Cass. Sez. III n. 8220 del 2 marzo 2021 (PU 14 dic 2020)
Pres. Andreazza Est. Corbo Ric. De Francesco
Ecodelitti.Traffico illecito ed ingiusto profitto
Lo scopo di ottenere una commessa produttiva di significativi ricavi, concernente un’attività formalmente svolta in maniera lecita, perché supportata dalla titolarità delle necessarie autorizzazioni, ma nella consapevolezza della sua strumentalità allo smaltimento illecito di ingenti quantitativi di rifiuti, integri il fine di conseguire un ingiusto profitto richiesto dall’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006, e, attualmente, dall’art. 452-quaterdecies cod. pen. Ed infatti, in tale ipotesi, il profitto avuto di mira è ingiusto perché perseguito nella consapevolezza della sua stretta e inscindibile connessione con la realizzazione di un’attività di gestione abusiva di ingenti quantitativi di rifiuti, e, quindi, della sua derivazione dal complessivo svolgimento di tale illecita attività.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 22 ottobre 2018, la Corte d’appello di Torino, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Torino, per quanto di interesse in questa sede, ha confermato la dichiarazione di colpevolezza di Emanuele De Francesco e Bruno Pistoia per il reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 (ora art. 452-quaterdecies cod. pen.), ed ha rideterminato le pene, rispettivamente, in due anni di reclusione e in un anno e due mesi di reclusione.
Secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, nel periodo compreso tra il 4 gennaio 2010 e il 2 novembre 2011, in particolare: a) Emanuele De Francesco, nella qualità di amministratore unico della ditta di trasporti R.D. s.r.l., nonché, fino al 28 ottobre 2010, di amministratore della De Francesco Emanuele s.r.l., attraverso l’allestimento di mezzi ed attività continuative organizzate, poneva a disposizione le strutture e gli impianti delle sue imprese, trasportava, riceveva e non avviava a recupero una ingente quantità di rifiuti non pericolosi (nel solo sito di Borgaro Torinese pari a 2.727.030 kg.), omettendo di destinarli alle attività per le quali gli erano stati conferiti; b) Bruno Pistoia gestiva una ingente quantità di rifiuti non pericolosi, per un totale non inferiore a 406.000 kg., abbandonandoli in un capannone nella sua disponibilità in Saliceto, in assenza di qualsiasi autorizzazione.
2. Hanno presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe Bruno Pistoia, con atto a firma dell’avvocato Francesco Bosco, ed Emanuele De Francesco, con atto a firma dell’avvocato Andrea Milani. Emanuele De Francesco ha anche presentato motivi nuovi.
3. Il ricorso di Bruno Pistoia è articolato in un solo motivo, con il quale si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 110 cod. pen. e 256 e 260 d.lgs. n. 152 del 2006, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla qualificazione del fatto come delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, invece che come contravvenzione di attività di gestione di rifiuti non autorizzata.
Si deduce che, nella specie, difettano gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006, sia sotto il profilo oggettivo, sia sotto il profilo soggettivo. Si osserva, quanto all’elemento oggettivo, che non risulta l’allestimento di mezzi e di attività continuative organizzate, sia perché non può essere ritenuto sufficiente a tal fine il capannone dove erano stati sistemati i rifiuti, sia perché non vi è prova di accordi con i coimputati, ma solo di un contatto, non stabile, né continuativo, con Pierluigi Nervo. Si rileva, quanto all’elemento soggettivo, che non ricorre il dolo specifico, in quanto il ricorrente si era comunque attivato per ottenere le autorizzazioni necessarie per la gestione dei rifiuti, ed è del tutto inconferente attribuire rilievo ai suoi precedenti penali.
4. Il ricorso di Emanuele De Francesco è articolato in tre motivi.
4.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 238-bis cod. proc. pen. e 111, quarto comma, Cost., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. c) ed e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta utilizzabilità della sentenza pronunciata nei confronti di Pierluigi Nervo come elemento a carico di Emanuele De Francesco.
Si deduce che illegittimamente la sentenza impugnata ha addotto come elemento di prova dell’ingerenza di De Francesco nelle attività della società R.I. s.r.l. la sentenza pronunciata a carico di Pierluigi Nervo. Si rappresenta che, di questa sentenza, si valorizzano in particolare gli apporti dichiarativi di Pierluigi Nervo, sebbene, nel processo a carico di De Francesco, quest’ultimo, citato a norma dell’art. 210 cod. proc. pen., si è avvalso della facoltà di non rispondere, e le sue dichiarazioni rese in fase di indagini non sono state acquisite a norma degli artt. 512 o 513 cod. proc. pen. Si aggiunge, inoltre, che i contenuti probatori della sentenza a carico di Nervo sono stati valorizzati senza nemmeno procedersi ad una valutazione congiunta degli altri elementi di prova, a norma dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., come invece necessario ex art. 238-bis cod. proc. pen.
