Cass. Sez. III n. 47258 del 10 novembre 2016 (Ud. 21 lug 2016)
Pres. Ramacci Est. Renoldi Imp. Tripi e altro
Beni Culturali.Reato d'abusivo intervento su beni culturali e natura di reato formale di pericolo.

In tema di tutela penale del patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale, il reato d'abusivo intervento su beni culturali, previsto dall'art. 169 D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, è un reato formale di pericolo, integrato dal compimento dei lavori e delle opere senza il preventivo controllo amministrativo, diretto ad evitare possibili pericoli e danni, che si consuma anche se non si produce una concreta lesione del valore storico-artistico della "res", sempre che, secondo una valutazione "ex ante", non si tratti di interventi talmente trascurabili, marginali e minimi da escludere anche il solo pericolo astratto di lesione dell'interesse protetto.



 RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 11/07/2014, il Tribunale di Savona condannò sia Massimiliano Tripi che Livio Giraudo alla pena, condizionalmente sospesa, di quattro mesi di arresto e di 6.000,00 Euro di ammenda in relazione alle contravvenzioni, unificate dal vincolo della continuazione, di cui all'art. 81 cpv. c.p., D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 (capo a) e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 169, comma 1, (capo b), accertate in accertate in Albenga il 7/08/2011.

Nel dettaglio, i due imputati furono ritenuti responsabili di avere, in concorso tra loro, il primo quale legale rappresentante della A.L.G.I. S.r.l., titolare del permesso di costruire e dell'impresa Geom. Massimiliano Tripi costruzioni, impresa di esecutrice dei lavori, il secondo quale direttore dei lavori, realizzato presso la Casa dell'Opera Lengueglia, sita in Albenga, classificata come "bene culturale", demolito due porzioni di muratura in corrispondenza di due sottofinestre sul prospetto di (OMISSIS), interessando una porzione della facciata caratterizzata dalla presenza di un fregio (al primo piano) e di una superficie dipinta (al secondo piano). Intervento, questo, non contemplato dal permesso di costruire n. 3640 del 2010, nè dall'autorizzazione n. 12747 del 2009, rilasciata dalla Soprintendenza per i beni archeologici e paesaggistici della Liguria.

La sentenza di primo grado pose in luce come i fatti contestati fossero pacifici nella loro materialità, essendo stati documentati da alcune dettagliate fotografie ed in quanto riscontrati, altresì, dal racconto di alcuni testimoni (quali l'arch. Anna Chiurlo della Soprintendenza per i beni archeologici e paesaggistici della Liguria e Walter Calandri, in servizio presso il Nucleo per Tutela del Patrimonio Culturale di Genova dell'Arma dei Carabinieri) nonchè dalle ammissioni degli stessi imputati, le cui qualifiche soggettive, sopra menzionate, non erano state parimenti contestate. Ed anche la sussistenza, sull'immobile, del vincolo previsto dal Codice per i beni culturali era stato positivamente accertato, essendo stati prodotti in dibattimento i due provvedimenti che lo avevano disposto: il primo risalente agli anni ‘30 ed il secondo emesso, invece, in data 14/12/2006.

Infine, erano stati acquisiti in giudizio i titoli abilitativi relativi alla realizzazione degli interventi sull'immobile, costituiti dal permesso di costruire n. 3640/2010 e dall'autorizzazione n. 12747/2009, rilasciata ex art. 21 del D.Lgs. n. 42 del 2004, dalla competente Sovrintendenza: titoli che descrivevano le opere da realizzare come "lavori di modifiche interne (frazionamenti alloggi), restauro affreschi esterni, rifacimento intonaci, pavimentazioni e serramenti, risanamento murature da umidità ascendente", e con i quali si avvertivano, altresì, i destinatari delle autorizzazioni che "per eventuali variazioni al progetto autorizzato" avrebbe dovuto "essere richiesta ulteriore preventiva autorizzazione" (richiamandosi, all'uopo, le sanzioni penali da applicare in caso di trasgressione).

