Lo sviluppo sostenibile: significato giuridico e attuazione da parte di giudici e tribunali

di Giuseppe DE NOZZA

 

Seminario litigios globais, meio ambiente e cidadania internacional

San Paolo del Brasile, 21 – 22 marzo 2024.

 

Relatore: Giuseppe DE NOZZA, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi, sul tema Lo sviluppo sostenibile: significato giuridico e attuazione da parte di giudici e tribunali”.

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SOMMARIO: 1) Il Club di Roma e la nascita dell’ambientalismo moderno su base scientifica, pag. 1; 2) Il rapporto Bruntland e la definizione di sostenibilità, pag. 2; 3) L’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, pag. 3; 4) Lo sviluppo sostenibile nel diritto dell’Unione Europea, pag. 4; 5) Il piano nazionale di ripresa e resilienza (P.N.R.R.), pag. 6; 6) L’ambiente da materia a valore costituzionale primario: la revisione degli artt. 9 e 41 della Costituzione italiana, pag. 7; 7) La normativa penale a tutela dell’ambiente, degli ecosistemi e della biodiversità, pag. 8; 8) La definizione di sviluppo sostenibile nella legislazione italiana, pag. 10; 9) La revisione della direttiva 2008/99/CE: la delibera del Parlamento Europeo del 27 febbraio 2024, pag. 11; 10) L’orientamento della Corte Costituzionale in tema di sviluppo sostenibile, tutela dell’ambiente e crescita economica, pag. 12; 11) Considerazioni conclusive, pag. 15.

Ringrazio la Scuola Paulista della Magistratura e, in particolare, José Maria CAMARA JUNIORper l’invito a partecipare ad un seminario su temi di così straordinaria attualità e importanza quali lo sviluppo sostenibile e l’ambiente, in una terra di così straordinaria bellezza quale il Brasile e, in particolare, lo Stato di San Paolo.

Ringrazio, altresì, la Scuola Superiore della Magistratura italiana e, in particolare, i componenti del Comitato Direttivo Gianluca GRASSO e MARCO ALMA per avermi concesso l’opportunità e l’onore di rappresentare la Scuola in occasione di un così prestigioso seminario internazionale.

  1. Il Club di Roma e la nascita dell’ambientalismo moderno su base scientifica.

Sostenibilità è termine intimamente legato all’Italia e alla sua storia, anche quella meno recente.

Sostenibile” è aggettivo utilizzato nella lingua italiana per indicare ciò che si può sostenere e che, quindi, può durare nel tempo.

La sua origine è latina: il verbo “sustinere” ha tra i suoi significati quello di sostenere, sorreggere ma anche quello di difendere, conservare e proteggere.

Italiano era Aurelio PECCEI, imprenditore piemontese che nel 1968 ebbe la straordinaria idea di ospitare a Roma, nella sede dell’Accademia dei Lincei a Villa Farnesina, trenta tra politici, economisti, scienziati e tecnici, con i quali avviò una riflessione sul fatto se l’intensa crescita industriale, demografica e di consumo delle risorse naturali (rinnovabili e non) potesse esporre a rischi la Terra nel medio lungo periodo, spingendola verso un limite superato il quale si sarebbe potuto materializzare l’inizio del declino per il pianeta e per l’umanità.

Nacque, così, il Club di Roma, associazione non governativa che decise di dare a tale predicament of Mankind una risposta scientifica e che a tal fine conferì incarico ad un gruppo di studiosi del M.I.T. di Harvard di costruire, avvalendosi di un computer, una simulazione delle interazioni tra i principali fattori che in quel momento storico costituivano i grandi problemi o dilemmi dell’umanità e, cioè, la crescita sfrenata dell’industrializzazione, l’aumento massivo della popolazione, l’insufficienza del cibo e dell’acqua necessari per far fronte a tale aumento, il progressivo consumo delle risorse naturali, anche di quelle non rinnovabili, e, infine, il deterioramento dell’ambiente a causa dell’inquinamento.

La simulazione disegnò uno scenario tutt’altro che rassicurante, perché gli studiosi di Harvard dimostrarono che il progredire incessante della crescita economica e della popolazione avrebbero determinato nei successivi cento anni il consumo di tutte le risorse del pianeta, con il conseguente avvio di un lungo periodo di declino.

