La
distinzione tra “tutela e valorizzazione”[1]
dei beni culturali, dopo la riforma del titolo V parte II della Costituzione.
Dott. Ruggiero Marzocca
La dialettica dei rapporti
Stato-Regioni circa l’attribuzione di competenze in materia di beni culturali
e ambientali ha una lunga storia, che si può far risale alla istituzione delle
regioni ad autonomia ordinaria.
Al
riguardo vengono in rilievo essenzialmente due disposizioni della Costituzione,
che sono l’art. 9 , secondo il quale
Per
quanto riguarda l’art. 9 della Costituzione, la migliore dottrina ha da tempo
chiarito che gli interventi dei poteri pubblici ordinati alla protezione ed alla
cura del paesaggio non debbono essere in base alla Costituzione necessariamente
statale.[4]
L’esclusione
di una riserva di competenza statale non comporta, però automaticamente
l’affidamento della medesime competenza alle regioni.
E, così
anche chi escluda tale riserva non può non accettare l’indagine sull’altra
disposizione costituzionale , cioè l’art. 117 Cost., il quale ad una sua
interpretazione letterale sembra affidare alle regioni soltanto la materia di
Più in generale, il vasto movimento
di opinione regionalistica sviluppatosi nel Paese ha teso interpretare in senso
evolutivo ed estensivo le disposizioni costituzionali , ponendo tra i fini
fondamentali della regione anche la tutela e la valorizzazione del patrimonio
storico , artistico ed naturale.[5]
Il
passaggio alle regioni del potere in materia di urbanistica ha complicato il
problema, poiché è venuto a mancare il potere di approvazione ministeriale dei
piani regolatori .
La corte
costituzionale con un notevole corpus di decisioni (sentenza n. 358-359 del 1985[6]
, n. 151-153 del 1986)[7]
provocate dalle reazioni agli interventi dello stato alla salvaguardia
ambientale –paesaggistica del territorio nazionale (legge Galasso del 1985),
mentre ribadisce la distinzione tra urbanistica e paesaggio, conferma che
i rapporti tra Stato e Regioni debbono essere definiti sulla base della
reciproca collaborazione.
In
conclusione la Corte Costituzionale affermava sulla
base del D.p.r. del 1977 n.616 art. 80 che urbanistica e paesaggio sono due
distinte materie.
Con la legge del 15 marzo 1997 n. 59
la quale conferiva la delega al governo per la riforma della pubblica
amministrazione ed affermando il principio della generalizzata assegnazione di
funzioni e compiti amministrativi alle regioni ed agli enti locali, riserva alla
competenza statale, fra le altre materie anche quella relativa
E all’art. 17 della medesima legge
secondo la quale nell’esercizio della delega
Su queste
due disposizioni si può delineare un sistema di riparto di competenze tra Stato
ed enti locali fondato sull’alternativa tra tutela e valorizzazione.
La
funzione della tutela del bene culturale comprende tutte le prescrizioni, le
misure, gli interventi che sono volti a garantire al bene stesso un modo di
essere conforme alla natura e alla condizione di soddisfacimento
dell’interesse della collettività alla sua fruizione integrale.[8]
Se la tutela persegue questa finalità
essa si esprime nel perseguimento di una pluralità di obbiettivi che possono
essere ricondotti a due categorie: la conservazione e alla valorizzazione.
La
conservazione tende al mantenimento o al recupero della integrità del bene, sia
sotto il profilo strettamente materiale sia per vari aspetti attinenti a
circostanze incidenti sulla identità culturale della cosa in sé considerata.
In tema
di valorizzazione si inizia a parlare nel d.p.r. del 1975 n. 805
sull’organizzazione del ministero dei Beni culturali e ambientali, cui
all’art. 2 si assegna al nuovo organismo il compito di tutela e valorizzazione
dei beni culturali e ambientali.
La
valorizzazione tende all’apprestamento dei mezzi diretti a consentire o
migliorare la possibilità di accesso ai beni culturali così da agevolare la
percezione e l’apprendimento dei valori che a essi inseriscono.
Infine
gli obiettivi della valorizzazione possono essere realizzati attraverso apparati
e attività che incidono su realtà esterne ai beni culturali, si pensi alla
realizzazione di una strada di accesso a una area archeologica altrimenti non
raggiungibile dai visitatori.
L'art.
148 del d.lg. 112/98 prevede tre definizioni di attività pubbliche relative ai
beni culturali: la tutela, di cui alla lett. c);
la gestione, di cui alla lettera d);
la valorizzazione, di cui alla lett. e).[9]
Nella
vigente legislazione di settore i termini "tutela",
"gestione" e "valorizzazione" dei beni culturali si
ritrovano costantemente, ma senza una precisa definizione in quanto si rinvia
implicitamente al senso che tali termini assumono nelle problematiche di settore
e nelle relative scienze.[10]
L’art.117
Cost., a seguito della riforma del Titolo
V della Parte II della Costituzione che ha diviso la materia dei beni
culturali in due ulteriori sub-materie che sono la "tutela" e la
"valorizzazione", i quali appartengono rispettivamente una alla
legislazione esclusiva dello Stato e l'altra alla legislazione concorrente delle
regioni.