Nel corso dell'esecuzione dei lavori, iniziati il 21/03/2011, la Sovrintendenza ligure aveva riscontrato alcune difformità rispetto al progetto approvato, segnalando la circostanza ai Carabinieri; difformità consistite, in particolare, in
alcune demolizioni non previste dal progetto approvato, sicché erano state emesse le prescritte ordinanze di sospensione dei lavori e di ripristino delle porzioni di muratura abbattute (con provvedimento n. 419 in data 19/12/2011).

Gli imputati, dal canto loro, avevano sostanzialmente ammesso gli addebiti, precisando che le demolizioni erano state eseguite per un motivo pratico, ovvero per consentire l'introduzione dall'esterno, mediante una carrucola, dei materiali necessari per l'esecuzione dei lavori all'interno dell'immobile, dal momento che la finestra era troppo piccola e non ne avrebbe consentito il passaggio. In particolare, secondo gli stessi imputati, l'iniziativa era stata autonomamente adottata dagli operai presenti in cantiere, i quali erano ricorsi ad una prassi comunemente seguita nella realizzazione di interventi edilizi su immobili non vincolati.

Nel corso dell'esame dibattimentale, l'architetto C., in servizio presso la Sovrintendenza ligure, aveva inoltre precisato che nel caso in cui fosse stata preventivamente richiesta l'autorizzazione alla realizzazione degli interventi di demolizione, questa non sarebbe stata sicuramente concessa e che si sarebbe prescritto che l'ingresso dei materiali avvenisse con modalità differenti.

Sulla base di tali accertamenti in fatto, il giudice di prime cure ritenne che la descritta condotta di demolizione integrasse pacificamente i requisiti oggettivi delle fattispecie contravvenzionali contestate; ciò sul presupposto che qualunque intervento edilizio, a maggior ragione se demolitorio, eseguito su beni culturali vincolati, dovesse essere preceduto da una specifica autorizzazione dell'autorità amministrativa competente ed essendo stato l'intervento realizzato in difformità rispetto al permesso di costruire in precedenza rilasciato.

La responsabilità dei due imputati fu ricostruita in termini di causalità omissiva, non avendo essi impedito la realizzazione di interventi che avrebbero avuto l'obbligo di impedire, essendo gli stessi tenuti a osservare scrupolosamente le prescrizioni contenute nei titoli abilitativi, secondo quanto stabilito dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 29. E sul piano dell'elemento soggettivo, il Tribunale rinvenne un chiaro profilo di colpa nell'avere gli stessi omesso, per negligenza, d istruire adeguatamente gli operai sulla particolare natura dell'immobile e sulla necessità di adottare particolari cautele nell'esecuzione dei lavori, nonchè per non avere adeguatamente vigilato sull'attività delle maestranze.

2. Avverso la predetta sentenza gli imputati proposero rituale atto di appello, con il quale dedussero, innanzitutto, l'inidoneità della condotta ad essi ascritta a determinare una situazione di pericolo per il bene giuridico tutelato, posto che il fregio e finanche la facciata avrebbero presentato una grave situazione di degrado, sicchè l'intervento di demolizione non avrebbe raggiunto la soglia minima di lesività richiesta per l'integrazione della fattispecie contestata. Ciò in quanto non sarebbe stato possibile ledere un qualcosa che, in realtà, sarebbe stato già gravemente lesionato e considerato, altresì, che la demolizione era avvenuta "a scopo di cantiere" e non al fine di mantenere, in maniera permanente, la demolizione.

Sotto altro profilo, gli imputati sottolinearono che, avendo l'intervento ad oggetto anche il rifacimento degli intonaci ed il risanamento della muratura, tali operazioni non potessero che avvenire mediante l'asporto dell'intonaco e il rifacimento della muratura; ciò che avrebbe, dunque, significato che il bene da ricostruire fosse "quasi inesistente".

3. Con sentenza in data 18/06/2015 la Corte d'appello di Genova confermò la pronuncia di primo grado, condannando gli imputati alle spese del giudizio.

I giudici di appello ritennero pacificamente accertati i fatti e che la demolizione integrasse, di per sè, l'illecito contestato, non potendo essa correttamente qualificarsi come un segmento dell'attività di restauro, essendo tale concetto incompatibile con la distruzione del fregio e della porzione di superficie dipinta e restando irrilevante, rispetto ad essa, lo scopo per cui fosse stata compiuta. Inoltre, non sarebbe stato possibile configurare, nella specie, una mancanza di offensività della condotta tipica, consistendo, quest'ultima, proprio nella realizzazione di un intervento edilizio realizzato su un bene culturale e in assenza di specifica autorizzazione della sovrintendenza competente.