Nel marzo del 1972 i ricercatori del M.I.T. presentarono, presso lo Smithsonian Institute di Washington, il rapporto denominato “I limiti della crescita” (Limits to Grouth),rapporto che, solo qualche mese dopo e, cioè, il 5 e il 6 giugno 1972, sarebbe divenuto uno dei temi di più accesa discussione della prima conferenza mondiale sull’ambiente, quella convocata dalle Nazioni Unite e tenutasi a Stoccolma, alla quale parteciparono112 Stati.

Quel rapporto segnò la nascita dell’ambientalismo moderno su base scientifica e, soprattutto, consegnò al Club di Roma un importante dato sul quale riflettere, quello, cioè, che la crescita economica avesse un limite e che l’unico modo per non superarlo era quello di dotarsi di un modello di sviluppo sostenibile, di un modello, cioè, che potesse reggersi in equilibrio, anche nell’interesse delle generazioni future.

  1. Il rapporto Bruntland e la definizione di sostenibilità.

La Conferenza di Stoccolma si concluse con l’approvazione di una dichiarazione comune contenente ventisei principi in materia di sviluppo e ambiente, tra i quali il primo fu quello che l’uomo avesse il diritto a vivere in un ambiente sano.

Si rivelò necessario, però, aspettare il 1987 perché il termine “sostenibilità” si riempisse di un significato preciso e, soprattutto, unanimemente condiviso.

Nel 1983, infatti, a seguito di risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, venne istituita la commissione mondiale per l’ambiente e per lo sviluppo, alla quale fu affidato il compito di elaborare “un’agenda globale per il cambiamento”.

Il 20 marzo 1987 la Commissione, presieduta dal norvegese Bro Harlem Bruntland, predispose il rapporto denominato “Our common future”, nel quale, per la prima volta, al termine sostenibilità veniva attribuito un significato univoco.

Nel rapporto si scrisse, infatti, che l’umanità avrebbe avuto la possibilità di rendere sostenibile lo sviluppo“solo se esso fosse stato in grado di soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la possibilità di soddisfacimento dei bisogni di quelle future”.

Secondo il rapporto Bruntland un modello di sviluppo sostenibile “avrebbe implicato per le politiche ambientali e di sviluppo alcuni obiettivi cruciali e, in particolare, che si fosse rianimata la crescita economica, se ne fosse mutata la qualità, si fossero soddisfatti i bisogni essenziali in termini di posti di lavoro, generi alimentari, energia, acqua e igiene, si fosse assicurato un livello demografico sostenibile, si fosse conservata e incrementata la base delle risorse, si fossero orientati i rischi tecnologici e gestionali e, infine, si fosse tenuto conto, nella formulazione delle decisioni, degli aspetti ambientali e economici”.

Dopo quasi vent’anni dalla Conferenza di Stoccolma, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con risoluzione n. 44/228 del 22 dicembre 1989, convocò a Rio de Janeiro, per il mese di giugno del 1992, quella che è stata la più grande conferenza internazionale sull’ambiente per numero di partecipanti: 183 paesi rappresentati da oltre 10.000 delegati ufficiali, 108 tra Capi di Stato e di Governo, 2400 tra rappresentanti di NGO e organizzazioni internazionali.

La conferenza recepì le conclusioni del rapporto Bruntland, dopo intensi lavori che affrontarono il rapporto tra sviluppo economico e ambiente e che produssero tre documenti di natura giuridicamente non vincolante: la dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo, l’Agenda 21 e la Dichiarazione sulle foreste.

L’Agenda 21 ha orientato lo sviluppo sostenibile del nostro pianeta sino al 2015, quando ad essa è subentrata Agenda 2030.

  1. L’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile è un programma d’azione globale adottato all’unanimità dai 193 paesi membri delle Nazioni Unite con la risoluzione 70/1 del 15 settembre del 2015, intitolata “Trasformare il nostro mondo. L’agenda per lo sviluppo sostenibile”.

Essa ha previsto 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (usualmente indicati con l’acronimo SDGs) che i 193 Stati hanno assunto l’impegno di raggiungere entro il 2030, obiettivi articolati in 169 traguardi o targets da raggiungere sul terreno della crescita economica, dell’inclusione sociale e della tutela dell’ambiente.