Di
conseguenza, risulta necessariamente divisa anche la potestà regolamentare, che
risulta ai sensi dell’art. 117,
comma 6, della Costituzione, spetta
allo Stato nelle sole materie di legislazione esclusiva salvo delega alle
Regioni ,per cui in ogni altra materia, di non competenza dello Stato ,per deriva che
la valorizzazione, è attribuita alle regioni.
Il nuovo
art. 118 Cost., che fa riferimento alla
ripartizione delle funzioni amministrative, sulla base del principio di
sussidiarietà, il comma 3, indica una disposizione specifica circa la "tutela
dei beni culturali", si tratta di una materia alla quale si rinvia alla
legge statale la disciplina delle "forme
di coordinamento" tra lo Stato e le regioni e gli altri enti autonomi
territoriali
Il nuovo assetto dato dalla
Costituzione alla materia ha reso pressanti, tra le altre, due questioni: a)
quella di definire, nel modo più sicuro ed affidabile, le nozioni di
"tutela" e di "valorizzazione" ed il loro reciproco confine,
perché a tali nozioni ora si accompagnano - come si è appena visto - regimi
giuridici costituzionalmente differenziati per quanto riguarda la titolarità e
l'esercizio delle potestà legislativa, regolamentare ed amministrativa, e b)
quella di delineare, sulla scorta dei criteri posti dall'art. 118 Cost., una
corretta allocazione delle funzioni amministrative nei due ambiti così
individuati, con più marcata urgenza per quello della valorizzazione.[11]
Il problema circa la definizione
delle espressioni "tutela" e "valorizzazione" dei beni
culturali è diventata, oggi, centrale e di grande importanza, perché è
proprio sulla distinzione tra tali concetti che si basano i criteri di riparto
delle attribuzioni, non solo normative (legislative e parallelamente
regolamentari), ma anche amministrative, dei diversi livelli istituzionali nella
materia dei beni culturali.
Infatti
si spera che si giunga ad una definizione precisa di entrambe le espressioni.
In modo
tale che le due distinte sfere di competenza siano meglio garantite e
stabilizzate, perché si pongono barriere positive all'espansione ermeneutica
della nozione innominata sul quella nominata (o viceversa, nel caso la nozione
nominata venga formulata in modo eccessivamente ampio).[12]
Per
quanto riguarda il possibile contenuto di tali espressioni e relativamente
all'individuazione del criterio distintivo, va precisato che la nozione di
valorizzazione dei beni culturali come materia
differente rispetto alla tutela non è una innovazione introdotta dalla riforma
del Titolo V, ma è già presente da qualche tempo nel nostro ordinamento, ad
esempio, la prima legge istitutiva del ministero di settore (1974) attribuiva a
quest'ultimo il compito di provvedere "alla tutela e alla valorizzazione
del patrimonio culturale del Paese[13].
Originariamente
non vi era la necessità di una precisa esplicitazione dei contenuti delle due
funzioni, dato che entrambe erano allocate presso il medesimo apparato[14]
e non vi era alcuna espressa riserva di competenza per le regioni e gli enti
locali, se non per quanto riguardava la gestione dei "musei e biblioteche degli enti locali", [15]materia
cui era prevista la legislazione concorrente , ai sensi dell'originaria versione
dell'art. 117 Cost.
Era perciò
bastevole asserire, che il contenuto delle due potestà è sufficientemente
indicato dai nomi con cui sono individuate.[16]
L’esigenza
giuridica di una effettiva distinzione concettuale tra le due funzioni è emersa
solo in tempi più recenti, ai fini dell'attuazione della delega di cui
alla capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59 (c.d. Bassanini I).
Questa,
infatti, nel demandare al governo l'attuazione del federalismo amministrativo,
inserì tra le funzioni statali di cui non era ammesso il conferimento alle
regioni e agli enti locali anche quelle riconducibili alla "tutela dei beni
culturali e del patrimonio storico artistico" [17].
Ciò impose al legislatore delegato
di specificare in modo esatto i contenuti della funzione di tutela, in ossequio
al principio informatore della riforma Bassanini, per cui doveva intendersi
devoluto alle regioni e agli enti locali tutto quanto non fosse espressamente e
tassativamente trattenuto in capo all'amministrazione statale.
Le
nozioni di cui al d.lg. 112/1998 , non possono essere trascurate ai fini
dell'interpretazione dei concetti di tutela e di valorizzazione che si
ritrovano, ora, nel testo della Costituzione.
Infatti
risulta necessario fornire una definizione di tutele e valorizzazione in modo
tale da fare una ripartizione
delle potestà legislative o amministrative tra i livelli istituzionali,.