4.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 (ora art. 452-quaterdecies cod. pen.), a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta sussistenza del dolo specifico.
Si deduce che erroneamente è stata ritenuta la sussistenza del profitto, posto che lo stesso è stato individuato, con riferimento all’attività di trasporto, nell’utile derivante dalla mera attività di impresa. Si osserva, in particolare, che: a) l’attività di trasporto è l’unica per la quale residuano elementi di prova a carico del ricorrente, una volta espunti i riferimenti alla sentenza pronunciata nei confronti di Nervo; b) i compensi pattuiti per questa attività erano corrispondenti ai valori di mercato per la tipologia di attività svolta; c) la ditta R.D. s.r.l. disponeva delle autorizzazioni per il trasporto dei rifiuti indicati in contestazione.
4.3. Con il terzo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta colpevolezza dell’imputato ed alla affermazione di responsabilità civile nei confronti della ditta ITT s.r.l.
Si deduce, in primo luogo, che la dichiarazione di penale responsabilità poggia su affermazioni contraddittorie e contrastanti rispetto agli atti del processo. Si rileva che: a) l’affermazione della presenza di rifiuti eccedenti nel sito gestito dalla ditta di De Francesco nel febbraio 2010, contrasta con tutte le risultanze processuali (in particolare: nota ARPA; dichiarazione del teste Lorenzoni), posto che dalle stesse si evince la corretta gestione del sito al 27 settembre 2010; b) l’affermazione circa la “probabile” destinazione dei rifiuti ammassati verso siti ulteriori è del tutto assertiva ed apodittica; c) la valorizzazione delle conversazioni intercettate si scontra con l’assenza di contatti tra il ricorrente ed i coimputati; d) l’affermazione della penale responsabilità di De Francesco è in contrasto con quella relativa all’assoluzione dei coimputati Giuseppe Acampa e Giuseppe Pistoia, posto che anche per il primo doveva essere valorizzata la regolarità dei documenti utilizzati e la mancata dimostrazione di un accordo criminoso.
Si deduce, in secondo luogo, che erroneamente è stata ritenuta la legittimazione di ITT Italia s.r.l. a costituirsi parte civile, perché è stata fraintesa la deduzione difensiva, la quale aveva evidenziato come tale società, in quanto soggetto produttore dei rifiuti, aveva l’onere di verificare le autorizzazioni del destinatario dei rifiuti ex art. 188 d.lgs. n. 152 del 2006.
5. Il motivo nuovo di Emanuele De Francesco denuncia vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., avendo riguardo ancora alla ritenuta responsabilità penale dell’imputato.
Si deduce che l’affermazione di responsabilità di De Francesco in relazione alle condotte di ammasso di rifiuti contrasta con le conclusioni di altra sentenza pronunciata dalla Corte d’appello di Torino, la quale, con indicazione sul punto definitiva, ha rilevato che detto ricorrente non deve ritenersi coinvolto nelle vicende della società R.I. s.r.l. dopo le sue dimissioni del 29 ottobre 2010. Si osserva che la sopravvenienza di sentenza definitiva recante una ricostruzione dei fatti contrastante con quella accolta nella sentenza impugnata impone l’annullamento con rinvio di quest’ultima per consentire una verifica concernente la compatibilità tra le due decisioni (si cita Sez. 2, n. 19409 del 13/02/2019).
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso di Emanuele De Francesco è infondato, mentre quello di Bruno Pistoia è inammissibile, per le ragioni di seguito precisate.
2. Prive di specificità sono le censure esposte nel primo motivo del ricorso di Emanuele De Francesco, e che contestano l’utilizzabilità come prova della sentenza pronunciata nel processo a carico di Pierluigi Nervo, nonché, in particolare, delle dichiarazioni rese in quel processo dal medesimo Pierluigi Nervo, deducendo che questi, nel presente processo, citato ex art. 210 cod. proc. pen., si è avvalso della facoltà di non rispondere.
2.1. Occorre premettere che non si intende in questa sede prendere le distanze dal principio, più volte affermato dalla Corte di cassazione, in forza del quale le sentenze divenute irrevocabili, acquisite ai sensi dell'art. 238-bis cod. proc. pen., costituiscono prova dei fatti considerati come eventi storici, mentre le dichiarazioni in esse riportate restano soggette al regime di utilizzabilità previsto dall'art. 238, comma 2-bis, cod. proc. pen., e possono quindi essere utilizzate, nel diverso procedimento, contro l'imputato soltanto se il suo difensore aveva partecipato all'assunzione della prova (cfr., per tutte, Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016, dep. 2017, Bordogna, Rv. 270384-01, e Sez. 5, n. 36080 del 27/03/2015, Knox, Rv. 264862-01). Invero, tale principio risulta pienamente coerente con quanto stabilisce l’art. 111, quarto comma, Cost., e, piuttosto, una diversa soluzione sembra incompatibile con la disposizione costituzionale appena citata.