I 17 obiettivi fanno riferimento alla necessità di sconfiggere la povertà e la fame; di assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età; di fornire un’educazione di qualità, equa e inclusiva; di attuare la parità di genere tra uomo e donna; di garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico sanitarie; di assicurare a tutti l’accesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni; di incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile; di incentivare un’occupazione piena e produttiva e un lavoro dignitoso per tutti; di costituire un’infrastruttura resiliente e di promuovere l’innovazione; di ridurre l’ineguaglianza fra le nazioni e all’interno di esse; di rendere le città e gli insediamenti inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili; di garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo; di promuovere azioni per combattere il cambiamento climatico; di conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile; di proteggere, favorire e sostenere un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre, di gestire sensibilmente le foreste, di contrastare la desertificazione, di arrestare e fra retrocedere il degrado del terreno e fermare la perdita della diversità biologica; di promuovere società pacifiche e inclusive; infine di rafforzare gli strumenti di attuazione e di rinnovare il partenariato mondiale per lo sviluppo sostenibile.

Gli obiettivi su indicati sono riconducibili a cinque aree contraddistinte dalle cinque P: le persone (gli obiettivi da 1 a 5); la prosperità (gli obiettivi da 6 a 12); il pianeta (gli obiettivi da 13 a 15); la pace (l’obiettivo 16); la partnership (l’obiettivo 17).

Il 18 e il 19 settembre 2023, gli Stati che hanno firmato Agenda 2030 si sono riuniti a New York, nella sede delle Nazioni Unite, per fare il punto sullo stato di attuazione dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile.

Il dato sullo stato di attuazione, purtroppo, non è rassicurante sul fatto che tali obiettivi possano effettivamente essere raggiunti entro il 2030.

Più nello specifico, il Sustainable Development Report 2023, redatto da un team di esperti indipendenti delle Nazioni Unite, ha evidenziato piuttosto chiaramente che nessuno degli obiettivi potrà essere raggiunto a livello globale entro quella data.

Solo il 18% dei target dei 17 SDGs sono stati raggiunti e lo saranno ragionevolmente.

Per il 15% dei target si sono addirittura fatti passi indietro, mentre per il restante 67% si può parlare di stasi o di progresso limitato.

Nella classifica dello stato di attuazione dei 17 obiettivi l’Italia è al ventiquattresimo posto.

  1. Lo sviluppo sostenibile nel diritto dell’Unione Europea.

L’Unione Europea ha contribuito in modo determinate alla definizione degli obiettivi di Agenda 2030 e all’attuazione degli stessi, perché la sostenibilità del modello di sviluppo è anche uno dei pilastri sui quali si regge l’Unione.

L’art. 3, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione Europea prevede, infatti, che “L’unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico”.

L’art. 11 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea prevede, a sua volta, che “Le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile”.

Lo statuto unionale in tema di ambiente è, infine, completato dall’art. 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione che fissa i principi che devono ispirare le politiche in materia di ambiente, prevedendo che :

1. La politica dell'Unione in materia ambientale contribuisce a perseguire i seguenti obiettivi:

salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell'ambiente,

protezione della salute umana,

utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali,

promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi dell'ambiente a livello regionale o mondiale e, in particolare, a combattere i cambiamenti climatici.

2. La politica dell'Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell'Unione. Essa è fondata sui principi della pre­cauzione e dell'azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio «chi inquina paga». In tale contesto, le misure di armonizzazione rispondenti ad esigenze di protezione dell'ambiente comportano, nei casi opportuni, una clausola di salvaguardia che autorizza gli Stati membri a prendere, per motivi ambientali di natura non economica, misure provvisorie soggette ad una procedura di controllo dell'Unione.

3. Nel predisporre la sua politica in materia ambientale l'Unione tiene conto:

dei dati scientifici e tecnici disponibili,

delle condizioni dell'ambiente nelle varie regioni dell'Unione,

dei vantaggi e degli oneri che possono derivare dall'azione o dall'assenza di azione,

dello sviluppo socioeconomico dell'Unione nel suo insieme e dello sviluppo equilibrato delle sue singole regioni.

4. Nell'ambito delle rispettive competenze, l'Unione e gli Stati membri collaborano con i paesi terzi e con le competenti organizzazioni internazionali. Le modalità̀ della cooperazione dell'Unione possono formare oggetto di accordi tra questa ed i terzi interessati. Il comma precedente non pregiudica la competenza degli Stati membri a negoziare nelle sedi internazionali e a concludere accordi internazionali.