4. Avverso la sentenza della Corte d'appello di Genova propongono ricorso per cassazione gli imputati deducendo quattro distinti motivi di impugnazione.

Con il primo motivo essi deducono la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per mancanza e contraddittorietà della motivazione.

La Corte d'appello, pur avendo riconosciuto che la questione centrale fosse quella di stabilire se la condotta contestata potesse essere in astratto idonea ad offendere il bene giuridico tutelato, avrebbe omesso, sul punto, qualunque motivazione, esaurendo l'affermazione dell'esistenza di tale offensività nella circostanza che l'intervento fosse stato realizzato in assenza di autorizzazione.

Con il secondo motivo, gli imputati lamentano la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), per inosservanza e/o l'erronea applicazione del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 169, comma 1, per contrasto con il principio di offensività sancito dall'art. 25 Cost., comma 2.

L'interpretazione accolta dalla Corte genovese sarebbe in contrasto con il principio costituzionale di offensività, dal momento che la responsabilità dell'imputato sarebbe stata affermata esclusivamente sulla base del dato formale della mancata richiesta di autorizzazione, senza verificare la concreta lesività della condotta contestata.

Con il terzo motivo i ricorrenti si dolgono della violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per mancanza e illogicità della motivazione, non avendo la Corte d'appello risposto sulla specifica censura dedotta, secondo cui essendo le parti del bene culturale interessate dall'intervento di demolizione ormai fortemente ammalorate (con il fregio quasi "inesistente" e la facciata in "stato di rovina"), lo stesso intervento non avrebbe potuto recare, secondo un giudizio ex ante, alcuna concreta offesa al bene giuridico tutelato.

Con il quarto motivo ci si duole della violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per mancanza e illogicità della motivazione, non avendo la Corte territoriale replicato al motivo d'appello con il quale i due imputati avevano posto in luce che l'autorizzazione aveva assentito al rifacimento della muratura e degli intonaci, sicchè il bene tutelato sarebbe stato da ricostruire "quasi fosse inesistente". Pertanto, dal momento che il concetto di rifacimento non potrebbe che presupporre una preventiva demolizione della porzione di manufatto interessata, l'intervento demolitorio sarebbe stato sostanzialmente autorizzato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorsi sono manifestamente infondati e, pertanto, devono essere dichiarati inammissibili.

Premesso che nessuna censura è stata mossa, sia nell'atto di appello che nel ricorso per cassazione, in ordine alla configurabilità della contravvenzione edilizia e che, pertanto, sulla stessa deve ormai considerarsi definitivamente affermata la responsabilità degli odierni imputati, deve osservarsi che, per quanto specificamente concerne il reato contestato al capo b), i motivi di impugnazione gravitano, sostanzialmente, intorno a due ambiti problematici: il primo concerne la possibilità di escludere la stessa tipicità della condotta, atteso che, secondo la tesi dei ricorrenti, la demolizione sarebbe stata implicitamente inclusa tra le possibili modalità di esecuzione degli interventi contemplati dall'autorizzazione della Sovrintendenza; il secondo attiene alla possibilità di configurare una concreta offensività della demolizione di una porzione dell'immobile in presenza di uno stato di grave deterioramento del fregio e dell'affresco presenti sulla facciata.

2. Sotto il primo profilo deve osservarsi che l'autorizzazione n. 12747 del 2009, rilasciata dalla Soprintendenza per i beni archeologici e paesaggistici della Liguria prevedeva, secondo quanto riportato nella sentenza di primo grado, la esecuzione di "lavori di modifiche interne (frazionamenti alloggi), restauro affreschi esterni, rifacimento intonaci, pavimentazioni e serramenti, risanamento murature da umidità ascendente" ovvero la realizzazione di interventi di chiara matrice conservativa e non, come invece opinato dai ricorrenti, di rifacimento della muratura esterna del fabbricato. Pertanto, deve ritenersi assolutamente ineccepibile, sul piano logico, l'operazione interpretativa compiuta dai giudici di merito, i quali hanno escluso che le attività demolitorie di una parte della muratura esterna dell'edificio potesse essere ricompresa tra gli interventi assentiti.