Infatti
una definizione normativa dei contenuti e dei confini di tali nozioni
rappresenta una necessità ,rispetto alla stessa determinazione dei princìpi
fondamentali.
Per tale
motivo, più che al criterio finalistico adoperato nelle definizioni sintetiche
di cui all'art. 148 di tale d.lg., non a torto, le censure della dottrina,
proprio per l'obiettiva difficoltà di pervenire, a risultati non equivoci ,
sembra proficuo porre l'accento sul diverso criterio tipologico-contenutistico,
impiegato nei successivi articoli del d.lg. stesso (artt. 149, 150 e 152) per
l'elencazione analitica dei tipi di compiti e funzioni che rientrano nei
distinti ambiti individuati in via sintetica dall'art. 148.[18]
Sulla
base dell’analisi e del raffronto tra i compiti di tutela, (ai sensi dell'art.
149 del d.lg. 112/1998), e i compiti di valorizzazione, (ai sensi del successivo
art. 152), è possibile, fondare il
criterio discretivo tra tutela e valorizzazione alla luce del rapporto tra
l'interesse pubblico perseguito dalla norma e le situazioni soggettive degli
amministrati.
In tal modo, possono dirsi norme di
tutela quelle che determinano o prefigurano, in senso lato, effetti limitativi
della sfera soggettiva dei destinatari, nel presupposto di un contrasto, quanto
meno potenziale, tra il libero svolgimento delle situazioni soggettive degli
stessi sui beni culturali e l'interesse pubblico a salvaguardarne il valore
culturale o, comunque, a consentire un'esplicazione di tale valore più
vantaggiosa per la collettività.
Sono,
invece, norme di valorizzazione quelle che assecondano ed esplicano il valore
culturale dei beni cui si riferiscono, attraverso la soddisfazione di situazioni
soggettive di terzi convergenti con detto valore.[19]
Tale
prospettiva interpretativa pare, ora, autorevolmente privilegiata dalla Corte
costituzionale, con la sentenza n. 94 del 28 marzo [20]2003.[21]
La
Corte Costituzionale con questa sentenza, ha dichiarato infondato un ricorso
governativo proposto contro una legge regionale[22] per una presunta
violazione di una serie di competenze statali in materia di beni culturali e
principalmente per violazione della competenza statale in materia di
"tutela" dei beni culturali.[23]
Si
tratta della prima sentenza costituzionale che interviene a risolvere un
conflitto di competenza tra Stato e regioni fondato sulla scissione operata
dall'art.
117 Cost. tra tutela (quale competenza esclusiva statale) e
valorizzazione (quale competenza regionale concorrente) dei beni culturali.[24]
La sentenza in oggetto si colloca
nell’ambito del dibattito, che si era basato sul tentativo di fondare la
ripartizione di competenza tra Stato e regioni attraverso la strada della
esplicitazione del contenuto delle nozioni della tutela e della valorizzazione
dei beni culturali, individuando tale sentenza un diverso possibile programma di
convivenza.
Il ricorso governativo che ha dato
luogo al giudizio di costituzionalità aveva ad oggetto la legge regionale del
Lazio n. 31/2006 ("Tutela e valorizzazione dei locali storici") con
cui la regione al fine di salvaguardare
gli esercizi commerciali ed artigianali del Lazio aperti al pubblico che hanno
valore storico, ambientale e la cui attività costituisce testimonianza storico,
culturale, tradizionale, anche con riferimento agli antichi mestieri, promuove
concorsi con le Soprintendenze per i beni culturali e i comuni, iniziative tese
alla individuazione e valorizzazione di tali esercizi e al sostegno delle
relative attività (art. 1, comma 1).
Per tale scopo la legge prevedeva la
formazione di un elenco regionale dei locali "aventi
valore storico, artistico e ambientale" la cui compilazione è affidata
ad uffici comunali e regionali, previa intesa con la Soprintendenza sui criteri
tecnici da adottare ai fini dell'inserzione nell'elenco, infine vengono
pubblicati nel Bollettino ufficiale della regione. [25]
L'inclusione di un immobile in detto
elenco comporta la possibilità di accedere a finanziamenti regionali
finalizzati a provvedere alla manutenzione o al restauro dei locali, nonché
degli arredi o strumenti in essi contenuti, oppure a fronteggiare eventuali
aumenti del canone di locazione.[26]
Il finanziamento concesso per la
manutenzione e il restauro comportava l'imposizione sull'immobile di un
"vincolo di destinazione d'uso" da trascriversi nei registri
immobiliari, previo assenso del proprietario, se diverso dal beneficiario.
L'Avvocatura dello Stato[27] in merito di tale legge
regionale ha mosso una serie di rilievi in particolare, l'invasione della
competenza statale in materia di tutela dei beni culturali dedotta da due
diverse circostanze: quella per cui la formazione dell'elenco regionale
prescinde completamente dai vincoli posti dagli organi dello stato deputati alla
tutela di tali beni e quella per cui l'agevolazione per interventi fisici quali
il restauro e la manutenzione costituisce un tipico intervento di tutela e non
di valorizzazione.