I principi ispiratori sono, quindi, quello:

d’integrazione, in forza del quale le esigenze di tutela dell’ambiente devono costituire parte integrante ed attiva di qualsivoglia altra politica europea, soprattutto quella avente ad oggetto lo sviluppo economico;

dell’elevato livello di protezione, in forza del quale l’Unione si prefigge, quale obiettivo peculiare della sua azione, quello di realizzare in ciascuno Stato un elevato livello di protezione dell’ambiente;

di precauzione, in forza del quale ciascuno Stato deve predisporre misure di tutela dell’ambiente anche in relazione a quei casi in cui una situazione di rischio per esso è dedotta da una valutazione scientifica anche solo di carattere preliminare purché comunque fondata su dati obiettivi;

di prevenzione, in forza del quale gli Stati membri devono codificare non solo obblighi di ripristino di situazioni ambientali compromesse dall’azione umana ma anche obblighi giuridici di prevenzione, cioè obblighi di agire per prevenire il prodursi di un danno all’ambiente;

della correzione in via prioritaria alla fonte del danno cagionato all’ambiente , in forza del quale, ad esempio, l’Unione Europea spinge gli Stati a smaltire i rifiuti il più vicino possibile al luogo in cui essi sono stati prodotti;

del chi inquina paga, in forza del quale il costo dell’inquinamento e della prevenzione dell’inquinamento deve gravare non sulla collettività ma su colui che quell’inquinamento o quel rischio di inquinamento ha generato.

Ai principi indicati se ne è aggiunto un altro di più recente introduzione, quello del non arrecare un danno significativo all’ambiente, contraddistinto dall’acronimo DNSH (Do not significant harm) , principio introdotto dal Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 giugno 2020 (conosciuto anche come “Regolamento Tassonomia”), relativo all’istituzione di un quadro che favorisce gli investimenti sostenibili e recante la modifica del Regolamento UE 2019/2088.

Si parla di tassonomia delle attività economiche sostenibili per indicare una classificazione delle attività sulla base del loro impatto su sei obiettivi ambientali.

In particolare, in base all’art. 17 del Regolamento Tassonomia, si considera che un'attività economica arrechi un danno significativo:

  1. alla mitigazione dei cambiamenti climatici, se conduce a significative emissioni di gas a effetto serra;

  2. all'adattamento ai cambiamenti climatici, se conduce a un peggioramento degli effetti negativi del clima attuale e del clima futuro previsto sull’attività stessa o sulle persone o sulla natura;

  3. all’uso sostenibile e alla protezione delle acque e delle risorse marine, se l’attività nuoce al buono stato o al buon potenziale ecologico di corpi idrici, comprese le acque di superficie e sotterranee o al buono stato ecologico delle acque marine;

  4. all'economia circolare, compresi la prevenzione e il riciclaggio dei rifiuti, se conduce a inefficienze significative nell’uso dei materiali o nell’uso diretto o indiretto di risorse naturali quali le fonti energetiche non rinnovabili, le materie prime, le risorse idriche e il suolo, in una o più fasi del ciclo di vita dei prodotti, anche in termini di durabilità, riparabilità, possibilità di miglioramento, riutilizzabilità o riciclabilità degli stessi; se l’attività comporta un aumento significativo della produzione, dell’incenerimento o dello smaltimento dei rifiuti, ad eccezione dell’incenerimento di rifiuti pericolosi non riciclabili; se lo smaltimento a lungo termine dei rifiuti può causare un danno significativo e a lungo termine all’ambiente;

  5. alla prevenzione e alla riduzione dell'inquinamento, se comporta un aumento significativo delle emissioni di sostanze inquinanti nell’aria, nell’acqua o nel suolo rispetto alla situazione esistente prima del suo avvio;

  6. alla protezione e al ripristino della biodiversità e degli ecosistemi, se nuoce in misura significativa alla buona condizione e alla resilienza degli stessi o se nuoce allo stato di conservazione degli habitat e delle specie, compresi quelli d’interesse per l'Unione.

  1. Il piano nazionale di ripresa e resilienza (P.N.R.R.).

Il principio del non arrecare un danno significativo all’ambiente ha informato e caratterizzato anche il Piano nazionale di ripresa e di resilienza, denominato “Italia domani”,approvato il 13 luglio 2021 in attuazione del Regolamento (UE) 2021/241 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021, regolamento che ha istituito il dispositivo per la ripresa e la resilienza.

Il dispositivo per la ripresa e la resilienza è stato messo in campo dall’Unione europea per rilanciare l’economia degli Stati membri dell’Unione gravemente compromessa dall’emergenza pandemica e, nel contempo, per gettare le basi di un modello di sviluppo ancor più sostenibile, perché basato sull’inclusione sociale e sulla transizione ecologica e digitale.

