 9 ottobre 1985), vuoi, inoltre, per la motivazione di cui ai primi due considerato (ove si riferisce del già avvenuto ritrovamento dei resti del teatro romano, già riportato dunque alla luce nelle sue parti essenziali), risulta chiaro che il fondamento dell’atto in questione deve rinvenirsi essenzialmente sul primo dei tre distinti titoli di espropriazione per interesse culturale sopra in sintesi richiamati, vale a dire sul titolo di cui all’art. 54 della legge n. 1089 del 1939 (“Le cose, mobili o immobili, soggette alla presente legge, possono essere espropriate dal Ministro per l'educazione nazionale per ragioni di pubblica utilità, quando l'espropriazione stessa risponda ad un importante interesse in relazione alla conservazione o incremento del patrimonio nazionale tutelato dalla presente legge”). Esso, a differenza degli altri due titoli sopra esaminati, non richiede, ai fini della dichiarazione di pubblica utilità, la previa approvazione di un progetto di intervento, bastando la semplice valutazione – riservata all’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione di settore – della rispondenza dell’acquisizione al demanio pubblico del bene culturale ai fini della sua tutela e fruizione/valorizzazione.
Ciò chiarito con riguardo alla collocazione giuridica della fattispecie esaminata, emerge evidente l’infondatezza delle censure proposte n ricorso.
Cade in primo luogo, alla luce della suesposta premessa in diritto, la contestazione (peraltro solo genericamente prospettata) circa la mancata previa approvazione di un progetto dell’intervento: si è sopra chiarito che l’espropriazione del bene culturale, ex art. 57 l. n. 1089 del 1939 (art. 95 del vigente d.lgs. n. 42 del 2004), a differenza di quella strumentale e di quella finalizzata (in senso stretto) a ricerche archeologiche, non abbisogna di approvazione del progetto, ai fini della dichiarazione di pubblica utilità (come previsto dall’art. 94 del testo unico del 1999 e, oggi, dal comma 2 dell’articolo 98 del codice del 2004).
Parimenti destituite di giuridico fondamento si palesano le restanti doglianze svolte nel ricorso introduttivo e nell’atto di motivi aggiunti.
Sotto un primo profilo, parte ricorrente si duole essenzialmente della scarsa entità della stima dell’indennizzo proposto dall’amministrazione e pretende di inferirne “a monte” un preteso vizio di difetto di istruttoria sotto il profilo della mancata considerazione della reale consistenza del bene espropriando e del difetto di copertura finanziaria.
Si tratta di censura in parte inammissibile (poiché le questioni inerenti l‘entità dell’indennizzo spettano alla cognizione dell’a.g.o.), in parte infondata, siccome costruita esclusivamente su una mera ipotesi deduttiva del tutto sfornita di precisi elementi specificativi idonei (anche solo in astratto) a configurare il dedotto vizio di istruttoria o di conoscenza dei presupposti di fatto. In ogni caso, la contestazione sull’effettiva consistenza e, quindi, sul valore del bene espropriato, conduce comunque alla cognizione – riservata al giudice ordinario - in ordine alla quantificazione dell’indennizzo, e non può tradursi in un preteso vizio di eccesso di potere dell’atto ablatorio. Ogni altra questione sull’entità e la rilevanza dei reperti archeologici è infine inammissibile sotto il duplice profilo della omessa impugnativa del vincolo “a monte” (del 1985) e dell’insindacabilità, se non per macroscopici errori di fatto (in questo caso del tutto insussistenti e neppure in realtà dedotti), della valutazione tecnico-discrezionale e di merito dell’amministrazione competente sul valore archeologico del ritrovamento.
Priva di base è inoltre la generica deduzione di mancata conoscenza, per omessa comunicazione o notifica, dello stesso atto impugnato.
Come chiarito dalla giurisprudenza (Tar Veneto, sez. I, 5 aprile 2006, n. 821) il vizio della notifica non determina la nullità del provvedimento sottostante, posto che la notifica è una forma qualificata di comunicazione del provvedimento, ma non ne costituisce elemento costitutivo, potendo quindi incidere soltanto sulla opponibilità della comunicazione dell’atto ai fini della sua legale conoscenza ovvero della sua esecuzione, se a questa subordinata, ovvero ancora ai fini del decorso dei termini di legge riferiti alla medesima conoscenza legale dell’atto. In altri termini, il difetto di comunicazione o di notifica dell’atto avrebbe potuto avere un rilievo sul piano dell’esecuzione dello stesso o sul piano puramente processuale, sotto il profilo della rimessione in termini in caso di azione tardiva, ma non si traduce in un vizio di legittimità dell’atto.
Del resto, il nuovo art. 21-bis aggiunto nella legge n. 241 del 1990 dall'art. 14 della legge 11 febbraio 2005, n. 15, rubricato “Efficacia del provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati”, stabilisce che “Il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia nei confronti di ciascun destinatario con la comunicazione allo stesso effettuata anche nelle forme stabilite per la notifica agli irreperibili nei casi previsti dal codice di procedura civile”. La nuova disposizione, che canonizza le prevalenti posizioni già elaborate dalla giurisprudenza, chiarisce formalmente che la mancata comunicazione di un atto ne preclude l’efficacia (e, quindi, l’esecuzione), ma non incide sulla sua validità.
Nel caso di specie in esame, dunque, a prescindere dal fatto che è stata acquisita in atti la prova dell’avvenuta comunicazione del finale decreto di esproprio del 2001 alla società ricorrente in data 1° marzo 2001, l’avvenuta conoscenza in giudizio dell’atto gravato e la insussistenza di profili di tardività dell’azione proposta rendono in ogni caso superflua e irrilevate in questa sede la questione inerente la trasmissione e la ricezione nella sfera di giuridica conoscibilità del suo destinatario dell’atto del 1996 di dichiarazione di pubblica dell’esproprio.
Conclusivamente, per tutti gli esposti motivi, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese, secondo la regola della soccombenza, devono porsi a carico della società ricorrente, nell’importo liquidato in dispositivo.
P.Q.M.
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DELLA CAMPANIA, SEZIONE V^, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe indicato, lo respinge e condanna la società ricorrente, in persona del suo legale rapp.te p.t., al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in complessivi euro 1.500,00 (millecinquecento/00).
Così deciso in Napoli nella Camera di Consiglio del 26 ottobre 2006.

Il Presidente

Il Relatore