I motivi
per cui la Corte Costituzionale rigetta
la questione di illegittimità costituzionale
è ricostruibile attraverso tre fasi:
la prima
per cui la distinzione tra le funzioni di tutela e di valorizzazione si possono
ricavare dalla legislazione attualmente (artt.
148, 149 e 152 d.lg. 112/1998[28]
e d.lg.
490/1999);la seconda fase è data dal fatto che tali funzioni
riguardano i beni culturali quali attualmente definiti dal d.lg. 490/1999;mentre
la terza ed ultima fase si basa sul fatto che le stesse funzioni non riguardano
"altri beni" cui "a fini di valorizzazione possa essere
riconosciuto particolare valore storico o culturale da parte della comunità
regionale o locale, senza che ciò comporti la loro qualificazione come beni
culturali ai sensi del d.lg. 490/1999 e la conseguente speciale conformazione
del loro regime giuridico
La Corte
Costituzionale nelle sue conclusioni dichiara che la legge regionale del Lazio,
non è illegittima poiché “non pretende di determinare una nuova
categoria di "beni culturali ai sensi del d.lg. 490/1999".”[29]
Infatti
prevede semplicemente una disciplina per la salvaguardia degli
La Corte
costituzionale specifica che la nozione di
Vi sono
due aspetti della motivazione
della sentenza che bisogna evidenziare.
Il primo è di tipo metodologico.
Con questa sentenza, infatti, la
Corte Costituzionale mostra di non ritenere utilmente percorribile, ai fini
della soluzione dei conflitti di competenze tra diversi livelli di governo
territoriale, il metodo di stabilire di volta in volta se i concreti interventi
posti in essere sul bene, o comunque quelli previsti o possibili, rientrino in
una delle definizioni normative attualmente vigenti.
La
richiesta dell'Avvocatura di dichiarare compresi nella tutela anziché nella
valorizzazione il restauro e la manutenzione è, così caduta nel vuoto,
probabilmente perché la Corte l'ha ritenuta portatrice di una modalità di
affronto del problema che va in qualche misura superata.[31]
Anche
prima dell'entrata in vigore del d.lg. 112/1998, infatti, si erano palesate le
difficoltà intrinseche ai tentativi di perimetrazione della tutela sui beni
culturali rispetto ad altre competenze regionali quali l'edilizia, la tutela del
paesaggio, l'urbanistica.
L'impossibilità
di uscire dal vicolo cieco delle possibili sovrapposizioni tra competenze
statali e regionali aveva spesso indotto la Corte "a rincorrere
affannosamente il principio della leale collaborazione al fine di dare luce alle
molte zone d'ombra provocate
dalla
latitanza del legislatore" [32]che
non aveva provveduto a definire le competenze regionali .
L'adozione del d.lg. 112/1998 non è
riuscito a risolvere i conflitti, a causa della definizione di tutela che va
inevitabilmente a collocarsi in qualunque altro ambito come la gestione, il
restauro, la conservazione e la
valorizzazione.
La Corte
sembra prendere atto di tali difficoltà e, questo è il secondo profilo, pare
abbandonare la strada dell'individuazione del tipo di intervento per focalizzare
l'attenzione sul bene oggetto di intervento.
La
distinzione, solo immaginata nella sentenza, vede da un lato i "beni
culturali" individuati ai sensi del d.lg. 490/99 per i quali rimane in
qualche misura prevalente l'ambito della tutela, e dall'altro "altri beni" che possono rivestire interesse storico o culturale
per la comunità regionale o locale.[33]
Questi
ultimi beni, in forza della competenza legislativa concorrente sulla
valorizzazione e, naturalmente solo con riguardo agli aspetti relativi la stessa
valorizzazione, possono essere assoggettati a particolari discipline legislative
regionali.
La
sentenza n.94 ,in conclusione, propone
di sdrammatizzare il conflitto tutela/valorizzazione spostando il fulcro del
problema dal tipo di intervento al bene-oggetto dello stesso attraverso la
riproposizione della tesi di bene culturale quale definizione aperta.
Si tratta di una proposta non
innovativa, mentre invece, la proposta di farne il criterio di convivenza delle
competenze statali e regionali così come queste sono oggi confermate nell'art.
117 Cost. scontando in anticipo che la sua applicazione potrebbe comportare
reciproci sconfinamenti: della tutela sulla valorizzazione quando oggetto di
disciplina è il "bene culturale" ai sensi del d.lg. 490/1999 e della
valorizzazione sulla tutela quando si tratti di "altro bene" di
interesse per la comunità regionale o locale.
La
conferma è nella stessa legge regionale del Lazio che include gli interventi di
restauro tra le attività di valorizzazione dei locali storici.