Il modello di sviluppo in direzione del quale l’Unione Europea sta muovendo i suoi passi non potrà prescindere dalla necessità che non sia arrecato all’ambiente un danno significativo.

Nessuna attività o norma, quindi, potrà produrre quale effetto quello di ridurre il livello globale di protezione ambientale garantito dal diritto vigente.

L’art. 18 del citato Regolamento prevede espressamente che lo Stato membro che desidera ricevere un contributo finanziario in conformità all’art. 12 del medesimo regolamento deve presentare alla Commissione un piano per la ripresa e la resilienza “debitamente motivato e giustificato”, che deve presentare tutti gli elementi indicati al comma 4 del medesimo art. 18 e, in particolare, la spiegazione del modo in cui il piano per la ripresa e la resilienza garantisce che nessuna misura per l’attuazione delle riforme e degli investimenti in esso inclusi arrechi un danno significativo agli obiettivi ambientali ai sensi dell’art. 17 del regolamento (UE) 2020/852.

Grazie ai fondi del dispositivo gli Stati membri dell’Unione possono finanziare riforme e investimenti funzionali all’attuazione di un moderno modello di sviluppo.

Ciascuno Stato membro è onerato dell’individuazione delle riforme e degli investimenti necessari a tal fine in un apposito piano, che, per l’Italia, attualmente, prevede circa 194 miliardi di euro (dei quali poco più di 122 in prestiti e poco meno di 72 in sovvenzioni) e comprende 66 riforme e 150 investimenti.

Il Piano nazionale traccia in modo chiaro e univoco l’identikit del nuovo modello di sviluppo sostenibile (pag. 14): “ Lo sforzo di rilancio dell’Italia delineato dal presente Piano si sviluppa intorno a tre assi strategici condivisi a livello europeo: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica, inclusione sociale.

La digitalizzazione e l’innovazione di processi, prodotti e servizi rappresentano un fattore determinante della trasformazione del Paese e devono caratterizzare ogni politica di riforma del Piano. L’Italia ha accumulato un considerevole ritardo in questo campo, sia nelle competenze dei cittadini, sia nell’adozione delle tecnologie digitali nel sistema produttivo e nei servizi pubblici. Recuperare questo deficit e promuovere gli investimenti in tecnologie, infrastrutture e processi digitali, è essenziale per migliorare la competitività̀ italiana ed europea; favorire l’emergere di strategie di diversificazione della produzione e migliorare l’adattabilità̀ ai cambiamenti dei mercati.

La transizione ecologica, come indicato dall’Agenda 2030 dell’ONU e dai nuovi obiettivi europei per il 2030, è alla base del nuovo modello di sviluppo italiano ed europeo. Intervenire per ridurre le emissioni inquinanti, per prevenire e contrastare il dissesto del territorio, per minimizzare l’impatto delle attività produttive sull’ambiente è necessario per migliorare la qualità della vita e la sicurezza ambientale, oltre che per lasciare un Paese più̀ verde e un'economia più sostenibile alle generazioni future. Anche la transizione ecologica può costituire un importante fattore per accrescere la competitività̀ del nostro sistema produttivo, incentivare l’avvio di attività imprenditoriali nuove e ad alto valore aggiunto e favorire la creazione di occupazione stabile.

Il terzo asse strategico è l’inclusione sociale. Garantire una piena inclusione sociale è fondamentale per migliorare la coesione territoriale, aiutare la crescita dell’economia e superare diseguaglianze profonde spesso accentuate dalla pandemia. Le tre priorità principali sono la parità di genere, la protezione e la valorizzazione dei giovani e il superamento dei divari territoriali. L’ empowerment femminile e il contrasto alle discriminazioni di genere, l’accrescimento delle competenze, della capacità e delle prospettive occupazionali dei giovani, il riequilibrio territoriale e lo sviluppo del Mezzogiorno non sono univocamente affidati a singoli interventi, ma perseguiti quali obiettivi trasversali in tutte le componenti del P.N.R.R.”

  1. L’ambiente da materia a valore costituzionale primario: la revisione degli artt. 9 e 41 della Costituzione italiana.

Ha concorso a dare attuazione agli impegni assunti dall’Italia in sede sovranazionale e unionale anche la Legge Costituzionale dell’11 febbraio 2022, n. 1, entrata in vigore il successivo 9 marzo.