Tuttavia, va rilevato che, secondo un principio ampiamente consolidato in giurisprudenza, e condiviso dal Collegio, il giudice dell'impugnazione non è tenuto a dichiarare preventivamente l'inutilizzabilità della prova contestata qualora ritenga di poterne prescindere per la decisione, ricorrendo al cosiddetto "criterio di resistenza", applicabile anche nel giudizio di legittimità (cfr., specificamente: Sez. 2, n. 30271 del 11/05/2017, De Matteis, Rv. 270303-01; Sez. 2, n. 41396 del 16/09/2014, Arena, Rv. 260678-01; Sez. 5, n. 37694 del 15/07/2008, Rizzo, Rv. 241299-01).
Inoltre, deve essere osservato che, come già evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, ai fini dell'integrazione del reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, di cui all'art. 452-quaterdecies cod. pen., è sufficiente che anche una sola delle fasi di gestione dei rifiuti avvenga in forma organizzata, in quanto la norma incriminatrice indica in forma alternativa le varie condotte che, nell'ambito del ciclo di gestione, possono assumere rilievo penale (così, specificamente, Sez. 3, n. 43710 del 23/05/2019, Gianino, Rv. 276937-01, ma anche, ad esempio, in motivazione, Sez. 3, n. 39952 del 16/04/2019, Radin, mass. per altro).
2.2. Nella specie, i fatti ascritti ad Emanuele De Francesco, nel capo di imputazione, riguardano la gestione illecita dei rifiuti quale amministratore della “De Francesco Emanuele s.r.l.” fino al 28 ottobre 2010, e quale amministratore unico della ditta di trasporti “R.D. s.r.l.” per tutto il periodo in contestazione, dal 4 gennaio 2010 al 2 novembre 2011.
La sentenza impugnata in questa sede richiama la sentenza pronunciata a carico di Pierluigi Nervo nonché le dichiarazioni da questi rese in quel processo per evidenziare come detta persona fosse un collaboratore di Emanuele De Francesco nella gestione dell’impresa “R.I. s.r.l.”, la quale ha curato la gestione finale dei rifiuti nel periodo dal 29 ottobre 2010 in poi, e, quindi, per rilevare come il ricorrente fosse responsabile anche della gestione illecita dei rifiuti formalmente riferibile a tale società (cfr. pagg. 24-27). Tuttavia, la medesima sentenza impugnata in questa sede precisa che la responsabilità di Emanuele De Francesco per il reato di cui all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 (ora art. 452-quaterdecies cod. pen.) ha ad oggetto specificamente la gestione dei rifiuti da parte della “De Francesco Emanuele s.r.l.” (cfr. pag. 22) e l’attività di trasporto illecita effettuata dalla “R.D. s.r.l.” per tutto il periodo in contestazione. La Corte d’appello, infatti, osserva espressamente: a) «Anche se poi si volesse credere alla tesi difensiva, ovvero ad un’estraneità del De Francesco alla gestione della R.I. da parte del Nervo, è stata poi la R.D. s.r.l. di De Francesco a continuare ad effettuare tutti i trasporti dei rifiuti verso i vari capannoni in cui poi sono stati trovati ammassati e abbandonati» (pag. 23); b) «[…] anche a voler, in mera ipotesi, considerare esclusivamente l’attività di trasporto effettuata, anche il solo profitto derivante dall’usuale utile d’impresa per tale attività risulta nel caso di specie ingiusto […]» (pag. 28).
Del resto, anche la sentenza di primo grado ha espressamente precisato di affermare la colpevolezza dell’odierno ricorrente per il reato di cui all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 (ora art. 452-quaterdecies cod. pen.) pure «a non voler ritenere compiutamente dimostrata una gestione unitaria delle due società RD e RI, ovvero il ruolo di amministratore di fatto del De Francesco anche della società formalmente ceduta al Nervo» (così, testualmente, pag. 13), in considerazione della pregressa gestione dei rifiuti attraverso la “De Francesco Emanuele s.r.l.” e, soprattutto, attraverso il continuativo svolgimento delle attività di trasporto per tutto il periodo interessato (cfr. pagg. 12-14).
2.3. In considerazione di quanto precedentemente esposto, il Collegio ritiene che non sussistono i presupposti per dichiarare l’inutilizzabilità delle prove contestate, e precisamente della sentenza pronunciata nei confronti di Pierluigi Nervo e delle dichiarazioni dal medesimo rese nel processo a suo carico, in quanto le stesse risultano non necessarie ai fini della decisione.