Per
quanto riguarda il concetto di "gestione", anche se indicato come una
funzione separata dall'azione pubblica nel campo dei beni culturali in base
all'art. 148, lett. d) del d.lg. 112/1998,l’attività di gestione dei beni
culturali deve essere ricondotta, ai fini dell'applicazione della riforma
costituzionale, nell'ambito della "valorizzazione".
A tale
conclusione si giunge confutando le altre due soluzioni astrattamente
prospettabili: vale a dire a) la considerazione della "gestione" dei
beni culturali come sub-materia autonoma rispetto a quelle nominate dalla
riforma costituzionale ovvero b) la riconduzione della "gestione"
all'altra sub-materia ,cioè alla "tutela".[34]
La prima
delle due soluzioni porterebbe a considerare la gestione dei beni culturali,
come materia rimessa alla potestà legislativa generale-residuale delle regioni
poiché non è citata nei commi 2 e 3 dell'art. 117 Cost. che riguardano la
potestà legislativa esclusiva dello Stato in base al successivo comma 4 del
medesimo articolo.
Questa
tesi che è stata prospettata dalla dottrina[35]
, però è stato disatteso dal parere definitivo del Consiglio di Stato
n.1794/2002 , dove evidenzia la scarsa autonomia concettuale della nozione
“gestione” dei beni culturali , per cui non permetteva di considerarli come
una sfera autonoma.
Si è
scritto, ad esempio, che anche nei settori diversi dalla tutela dei beni
culturali vi sono comunque "esigenze di unitarietà o di cittadinanza
sociale da salvaguardare", sicché l'attribuzione di potestà esclusiva
alle regioni sul punto non parrebbe giustificata, e si osservato che il
meccanismo per ottenere, da parte delle regioni, esclusività di competenza in
queste materie è solo quello prefigurato dall'art. 116, ultimo comma, Cost. [36];
ancora, si è rilevato che, se si dovesse ritenere lo Stato abilitato a dettare
princìpi fondamentali in materia di valorizzazione, ma non di gestione, ciò
condurrebbe ad esiti di “dubbio fondamento concettuale[37]
.[38]
Inoltre le stesse regioni che, con i
loro ricorsi alla Corte costituzionale a difesa della propria sfera di
competenza, hanno configurato la funzione della gestione dei beni culturali come
una materia di legislazione concorrente, infatti i ricorsi, contestano le norme
di legge statale ,perché non si limiterebbero, a dettare i princìpi
fondamentali della materia stessa, ma ad invadere una competenza delle Regioni
in tale materia.
Infine
l'art. 117, comma 3, Cost. fa rientrare tra le materie di competenza legislativa
concorrente, la "promozione e organizzazione di attività culturali":
anche da questo punto di vista sembra difficile ritenere che, mentre risulta
testualmente assoggettata ai princìpi fondamentali stabiliti dalle leggi dello
Stato l'organizzazione di attività che potrebbero avere un carattere anche
estemporaneo (uno spettacolo, un concerto), non lo sia, invece, la gestione dei
beni culturali, che rappresenta un'attività senz'altro contrassegnata dai
caratteri della stabilità e permanenza, con un impatto ben più significativo
sull'assetto organizzativo dell'amministrazione di quanto possa averlo una
singola manifestazione culturale.
La tesi
interpretativa, cioè quella di ricondurre la gestione all'ambito della tutela ,
è stata sostenuta dal ministero dei beni culturali, in particolare, con
riguardo ai beni culturali in consegna al medesimo, nel procedimento che ha dato
luogo al suindicato parere n. 1794/2002.
La tesi
ministeriale aveva lo scopo di dare fondamento alla potestà regolamentare
statale; ciò al fine di superare il vaglio preventivo del Consiglio di Stato[39]
su uno schema di regolamento predisposto dal ministero per disciplinarne la
partecipazione a società per la gestione di beni culturali [40].
Secondo
questa tesi, la gestione dei beni
culturali sarebbe da ricondurre alla tutela, nella parte per cui, si perseguono
le finalità di tutela dei beni gestiti.
In realtà,
la gestione, così intesa, si identifica, con l'attività di amministrazione
materiale dei beni culturali, la quale include ogni decisione che ne concerne
l'uso, la manutenzione o il restauro nonché la costituzione di diritti di terzi
e così via: insomma, l'insieme delle facoltà di godimento comprese nel diritto
di proprietà, pubblica o privata che sia .[41]
La
gestione dei beni culturali non costituisce un'attività di tutela, ma il suo
esercizio è subordinato dalla sussistenza della funzione pubblica di tutela cioè
finalizzate a garantire l'interesse pubblico alla tutela del patrimonio
culturale.
La
differenza tra gestione e tutela è evidente per i beni culturali appartenenti a
soggetti diversi dal ministero, per i quali la gestione spetta ai soggetti
stessi, in quanto hanno la disponibilità dei beni, mentre la titolarità dei
poteri di tutela è riservata al ministero.