In disparte la circostanza, emersa nel giudizio di primo grado, che la demolizione era stata effettuata autonomamente dagli operai del cantiere e, dunque, non rientrava nell'ambito di una consapevole valutazione compiuta alla stregua dei titoli abilitativi rilasciati, sicchè i giudici di merito hanno evidentemente ritenuto che l'argomentazione difensiva qui scrutinata abbia rappresentato un tentativo di giustificare, ex post, l'errore commesso, ritiene in ogni caso il Collegio che l'intervento demolitorio di una parte della muratura sia ontologicamente incompatibile con il rifacimento dell'intonaco o il risanamento della stessa muratura, oltre che, a fortiori, di restauro degli affreschi esterni, aventi una natura eminentemente conservativa, tanto più quando essa involga la porzione di un bene culturale, qualificato, per definizione, dalla sua "unicità" sul piano storico-artistico e, quindi, dalla sua assoluta infungibilità. In definitiva, avendo la demolizione determinato, nella specie, la distruzione del fregio e di una parte della superficie dipinta posti sulla parete esterna dell'edificio, l'operazione non poteva che porsi in sostanziale antitesi rispetto all'obiettivo, specificamente indicato dal provvedimento autorizzatorio, di restauro degli affreschi esterni.

Ne consegue la manifesta infondatezza dei relativi motivi di ricorso, dovendo ritenersi che un intervento di demolizione del tenore di quello realizzato non fosse stato in alcun modo contemplato tra quelli autorizzati dalla Soprintendenza.

3. Quanto, poi, alla mancanza di offensività in concreto dell'intervento edilizio, tale prospettazione muove da una premessa evidentemente errata: ovvero che l'oggetto della contestazione sia individuabile esclusivamente nella distruzione, conseguente alla demolizione, del fregio posto al primo piano dell'edificio e della superficie dipinta posta al secondo piano dello stesso.

In realtà, ciò che, nella specie, ha integrato la condotta tipica della contravvenzione in esame è rappresentato, in primo luogo, dall'attività di demolizione di una porzione della muratura esterna della Casa dell'Opera Lengueglia, alla quale comunque conseguì, quale ulteriore effetto, anch'esso tipico, il deterioramento delle decorazioni di una parte della facciata. Sono, dunque, non pertinenti le considerazioni svolte dai due ricorrenti circa lo stato di "ammaloramento" della facciata ed alla sostanziale inoffensività dell'intervento, eseguito su beni che avrebbero ormai perduto qualunque valore sul piano culturale, considerato che tale prospettazione non sarebbe in grado di escludere, in ogni caso, la piena lesività della condotta rispetto alla demolizione della muratura in quanto tale. Ma vi è, certamente, di più.

Infatti, deve osservarsi che nel caso del reato di abusivo intervento su beni culturali, previsto dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 169, il bene tutelato è rappresentato, esclusivamente, dall'interesse strumentale al preventivo controllo da parte dell'autorità preposta alla tutela dei beni culturali; protezione accordata vietando l'esecuzione di "opere e lavori di qualunque genere sui beni culturali" senza l'autorizzazione del soprintendente ex art. 21, comma 4, del decreto in questione.

Come affermato da questa Corte in altre occasioni, si è, dunque, in presenza di un reato formale di pericolo, integrato dal compimento dei lavori e delle opere senza il preventivo controllo amministrativo, diretto ad evitare possibili pericoli e danni (Sez. 3, n. 6421 del 19/05/1993, Fiaschi, Rv. 195122; Sez. 3, n. 5834 del 10/02/1999, Buono, Rv. 213621); reato che, quindi, si consuma anche se la condotta non produce concretamente una lesione del valore storico-artistico della res (Sez. 3, n. 14446 del 11/11/1999, Mariani, Rv. 215112), sempre che non si tratti di interventi che, secondo una valutazione ex ante, siano talmente trascurabili, marginali e minimi da escludere, in radice, anche il solo pericolo astratto di una lesione dell'interesse protetto e, perciò, la necessità stessa della preventiva autorizzazione.