La legge citata ha modificato la Costituzione italiana, entrata in vigore l’1 gennaio 1948, in un’epoca nella quale si era ben lontani dall’emersione della tutela dell’ambiente come valore di rilevanza strategica, emersione che, come scritto, rimanda agli inizi degli anni 70.

Ad esser stati incisi dalla revisione sono stati gli artt. 9 e 41.

Il nuovo comma terzo dell’art. 9 prevede, infatti, che la Repubblica italiana tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni, nonché prevede che sia una legge dello Stato a disciplinare i modi e le forme di tutela degli animali.

Ad essere modificato è stato anche il comma secondo dell’art. 41, che, nella nuova formulazione, prevede che l’iniziativa economica privata, seppur libera, non possa svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

Ad essere inciso è stato, infine, anche il comma terzo del citato art. 41, che, nella nuova formulazione, prevede che sia la Legge a determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali.

Alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (ma non anche alla biodiversità) fa riferimento la Costituzione anche nell’art. 117, comma secondo, lett. s), così come modificato dalla Legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che ha incluso tale materia tra quelle per le quali lo Stato è titolare del potere di legiferare in via esclusiva.

Anche la dimensione ambientale del modello di sviluppo sostenibile tracciato da Agenda 2030 è stata elevata, quindi, a valore di rango costituzionale, valore già attribuito alla dimensione sociale di quel modello, tra gli altri, dal principio di uguaglianza formale e sostanziale previsto dall’art. 3 e a quella economica, tra gli altri, dal principio della libertà dell’iniziativa economica privata previsto dal comma primo del citato art. 41.

Se vuol provarsi a cogliere il senso profondo della Legge Costituzionale n. 1 del 2022, lo si può individuare proprio nel fatto che, a seguito della sua entrata in vigore, l’ambiente non è più solo una materia oggetto di potestà legislativa esclusiva dello Stato ma, anche e soprattutto, un espresso valore costituzionale di rango primario.

La novellata formulazione dell’art. 41, comma secondo, della Costituzione pare delineare una chiara gerarchia di valori, che vede collocato al livello più elevato, quello di valore costituzionale fondamentale, la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi al pari della salute e della dignità umana e, a un livello inferiore, la libertà d’iniziativa economica privata, con la conseguenza che, in caso di conflitto tra gli uni e l’altra, sarebbe destinata ad essere recessiva proprio la libertà prevista dal citato art. 41.

  1. La normativa penale a tutela dell’ambiente, degli ecosistemi e della biodiversità.

Il magistrato italiano è oggi dotato di strumenti moderni e efficaci per concorrere all’attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile, in particolare degli obiettivi nn. 14 e 15 di Agenda 2030, dell’obiettivo, cioè, di conservare e utilizzare in modo sostenibile gli oceani, i mari e le risorse marine (il n. 14) e di quello di proteggere, ripristinare e promuovere l’uso sostenibile degli ecosistemi terrestri, gestire in modo sostenibile le foreste, contrastare la desertificazione, arrestare e invertire il degrado dei suoli e fermare la perdita della biodiversità (il n. 15).

Sin dal 2015, infatti, l’Italia si è dotata di una moderna e efficace normativa penale a tutela dell’ambiente, degli ecosistemi e della biodiversità, introdotta con la Legge 22 maggio 2015, n. 68, entrata in vigore il successivo 29 maggio.

La Legge n. 68 ha introdotto nel codice penale il Titolo VI bis, dedicato ai delitti contro l’ambiente, che prevede pene molto severe per colui che compromette o deteriora l’ambiente, gli ecosistemi e la biodiversità.

Prima del 2015 l’ambiente godeva di protezione sul versante penale, ma essa era rimasta al di fuori del codice penale e, soprattutto, era stata affidata ad una molteplicità di reati contravvenzionali, di reati, cioè, puniti meno severamente dei delitti.

La tutela penale dell’ambiente è stata costruita su tre pilastri.

Il primo è costituito dalla tutela penale della funzione amministrativa di controllo sull’osservanza da parte delle persone e delle imprese delle norme a tutela dell’ambiente, degli ecosistemi e della biodiversità.

Il delitto d’impedimento del controllo, previsto dall’art. 452 septies del c.p., infatti, punisce, con la sanzione penale della reclusione da sei mesi a tre anni, il comportamento di colui che impedisce, intralcia o elude l’attività di vigilanza e di controllo ambientale ovvero ne compromette gli esiti.