Invece
per i beni che appartengono al ministero, i due aspetti, si confondono, perché
il ministero è, contemporaneamente, sia il soggetto gestore del bene sia il
soggetto tenuto a garantirne il soddisfacimento delle esigenze di tutela, in
quanto titolare della relativa pubblica.
Sicuramente,
la gestione dei beni culturali da parte del ministero, per le capacità tecniche
e la vocazione istituzionale di tale apparato, è da presumere rispettosa in
re ipsa delle esigenze della tutela.
Tale
attività di gestione non sembra, però, concettualmente appartenere, all'area
della tutela in senso stretto.
Anche con
riguardo alla gestione, svolta dallo stesso ministero, dei beni culturali che
esso ha in consegna, la tutela rappresenta , un prius
logico, nel senso che tale gestione non può comunque svolgersi in contrasto con
le necessità inderogabili della tutela.[42]
Per cui
il ministero non può compiere gli atti di gestione dei beni senza aver
preventivamente valutato, la compatibilità di tali atti con le esigenze della
tutela, poiché il ministero è istituzionalmente responsabile.
Ciò
dimostra che l'attività di gestione dei beni culturali svolta dal ministero con
riguardo ai beni che esso ha in consegna non è riconducibile all'ambito
materiale della "tutela".
In tale
ambito sembra appartenere, l’attività della gestione, cioè che deve essere
soggetta alla preventiva valutazione del rispetto delle esigenze della tutela;
valutazione che il ministero necessariamente compie in ogni caso, ma che non
risulta esplicitata in atti formali ed autonomi, in quanto sottintesa al
conseguente atto di gestione.
Il parere
del Consiglio di Stato[43]
conclude che dal punto di vista dell'esercizio della funzione di tutela,
all'affidamento a terzi della gestione dei beni culturali in consegna al
ministero; detto affidamento a soggetti distinti dal ministero fa, difatti,
riemergere in modo pieno e formale , nella sua alterità concettuale e giuridica
rispetto all'attività di gestione , la potestà di tutela spettante al
ministero, alla quale gli atti di gestione compiuti dal terzo non potrebbero in
alcun modo dirsi sottratti.
Se la
gestione dei beni culturali da parte del ministero non ha come scopo la loro
tutela, ma deve avere luogo nel rispetto delle esigenze della loro tutela, pare
lecito e ragionevole concludere che tale gestione appartiene, concettualmente,
all'ambito materiale della "valorizzazione", essendo a ciò
strumentalmente finalizzata.[44]
Infatti,
a differenza dei beni culturali di proprietà privata, per i quali non sussiste,
in capo ai relativi proprietari, alcun obbligo normativamente imposto di
gestione finalizzata alla valorizzazione, la proprietà pubblica dei beni
culturali e, dunque, la loro gestione, in tanto si giustificano, in quanto dei
beni stessi sia assicurata la valorizzazione, facendone strumenti di promozione
dello sviluppo culturale.
Lo stesso
art. 9 della Costituzione, in base
al quale la tutela del patrimonio storico e artistico, che il comma 2 pone quale
compito fondamentale della Repubblica il quale deve rappresentare uno strumento
per promuovere lo sviluppo culturale della popolazione, che è un compito della
Repubblica ai sensi del comma 1 [45].
Nell’ambito della sfera statale,
tale obbligo di valorizzazione sussiste per i beni culturali di cui dispone il
ministero[46]
il quale risulta la loro destinazione istituzionale alla valorizzazione .
Per cui per “i beni in questione
è l'intera gestione, ossia l'insieme degli atti di amministrazione, a dover
essere istituzionalmente orientata alla valorizzazione, purché in modo
concretamente compatibile con le esigenze della loro tutela.
Sembra
perciò confermato che la gestione, avendo come proprio scopo la valorizzazione,
rientra in tale ambito materiale, mentre il rispetto delle esigenze della tutela
rappresenta una condizione prioritaria posta al perseguimento, attraverso la
gestione delle finalità della valorizzazione.[47]
Attualmente i concetti di tutela e valorizzazione sono disciplinati dal nuovo Codice dei Beni culturali del 1° marzo 2004 che va ad sostituire il T.U. in materia dei beni culturali ed ambientali (d.lgs. 490/1999).Nell’attuale codice la tutela del patrimonio culturale è disciplinata dall’art.3.Precedentemente la legge 1 giugno 1939, n. 1089, e neppure il successivo decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, fornivano una definizione di tutela.
Dalle
disposizioni di entrambe risultava , come in dottrina[48] non si era mancato di
sottolineare il chiaro atteggiarsi della tutela come tutela conservativa, ossia
la sua finalizzazione alla salvaguardia .