Invero, per quanto risulta dall’imputazione e dalla sentenza impugnata, ma anche dalla decisione di primo grado, il fondamento dell’affermazione di responsabilità penale di Emanuele De Francesco attiene al ritenuto accertamento della sua condotta quale gestore “finale” dei rifiuti attraverso la “De Francesco Emanuele s.r.l.” fino al 28 ottobre 2010, e, soprattutto, quale trasportatore dei rifiuti per tutti il periodo in contestazione, fino al 2 novembre 2011.
Di conseguenza, le prove criticate risultano relative ad una condotta espressamente ritenuta non decisiva da entrambi i giudici di merito ai fini della dichiarazione di colpevolezza del ricorrente, anzi nemmeno formalmente contestata nel capo di imputazione, e, quindi, ininfluenti ai fini della presente decisione.
3. Prive di specificità sono anche le censure formulate nel motivo nuovo di Emanuele De Francesco, e che contestano l’affermazione di responsabilità del ricorrente, per la sua estraneità alla gestione della società “R.I. s.r.l.”, siccome evidenziata anche da una ulteriore successiva sentenza passata in giudicato.
In proposito, è sufficiente richiamare quanto esposto in precedenza (§§ 2.1, 2.2. e 2.3). Ed infatti, anche questo motivo attiene all’accertamento della condotta di gestione “finale” dei rifiuti attraverso la società “R.I. s.r.l.”, ossia ad una condotta formalmente non contestata nel capo di imputazione, e che entrambi i giudici di merito hanno espressamente ritenuto non decisiva ai fini della dichiarazione di colpevolezza del ricorrente.
4. Infondate sono le censure enunciate nel secondo motivo del ricorso di Emanuele De Francesco, e che denunciano l’erroneità dell’affermazione della sussistenza del dolo specifico, in particolare con riferimento all’attività di trasporto dei rifiuti, deducendo che l’ingiusto profitto non può essere individuato nell’utile derivante dalla mera attività di impresa.
4.1. La nozione di ingiusto profitto, in riferimento al reato di cui all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 (ora art. 452-quaterdecies cod. pen.), è stata interpretata in termini sostanzialmente convergenti dalla giurisprudenza di legittimità.
In linea generale, si osserva che, ai fini della configurabilità del delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, di cui all'art. 452-quaterdecies cod. pen., il profitto - che può consistere non soltanto in un ricavo patrimoniale, ma anche nel vantaggio conseguente dalla mera riduzione dei costi aziendali o nel rafforzamento di una posizione all'interno dell'azienda - è ingiusto qualora discenda da una condotta abusiva che, oltre ad essere anticoncorrenziale, può anche essere produttiva di conseguenze negative, in termini di pericolo o di danno, per la integrità dell'ambiente, impedendo il controllo da parte dei soggetti preposti sull'intera filiera dei rifiuti (così Sez. 3, n. 16056 del 28/02/2019, Berlingieri, Rv. 275399-01).
Inoltre, si è puntualizzato che, per la configurabilità del reato di traffico illecito di rifiuti sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006, il profitto ingiusto può consistere anche solo nella riduzione dei costi aziendali e, comunque, non deve assumere necessariamente carattere patrimoniale, potendo essere costituito anche da vantaggi di altra natura (cfr. Sez. 3, n. 53136 del 28/06/2017, Vacca, Rv. 272097-01, la quale ha ravvisato il vantaggio del trasporto illecito nello sgravio per le società appaltatrici degli oneri derivanti dalla regolarizzazione della movimentazione del materiale e nella maggiore celerità dei lavori di riqualificazione di un aeroporto internazionale, ma anche Sez. 4, n. 29627 del 21/04/2016, Silva, Rv. 267845-01).
Sembra corretto, e coerente con queste indicazioni, ritenere che lo scopo di ottenere una commessa produttiva di significativi ricavi, concernente un’attività formalmente svolta in maniera lecita, perché supportata dalla titolarità delle necessarie autorizzazioni, ma nella consapevolezza della sua strumentalità allo smaltimento illecito di ingenti quantitativi di rifiuti, integri il fine di conseguire un ingiusto profitto richiesto dall’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006, e, attualmente, dall’art. 452-quaterdecies cod. pen. Ed infatti, in tale ipotesi, il profitto avuto di mira è ingiusto perché perseguito nella consapevolezza della sua stretta e inscindibile connessione con la realizzazione di un’attività di gestione abusiva di ingenti quantitativi di rifiuti, e, quindi, della sua derivazione dal complessivo svolgimento di tale illecita attività.
4.2. La sentenza impugnata evidenzia in modo compiuto sia l’entità e le modalità di svolgimento dell’attività di gestione illecita dei rifiuti, sia il ruolo e le condotte del ricorrente De Francesco in relazione a tale attività.