Il delitto si configura indipendentemente dal fatto che la compromissione o il deterioramento dell’ambiente si siano in concreto realizzati, perché la tutela penale della funzione di controllo obbedisce proprio alla finalità di prevenire tale compromissione o deterioramento.

Il secondo pilastro è costituito dal delitto d’inquinamento ambientale e da quello di disastro ambientale.

Il primo è previsto dagli artt. 452 bis, 452 ter e 452 quinquies del codice penale, che puniscono severamente il comportamento della persona e dell’impresa che si rende responsabile di una compromissione o di un deterioramento significativi e misurabili delle acque, dell’aria, del suolo, del sottosuolo, degli ecosistemi, della biodiversità, anche agraria, della flora e della fauna.

Il delitto d’inquinamento ambientale è punito sia a titolo di dolo sia a titolo di colpa e nei casi più gravi, quando, cioè, dalla sua commissione derivino la lesione e/o la morte di più persone, è previsto che la sanzione penale della reclusione possa arrivare sino ad anni venti.

Nel caso in cui il danno prodotto all’ambiente, all’ecosistema e alla biodiversità sia stato irreversibile - per aver compromesso la capacità di resilienza del bene ambientale e, cioè, la capacità di esso di assorbire l’inquinamento e, nonostante esso, di rigenerarsi e ritornare allo status quo ante - o nel caso in cui, pur non essendo irreversibile, tale danno possa essere eliminato solo in condizioni di particolare onerosità e con il ricorso a provvedimenti eccezionali, l’autore di esso risponde del più grave reato di disastro ambientale previsto dall’art. 452 quater del c.p., per il quale il legislatore ha previsto, nei casi più gravi, una sanzione penale che può superare il limite dei venti anni di reclusione.

Il terzo pilastro è costituito dall’obbligo per colui il quale ha compromesso o deteriorato l’ambiente, gli ecosistemi o la biodiversità agraria di ripristinare lo stato dei luoghi: il giudice che ha accertato l’inquinamento, infatti, ordina all’autore di esso il ripristino dello stato dei luoghi e, ove ciò non sia tecnicamente possibile, il recupero degli stessi.

Ove l’ordine del giudice non sia eseguito, il responsabile dell’inquinamento risponde del reato di omessa bonifica previsto dall’art. 452 terdecies del codice penale, punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni e con la multa da euro 20.000 a euro 80.000.

Dei delitti d’inquinamento e di disastro ambientale risponde, ex art. 25 undecies del Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231, anche l’impresa nell’interesse o a vantaggio della quale i reati sono stati commessi.

Se non presenta particolare complessità la configurazione del delitto di inquinamento ambientale in relazione a beni quali le acque, l’aria, il suolo e il sottosuolo, più complesso è riempire di significato il riferimento della norma agli ecosistemi.

La Legge 22 maggio 2015, n. 68, non definisce il significato del termine ecosistema e, soprattutto, facendo uso dell’articolo indeterminativo “un”, pare chiaramente lasciar intendere che di ecosistemi ne ritiene esistenti più di uno.

Una definizione del termine ecosistema non si rinviene, tra l’altro, in altra fonte normativa primaria (di ecosistema si legge una definizione nell’allegato 1 del D.P.C.M del 27 dicembre del 1988, in tema di norme tecniche per la redazione degli studi di impatto ambientale, ove esso è definito come il “complesso di componenti e fattori fisici, chimici e biologici tra loro interagenti ed interdipendenti, che formano un sistema unitario ed identificabile per propria struttura, funzionamento ed evoluzione temporale), mentre sul tema può annoverarsi, per quanto di conoscenza, un solo precedente della Corte di Cassazione, la sentenza della Sez. III, n. 3147, del 6 aprile del 1993, che a quel termine ha attribuito il significato di “ ambiente biologico naturale, comprensivo di tutta la vita vegetale e animale ed anche degli equilibri tipici di un habitat vivente”.

Quelle richiamate sono comunque definizioni equivalenti di ecosistema, che rimandano alla definizione che di esso da l’ecologia, la quale lo definisce come “una porzione di biosfera (ovvero l’insieme della idrosfera, atmosfera e litosfera delimitata naturalmente e, cioè, il c.d. ecotopo o componente abiotica) in cui abitano gli organismi animali e vegetali che interagiscono tra di loro e con l’ambiente che li circonda (e, cioè, la c.d. biocenosi o componente biotica)”,termine coniato dall’ecologo inglese A. Tansley nel 1935.