Il
decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, aveva fornito tale nozione, sia pure
in un'ottica di riparto delle competenze fra stato e autonomie territoriali,
ricomprendendo nella tutela "ogni attività diretta a riconoscere,
conservare e proteggere i beni culturali e ambientali" (art. 148, comma 1,
lett. c)), nozione questa frutto di una "lettura estremamente ampia della
tutela[49]"
.
Nella
bozza di Codice oggetto della deliberazione preliminare del Consiglio dei
ministri del 29 settembre 2003 veniva detto che la tutela
"concerne la disciplina delle attività e le funzioni dirette a garantire
l'individuazione, la conoscenza, la protezione e la conservazione del patrimonio
culturale, nonché a conformare e regolare i diritti ed i comportamenti ad esso
inerenti".
Nel testo
definitivo dell'art. 3[50]
, la formulazione subisce delle modifiche, in quanto per
tutela "consiste
nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla
base di un'adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il
patrimonio culturale e a garantirne la protezione e la conservazione per fini di
pubblica fruizione ".
Inoltre
si afferma che "l'esercizio delle funzioni di tutela si esplica anche attraverso
provvedimenti volti a conformare e regolare diritti e comportamenti inerenti il
patrimonio culturale”.
Le due
stesure dell'art. 3 segnano un dato di novità non indifferente rispetto alla
dizione dell'art. 148, comma 1, lett. c), del d.lg. 112/1998.
Non
deve invero trarre in inganno il comune richiamo al riconoscere/individuare,
conservare e proteggere: nell'art. 148 "ogni attività" rivolta a tali
obiettivi costituiva tutela, nell'art. 3 solo "l'esercizio delle funzioni e
la disciplina delle attività" a tali fini dirette.
Il
mutamento è di rilievo perché con i termini "funzioni" e
"disciplina" si rinvia necessariamente ad un momento normativo in cui
la disciplina è dettata e le funzioni vengono definite, ossia si postula un
concetto di tutela non perimetrato dal mero collegamento a fini generali ,ma
definito e precisato, sia pure in rapporto a detti fini, dal legislatore. In
buona sostanza emerge un concetto di tutela - al pari di quello di bene
culturale - "normativo" e perciò tipizzato.[51]
Per cui
la tutela non è più ogni attività diretta a conservare e proteggere il
bene culturale, ma il legislatore, ha ritenuto di disciplinare, l’attività
affidandone la cura alla P.A.
Le
finalità della tutela rappresentano l'individuazione, conservazione e
protezione dei beni culturali.
Il
patrimonio culturale, infine, va considerato in base a quanto previsto dall'art.
2, cioè costituito dai beni
culturali e da quelli paesaggistici.
La
tipizzazione della tutela, che deriva dalla normativizzazione della funzione,
consente di spiegare perché non ogni attività astrattamente rivolta ad una
delle finalità che connotano la tutela rientri nel suo ambito.
Infatti
ad esempio. la conservazione, è una delle finalità della tutela ex art. 3,
comma 1, è al tempo stesso considerata, come la fruizione e la valorizzazione,
attività che deve essere svolta "in conformità alla normativa di
tutela" e quindi, al pari delle altre due, .
L'apparente
anomalia si scioglie ove si consideri che ciò che dell'attività di
conservazione non è normativizzato come tutela, risulta estraneo alla
disciplina e all'esercizio della funzione, ma incontra un limite nell'assetto
della tutela, in particolare per quei profili ispirati da finalità di
conservazione.
La
tipizzazione della tutela consente, infine, di ritenere ampliata la sfera della
valorizzazione.
Ciò non perché quanto non appartiene alla tutela debba necessariamente rientrare nella valorizzazione.
Tale
tesi, che sicuramente ha acquistato peso nella nuova normativa, andrebbe però
verificata alla luce degli artt. 6 e 111 del Codice, che sembrano tipizzare
anche questa funzione, e saggiata alla luce di una complessiva riconsiderazione
della disciplina dei beni culturali.
Il fatto
è, comunque, che tra le finalità richiamate per definire le attività e
funzioni di valorizzazione sono indicate alcune che toccano o sono connesse a
finalità della tutela .[52]
Attualmente
con il nuovo Codice dei beni culturali , in particolare agli articoli 3 e 6 , in
cui si definiscono i concetti di “tutela” e di “valorizzazione”, “in
parte ricollegandosi all’art.148 del d.lgs. 112/1998[53] alla lett. c – e ), in
parte superandole, così da far rientrare nella tutela il complesso delle
attività e delle funzioni dirette a garantire l'individuazione, la conoscenza,
la protezione e la conservazione del patrimonio culturale, nonché a regolare e
a conformare i diritti e i comportamenti ad esso inerenti: identificando in
breve nella tutela non solo tutto ciò che è regolazione e amministrazione
giuridica dei beni culturali, ma anche ciò che è intervento operativo di
protezione e difesa dei beni stessi .