Si rappresenta, innanzitutto, che l’operazione di illecita gestione dei rifiuti oggetto di addebito attiene a quantitativi corrispondenti a «varie migliaia di tonnellate» di materiali ferrosi ed altri materiali non pericolosi di risulta delle lavorazioni industriali effettuate da “I.T.T. Italia s.r.l.”, transitate per quattro siti, e di cui 2.727,03 tonnellate ricevute presso la sola struttura di Borgaro Torinese, e 406 tonnellate ricevute in Saliceto. Si precisa che l’illecita gestione è avvenuta perché i rifiuti in questione dovevano essere avviati a recupero o a riciclo e, invece, sono stati ammassati in condizioni di totale abbandono in capannoni di fatto trasformati in discariche, formando cumuli fino al soffitto di queste strutture, e provocando crepe nei muri per la pressione ed il peso di quanto stivato.
Si rappresenta, poi, che Emanuele De Francesco partecipò a tutte le attività di gestione di tali rifiuti: segnatamente, egli operò, nella prima fase, dal 4 gennaio 2010 al 28 ottobre 2010, quale amministratore della società ricevente i rifiuti, e, poi, dal 29 ottobre 2010 al 2 novembre 2011, quale amministratore della società addetta al trasporto dei rifiuti. Si riportano inoltre elementi indicativi della piena consapevolezza del ricorrente circa il mancato avvio al recupero o al riciclo dei rifiuti, come invece previsto e concordato (elementi dei quali si dà più compiutamente conto infra, §§ 5, 5.1 e 5.2, in sede di esame delle censure proposte con il terzo motivo del ricorso di De Francesco).
4.3. Dati questi presupposti fattuali, corretta è la conclusione circa la sussistenza del dolo specifico richiesto dall’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006, e, oggi, dall’art. 452-quaterdecies cod. pen. in capo al ricorrente De Francesco.
Ed infatti, la sentenza impugnata, mediante l’indicazione delle circostanze sopra sintetizzate, evidenzia come il ricorrente avesse piena consapevolezza concorrere con la sua attività, anche solo di trasporto, ad una gestione abusiva di un ingente quantitativo dei rifiuti. È quindi ragionevole la conclusione che il medesimo, anche quando si è occupato formalmente del solo trasporto dei materiali di risulta, abbia posto in essere la sua condotta al fine di ottenere una commessa produttiva di significativi ricavi, nella consapevolezza che l’attività da lui svolta, sebbene apparentemente lecita, fosse strumentale allo smaltimento illecito di ingenti quantitativi di rifiuti.
5. Infondate sono anche le censure evidenziate nella prima parte del terzo motivo del ricorso di Emanuele De Francesco e che contestano l’affermazione della penale responsabilità del ricorrente in relazione alla gestione abusiva dei rifiuti fino al 28 ottobre 2010 ed al trasporto dei rifiuti nel periodo successivo, deducendo vizi di motivazione.
5.1. La sentenza impugnata perviene alle sue conclusioni di colpevolezza del ricorrente offrendo plurime indicazioni con riferimento ad entrambe le condotte.
Relativamente alla gestione dei rifiuti fino al 28 ottobre 2010, la Corte d’appello segnala che: a) la società “De Francesco Emanuele s.r.l.”, sin dal gennaio 2010, iniziò a ricevere continuativamente rifiuti provenienti dalla società “I.T.T. Italia s.r.l.” e con destinazione al recupero o al riciclo (i rifiuti recavano il codice R13, ossia messa in riserva per operazioni di riciclo o recupero); b) nel febbraio 2010 furono rinvenuti rifiuti nel sito gestito dalla società “De Francesco Emanuele s.r.l.”, in violazione dei termini minimi per svolgere tale attività (la società appena indicata aveva ottenuto l’autorizzazione a svolgere attività di recupero dei rifiuti nel novembre 2009); c) il ricorrente non svolse nessuna attività concreta per realizzare il recupero o riciclo dei rifiuti, salvo chiedere un preventivo per acquistare una brichettatrice ad una ditta tedesca e recarsi in Germania nel luglio 2010 per visionare tale macchina; d) fra il gennaio e l’ottobre 2010, la società “De Francesco Emanuele s.r.l.” ebbe a ricevere centinaia di tonnellate di rifiuti, e, sebbene un sopralluogo dell’A.R.P.A. abbia escluso un accumulo nel sito di Trana nel settembre 2010, dette quantità risultano annotate dall’azienda medesima nei registri di carico per quantitativi superiori a quelli depositabili in tale sito, e non avviate a recupero o a riciclo, ma movimentate in uscita, ad esempio verso Borgaro Torinese e probabilmente verso ulteriori località. Per meglio comprendere il significato di quest’ultimo rilievo, può essere utile il chiarimento offerto nella sentenza di primo grado: i rifiuti annotati nei registri di carico risultano indicati “in entrata” con il codice R13 (relativo alla messa in riserva per operazioni di riciclo o recupero), e, successivamente, “in uscita” sempre con il medesimo codice R13, quindi ancora per la messa in riserva e non già per essere avviati al recupero o al riciclo.