Diversamente da quanto avviene per i reati urbanistici e paesaggistici, con riferimento ai quali sono previsti dei meccanismi di estinzione della punibilità connessi all'accertamento amministrativo della compatibilità dell'intervento rispetto agli strumenti urbanistici vigenti o al valore paesaggistico dei beni, nel caso dei reati commessi su beni culturali, la natura dell'interesse tutelato giustifica la latitudine della condotta incriminata, che si estende fino a ricomprendervi qualunque intervento, di qualsiasi genere (e dunque non solo edilizio), che abbia ad oggetto beni di quella natura, a condizione, come detto, che l'intervento in questione non sia trascurabile, minimo e marginale e che, ovviamente, sia realizzato senza la prescritta autorizzazione o comunicazione preventiva (Sez. 3, n. 14951/2015 del 15/07/2014, Romanelli, non massimata).

Nel caso di specie, le sentenze impugnate hanno evidenziato come la particolare natura dell'intervento, caratterizzato dalla distruzione e dalla successiva ricostruzione di una porzione (ancorchè non estesa) del bene, non presentassero, alla stregua di un giudizio compiuto ex ante (ovvero prima della demolizione), quel carattere di trascurabile incidenza sul valore paesaggistico che avrebbe potuto determinare il venire meno della tipicità dell'intervento. E trattandosi di un apprezzamento "in fatto", rimesso al giudice di merito, deve ritenersi che esso sia sottratto a qualunque sindacato da parte del giudice di legittimità, in presenza di una motivazione certamente congrua da parte, in particolare, della sentenza di primo grado.

Ne consegue, anche sotto tale profilo, l'infondatezza del motivo dedotto.

4. Da ultimo, va posto in evidenza che, nel corso della discussione davanti a questa Corte, la Difesa ha, da un lato, eccepito, in via subordinata, la prescrizione del reato e, dall'altro lato, ha chiesto il riconoscimento, in via di ulteriore subordine, della causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis c.p..

Sotto il primo profilo, deve osservarsi come i fatti siano stati accertati alla data del (OMISSIS), sicchè il relativo termine prescrizionale, anche senza considerare eventuali situazioni sospensive, è, ad oggi, fissato al 7/08/2016 e, pertanto, non è ancora decorso. Ogni ipotesi di anticipazione del termine in questione, connesso ad una realizzazione dell'intervento anteriormente alla data dell'accertamento, implicando la valutazione di elementi di fatto, peraltro mai dedotti nè valutati prima, deve ritenersi preclusa in questa sede.

Altrettanto è, poi, a dirsi con riferimento alla causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis c.p..

Sul punto, giova osservare che la deducibilità di questo istituto, per la prima volta, nei procedimenti pendenti davanti alla Corte di cassazione, è stata ammessa dalla giurisprudenza di legittimità soltanto ove la disposizione ex art. 131-bis c.p. non fosse già in vigore alla data della deliberazione della sentenza impugnata (Sez. 6, n. 20270 del 27/04/2016, Gravina, Rv. 266678). Ciò che, nel caso di specie, deve essere escluso.

Infatti, l'art. 131-bis c.p. è stato introdotto con il D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 64 del 18 marzo 2015 ed entrato in vigore il successivo 2 aprile 2015) sicchè la disposizione era certamente in vigore al momento della pronuncia della sentenza impugnata (18/06/2015).

La questione, pertanto, non è stata correttamente sottoposta alla cognizione di questo giudice di legittimità, atteso che gli imputati avrebbero dovuto prima rimetterla alla valutazione della Corte d'appello, tanto più che la relativa valutazione avrebbe richiesto un apprezzamento di merito circa la sussistenza delle condizioni di applicabilità dell'istituto in questione, non formulabile in questa sede, con particolare riguardo all'esiguità del danno o del pericolo.

5. Alla stregua delle considerazioni che precedono i ricorsi devono essere, pertanto, dichiarati inammissibili.

Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., l'onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente fissata in Euro 1.500,00 per ciascuno dei ricorrenti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di 1.500,00 Euro ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 21 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 10 novembre 2016