Al
contrario, l'art. 6 fa rientrare nella valorizzazione il complesso delle attività
di intervento integrativo e migliorativo ulteriore finalizzate alla fruizione
pubblica dei beni: conferendo quindi alla valorizzazione una posizione
complementare se non ancillare rispetto alle funzioni di tutela, talché l'art.
6, comma 2, prevede che la valorizzazione possa avvenire solo in forme
compatibili con la tutela e comunque tali da non pregiudicare le esigenze della
stessa.”[54]
Sulla
base di questa ripartizione, viene
meno la tripartizione indicata
dall'art. 148 del d.lg. 112/1998 in cui faceva riferimento alla tutela,
valorizzazione e gestione.
Infine il
Codice dei beni culturali da un lato, le funzioni di tutela sono disciplinate
sulla base del presupposto della competenza legislativa esclusiva dello stato in
base all’articolo 4 del Codice e, dall'altra parte, i principi fondamentali
che bisogna osservare nella disciplina legislativa della valorizzazione da parte
delle regioni in quanto oggetto di competenza legislativa concorrente.
La
nozione di “valorizzazione” invece è disciplinata dall’art.6 del Codice
dei beni culturali.
Questa
disposizione può essere definita come una norma "nuova"[55]
rispetto al decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, il quale non
riproduceva le scelte del d.lg. 112/1998, ma si limitava ad operare un unico
riferimento testuale alla valorizzazione nell'intitolazione del Capo VI, dove
compariva unitamente al godimento pubblico, e nell’art. 97, in un contesto
normativo dedicato alla espropriazione, la fruizione ed l’uso individuale dei
beni, rendendo così difficile individuarne le connessioni con la valorizzazione
definita dal decreto legislativo del 1998 [56].
Il T.U.
all’ art. 104, si limitava a rinviare non alla valorizzazione, con il
significato che veniva attribuito dall'art. 148 del d.lg. 112/1998, ma ad uno
dei contenuti che la qualificavano in base all'art. 152 del d.lgs 112,
cioè relativo alla fruizione dei beni culturali, disciplinando,
peraltro, come, dal punto di vista li organizzativo e procedimentale, dovessero
essere effettuati gli interventi da parte dei diversi livelli di governo .
A
differenza del T.U., il cui intero impianto esistevano numerose distanze dai
principi delle riforme amministrative e del settore già avviate dal legislatore
ordinario, tanto che neppure veniva recuperata l'individuazione delle
funzioni/attività in materia di beni culturali operata con la legge 15 marzo
1997, n. 59 e con il d.lg. 112/1998 , il Codice dei beni culturali non poteva
trascurare l'esigenza di collocarsi nell’ambito di quei provvedimenti
hanno dato inizio al cosiddetto “federalismo amministrativo”[57].
L’adozione
del Codice dei beni culturali, infatti, nasce dalla necessità, di cui si è
resa interprete la legge delega 6 luglio 2002, n. 137, con il suo art. 10, di
adeguare la disciplina in materia di beni culturali ed ambientali alla riforma
costituzionale dell'ottobre 2001.[58]
Inoltre
la scelta del codice di non definire altre attività ,diverse dalla tutela e
valorizzazione evitando qualsiasi riferimento alla gestione [59]dei beni culturali, ha la
finalità di eliminare ogni difficoltà che possono crearsi per una chiara
definizione della valorizzazione distinguendola dalla gestione.
Questa
scelta secondo Barbati[60]
di non citare l’espressione della gestione ,come era previsto dall’art.148
lett.d) del d.lgs 112/1998, nel codice e anche nella Costituzione , sia stata
attratta o “quasi diluita” nel concetto di valorizzazione .
Ma tale
scelta può essere motivata anche dalla difficoltà di collocazione
dell’attività di gestione, in seguito della entrata in vigore del nuovo
titolo V della Costituzione.
L’articolo
6[61]
al primo comma , definisce le attività di valorizzazione che,
lo stato, per i propri beni , e le regioni , per
gli altri beni sono tenuti a svolgere , in quanto si tratta di una norma
che si ricollegava agli artt.111,113,120 , in cui anche i soggetti privati sono
tenuti a svolgere.
Al
secondo comma[62]
della norma invece ribadisce la
subordinazione della valorizzazione alle esigenze prioritarie della tutela , il
quale rappresenta un parametro e un limite che determina l’estensione e le
modalità degli altri interventi in materia di beni culturali.
Il terzo
comma[63]
invece si limita a recepire e a declinare quel principio di sussidiarietà
orizzontale previsto dall’art. 118 4°comma della Cost., come criterio per
l’esercizio delle attività d’interesse generale.[64]
Il
codice dei Beni culturali, ha
voluto mitigare quella separazione tra tutela e valorizzazione che in prossimità
della riforma costituzionale poteva creare difficoltà, fornendo una
interpretazione dell’art.117, 3°comma Cost., con cui ne riduce il potenziale
significato, quanto al ruolo spettante alle Regioni[65]
in materia di valorizzazione. [66]