Con riferimento all’attività di trasporto, la Corte d’appello rappresenta che Emanuele De Francesco ha agito nella piena consapevolezza del mancato avvio al riciclo o al recupero dei rifiuti trasferiti con gli automezzi della sua società “R.D. s.r.l.”, perché: a) ha effettuato trasporti continuativamente per mesi verso capannoni in cui i detti materiali di risulta sono stati rinvenuti ammassati ed abbandonati, proseguendo in tale attività anche dopo i sopralluoghi dell’A.R.P.A. nel marzo ed aprile 2011, dai quali erano emerse gravi irregolarità concernenti gli accumuli nei predetti siti; b) era perfettamente a conoscenza dell’inidoneità della società “R.I. s.r.l.”, cui erano destinati i rifiuti, in quanto priva di qualsiasi impianto idoneo al recupero e al riciclo di questi, per essere la stessa derivata dalla “De Francesco Emanuele s.r.l.”, nata in conseguenza della cessione, il 29 ottobre 2010, delle quote dal ricorrente a Pierluigi Nervo, persona tra l’altro fino a quel momento sprovvista di documentate esperienze specifiche nel settore, e della modifica, in pari data, della denominazione sociale; c) risulta aver concesso in uso il capannone di Trana per il deposito dei rifiuti alla precisata società “R.I. s.r.l.”, senza informarne il proprietario (per quanto specificato dalla sentenza di primo grado, continuando anche ad occuparsi del pagamento del canone), ed anzi, secondo le dichiarazioni di un dipendente, gestendo il sito unitamente a Nervo; d) è stato controllato ancora in data 17 gennaio 2012 presso la sede della sua società mentre effettuava una gestione non autorizzata di materiali ferrosi; e) è stato indicato come colui dal quale provenivano i rifiuti rinvenuti ammassati in Saliceto, nel sito in disponibilità del coimputato Bruno Pistoia (la moglie di quest’ultimo ha riferito che i rifiuti provenivano «da un certo Emanuele»).
5.2. Le conclusioni della sentenza impugnata sono correttamente motivate.
Per quanto attiene alla ritenuta colpevolezza per l’attività di gestione dei rifiuti fino al 28 ottobre 2010, va rilevato che secondo quanto emerge dalle sentenze di merito: a) i quantitativi di rifiuti pervenuti per centinaia di tonnellate nel sito di Trana, ed annotate nel registro di carico ad opera della stessa società amministrata dal ricorrente, erano ampiamente superiori a quelle depositabili in detto luogo; b) tali quantitativi di rifiuti furono ricevuti con il codice R13, ossia per la destinazione di messa in riserva per operazioni di riciclo o recupero, e fatti uscire con il medesimo codice R13, quindi per la medesima destinazione; c) questi rifiuti furono movimentati verso il sito di Borgaro Torinese e verso altre località non precisate; d) nel sito di Borgaro Torinese, sia pure nel 2012, fu riscontrata un’abnorme concentrazione di rifiuti abusivamente gestiti; e) il sopralluogo dell’A.R.P.A. del 27 settembre 2010 non riscontrò irregolarità nello specifico sito di Trana (ma non anche negli altri siti); f) il ricorrente non svolse nessuna attività di recupero o riciclo dei rifiuti ricevuti, né aveva i mezzi necessari a tale fine. Sulla base di una valutazione coordinata di tali circostanze, risulta non manifestamente illogica la conclusione secondo cui gli ingenti quantitativi di rifiuti ricevuti dalla società “De Francesco Emanuele s.r.l.” dal gennaio all’ottobre 2010, furono abusivamente gestiti, e che, in particolare, non assume significato decisivo a discarico la situazione riscontrata nel sito di Trana dal personale dell’A.R.P.A. il 27 settembre 2010.
Per quanto concerne la ritenuta colpevolezza relativamente alle condotte realizzate a partire dal 29 ottobre 2010 e fino al 2 novembre 2011, va osservato che la Corte d’appello ha indicato congrui e plurimi elementi dai quali inferire come il ricorrente fosse pienamente consapevole dell’illecito accumulo dei materiali di risulta da parte del destinatario, e, quindi, della funzionalità dell’attività di trasporto, da lui svolta attraverso la società “R.D. s.r.l.” in modo formalmente regolare, alla abusiva gestione di ingenti quantitativi di rifiuti.
Né questa conclusione può ritenersi manifestamente illogica perché, in particolare, non risultano contatti tra il ricorrente e gli altri imputati, ovvero perché i coimputati Giuseppe Acampa e Giuseppe Pistoia sono stati assolti.
Per quanto riguarda il primo rilievo, in disparte da ogni altra considerazione, è sufficiente rilevare come, secondo la giurisprudenza consolidata, il reato di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 non ha natura necessariamente plurisoggettiva, richiedendo per la sua integrazione la predisposizione di una struttura volta a realizzare il commercio illegale dei rifiuti che può essere approntata anche da una sola persona (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 36119 del 30/06/2016, Gavillucci, Rv. 267760-01, e Sez. 3, n. 15630 del 12/01/2011, Costa, Rv. 249984-01).
Relativamente al secondo rilievo, poi, basta considerare come il ruolo svolto da De Francesco nella complessiva operazione è ben diverso da quello attribuibile a Giuseppe Acampa e Giuseppe Pistoia, i quali, più limitatamente, si erano occupati di individuare la ditta del ricorrente come idonea alle operazioni di recupero e di riciclo dei rifiuti della “I.T.T. Italia s.r.l.”, e di verificare, di volta in volta, se questi potessero essere avviati al recupero o al riciclo, senza però effettuare nemmeno attività di trasporto.
6. Infondate, ancora, sono le censure proposte nella seconda parte del terzo motivo del ricorso di Emanuele De Francesco, e che criticano il riconoscimento della legittimazione della società “I.T.T. Italia s.r.l.” a costituirsi parte civile, deducendo vizi di motivazione, per la mancata considerazione dell’onere di tale impresa di verificare le autorizzazioni del destinatario dei rifiuti ex art. 188 d.lgs. n. 152 del 2006.
6.1. L’art. 188 d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo attualmente vigente per effetto della riforma recata dall’art. 1, comma 15, d.lgs. 3 settembre 2020, n. 116, prevede, al comma 4, nel primo periodo, che «la consegna dei rifiuti, ai fini del trattamento, dal produttore iniziale o dal detentore ad uno dei soggetti di cui al comma 1 [quale, ad esempio, il trasportatore], non costituisce esclusione automatica della responsabilità rispetto alle operazioni di effettivo recupero o smaltimento».
Tuttavia, il medesimo comma 4 stabilisce che «la responsabilità del produttore o detentore per il recupero o lo smaltimento dei rifiuti è esclusa» anche nel caso di «conferimento dei rifiuti a soggetti autorizzati alle attività di recupero o di smaltimento a condizione che il detentore abbia ricevuto il formulario di cui all'articolo 193 controfirmato e datato in arrivo dal destinatario entro tre mesi dalla data di conferimento dei rifiuti al trasportatore ovvero che alla scadenza di detto termine il produttore o detentore abbia provveduto a dare comunicazione alle autorità competenti della mancata ricezione del formulario […]» (lett. b).
Né la disciplina era diversa all’epoca dei fatti.
Invero, molto simile era la disciplina fissata dall’art. 188 d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo vigente in forza della previsione di cui all’art. 16, comma 1, d.lgs. 3 dicembre 2010, n. 205. Meno rigorosa, inoltre, era la disciplina di cui all’art. 188 cit., sia nel testo vigente per effetto della disposizione di cui all’art. 4, comma 2, d.lgs. 29 giugno 2010, n. 128, sia nel testo originario.
6.2. Nella specie, secondo quanto osserva la sentenza impugnata, «tutta la documentazione relativa al conferimento dei rifiuti da ITT Italia srl a Ecoidea Tre srl e poi alla De Francesco Emanuele s.r.l., poi divenuta R.I. s.r.l., risulta regolare, con registri e formulari correttamente tenuti dalla Ecoidea Tre s.r.l.» (pag. 31). Né il ricorrente contesta specificamente queste circostanze.
Di conseguenza, risulta non manifestamente illogico il riconoscimento della legittimazione della società “I.T.T. Italia s.r.l.” a costituirsi parte civile, essendo ricostruita fattualmente in sentenza una situazione di esclusione di responsabilità del produttore dei rifiuti rilevante a norma dell’art. 188 d.lgs. n. 152 del 2006.
7. Prive di specificità, e comunque manifestamente infondate, sono le censure formulate nel ricorso di Bruno Pistoia, e che contestano la qualificazione del fatto come delitto, a norma dell’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006, e, oggi, dell’art. 452-quaterdecies cod. pen., invece che come contravvenzione, a norma dell’art. 256 d.lgs. n. 152 del 2006, deducendo l’insussistenza di mezzi ed attività continuative organizzate, di accordi con i coimputati, e del dolo specifico.
Per quanto riguarda le doglianze concernenti l’insussistenza di mezzi ed attività continuative organizzate, va evidenziato che la sentenza impugnata rappresenta come il capannone di Saliceto, in uso a Bruno Pistoia, sia stato impiegato espressamente ed esclusivamente dal medesimo, nel periodo in contestazione, per mesi, per accumulare almeno 406 tonnellate di rifiuti in condizioni di abbandono, senza alcuna registrazione o suddivisione, oltre che in assenza di qualunque autorizzazione. In questo modo, la Corte d’appello ha evidenziato sia l’allestimento di mezzi, in particolare per la destinazione del capannone ad abusiva discarica, sia lo svolgimento di attività continuative organizzate, in particolare per essersi le stesse protratte per mesi, con sistematico accumulo, nel medesimo luogo, e nelle medesime condizioni, dei rifiuti illecitamente ricevuti.
Relativamente alla mancata individuazione di accordi con i coimputati, in disparte da ogni ulteriore considerazione, occorre richiamare la giurisprudenza già citata in precedenza (§ 5.2) secondo la quale il reato di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 non ha natura necessariamente plurisoggettiva, richiedendo per la sua integrazione la predisposizione di una struttura volta a realizzare il commercio illegale dei rifiuti che può essere approntata anche da una sola persona.
In ordine al dolo specifico, è sufficiente osservare che l’attività è stata svolta per mesi, e in relazione ad ingenti quantitativi di rifiuti, in assenza di qualunque autorizzazione. Invero, non può assumere alcun significato a discarico, per escludere il fine di conseguire un ingiusto profitto, l’asserito impegno per ottenere le autorizzazioni necessarie, in presenza di un abusivo accumulo, effettuato progressivamente nel corso di mesi, di ingenti quantità di rifiuti. Per completezza, poi, si aggiunga che il ricorrente Pistoia non solo non ha mai conseguito l’autorizzazione, ma, secondo quanto rappresenta la sentenza di primo grado, non risulta avere mai presentato neppure la pertinente richiesta.
8. In conclusione, alla complessiva infondatezza delle censure formulate nel ricorso di Emanuele De Francesco segue il rigetto dell’impugnazione e la condanna del medesimo al pagamento delle spese processuali.
Deve escludersi che la non inammissibilità del ricorso ponga problemi di prescrizione. In primo luogo, infatti, in forza dell’art. 157 cod. pen., nel testo vigente a seguito delle modifiche recate dal d.l. 23 maggio 2008, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, i termini relativi al tempo necessario a prescrivere, corrispondenti al massimo edittale fissato per la fattispecie delittuosa per cui si procede, sono raddoppiati «per i reati di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater del codice di procedura penale». In secondo luogo, poi, nell’elenco dei reati di cui all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., quello di cui all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 è stato inserito dall’art. 11 comma 1, legge 13 agosto 2010, n. 136. In terzo luogo, per il delitto di cui all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006, il termine di prescrizione, essendo la fattispecie sanzionata con una pena massima pari a sei anni, considerata la sola interruzione, è pari a quindici anni, e, siccome riguarda un reato abituale (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 52838 de 14/07/2016, Serrao, Rv. N. 268920-01, e Sez. 3, n. 46705 del 03/11/2009, Caserta, Rv. 245605-01), inizia a decorrere, per la coincidenza del momento della consumazione delittuosa con la cessazione dell'abitualità, dalla data del compimento dell’ultimo atto antigiuridico (cfr., in questo senso, tra le tantissime: Sez. 5, n. 9956 del 11/01/2018, B., Rv. 272374-01, in materia di atti persecutori; Sez. 3, n. 43255 del 19/09/2019, C., in tema di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione; Sez. 1, n. 19631 del 12/06/2018, Papagni, Rv. 276309-01, con riferimento alla fattispecie di molestia e disturbo alle persone; Sez. 5, n. 8026 del 14/12/2016, dep. 2017, Manzini, Rv. 269451-01, relativa all’esercizio abusivo di intermediazione finanziaria).
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso di Bruno Pistoia segue la condanna di questo ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al versamento a favore della cassa delle ammende della somma di euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
In ragione dell’esito dei ricorsi, i due imputati ricorrenti debbono essere condannati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili “I.T.T. Italia s.r.l.” e “Immobiliare Jole di Mariano Tonon & C. s.n.c.”, che si liquidano rispettivamente in euro 3.500,00 ed euro 3.015,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso di De Francesco Emanuele, che condanna al pagamento delle spese processuali.
Dichiara inammissibile il ricorso di Pistoia Bruno, che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili “I.T.T. Italia s.r.l.” e “Immobiliare Jole di Mariano Tonon & C. s.n.c.”, che liquida rispettivamente in euro 3.500,00 ed euro 3.015,00, oltre accessori di legge.
Così deciso il 14/12/2020