La necessità di riempire di contenuto il termine ecosistema facendo ricorso alla comune accezione è stata ribadita dalla Suprema Corte di Cassazione all’indomani dell’entrata in vigore della Legge n. 68.

L’ecosistema, secondo l’ecologia, è l’unita fondamentale dei sistemi ecologici e ne costituisce la prima e più elementare cellula, che lascia spazio, al livello immediatamente più elevato, al c.d. “bioma”, che è una struttura formata da più ecosistemi, e, infine, alla biosfera, che, a sua volta, è una struttura alla cui formazione concorrono più biomi.

La fattispecie d’inquinamento ambientale presidia, quindi, ogni singolo ecosistema, senza distinzioni di sorta tra le diverse tipologie di ecosistemi esistenti e, quindi, presidia sia quelli naturali (e, cioè, gli ambienti che si sviluppano in maniera naturale lungo una successione ecologica) sia quelli artificiali (e, cioè, quelli derivanti da modificazioni antropiche).

Nonostante le diversità e peculiarità che possono caratterizzare e distinguere tra di loro i molteplici ecosistemi, l’ecologia è piuttosto concorde nel ritenere sussistenti più tratti comuni nelle cellule di base del sistema ecologico e, nella specie, il loro essere sistemi aperti, interconnessi e stabili.

L’ecosistema è aperto perché scambia con l’esterno flussi di energia, materia ed informazione; è interconnesso perché interagisce con altri ecosistemi ed è stabile perché naturalmente dotato della capacità di autoregolazione , della capacità, cioè, di tornare ad uno stato di equilibrio dopo un disturbo temporaneo, in un lasso di tempo e con una velocità (la c.d. resilienza) che variano a seconda della complessità del singolo ecosistema e della natura e della forza del fattore di perturbazione.

  1. La definizione di sviluppo sostenibile nella legislazione italiana.

Il legislatore italiano non si è sottratto alla responsabilità di prendere posizione sul significato della sostenibilità e lo ha fatto nel Decreto Legislativo del 3 aprile 2006, n.152, che costituisce il secondo pilastro della normativa italiana a tutela dell’ambiente.

L’art. 3 quater del citato Decreto prevede, infatti, nel solco del Rapporto Bruntland del 1987, al comma primo che “Ogni attività umana giuridicamente rilevante ai sensi del presente codice deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile, al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future”, mentre, al comma secondo, che “anche l’attività della pubblica amministrazione deve essere finalizzata a consentire la migliore attuazione possibile del principio dello sviluppo sostenibile, per cui, nell’ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati connotata da discrezionalità, gli interessi alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale devono essere di prioritaria considerazione”.

  1. La revisione della direttiva 2008/99/CE: la delibera del Parlamento Europeo del 27 febbraio 2024.

Con l’entrata in vigore della Legge n. 68 del 2015, l’Italia ha dato attuazione alla direttiva 2008/99/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008, sulla tutela penale dell’ambiente, direttiva che era il risultato di plurime consapevolezze in capo al legislatore unionale.

L’Unione europea, infatti, era addivenuta all’approvazione della direttiva 2008/99 in ragione della preoccupazione generata dall’aumento dei crimini ambientali e dalle conseguenze spesso irreversibili da essi prodotti, conseguenze che sempre più spesso si erano proiettate al di là delle frontiere degli Stati nei quali tali reati erano stati commessi.

L’esperienza maturata dagli Stati dell’Unione era piuttosto univoca nel denunciare che i sistemi sanzionatori vigenti in ciascuno di essi non si erano rivelati sufficienti rispetto al fine di garantire la piena osservanza della normativa in materia di tutela dell’ambiente.

Tale osservanza richiedeva, quindi, la necessità di essere rafforzata mediante il ricorso alla sanzione penale, indice di una riprovazione sociale di natura qualitativamente diversa rispetto alla sanzione amministrativa o all’obbligo del risarcimento del danno.

Un’efficace tutela dell’ambiente, quindi, esigeva sanzioni maggiormente dissuasive per le attività che avessero danneggiato quest’ultimo, da intendersi quale la summa della qualità dell’aria, compresa la stratosfera, del suolo, delle acque, della fauna e della flora, compresa la conservazione della specie.

L’Italia, al pari degli altri paesi membri dell’Unione, potrebbe essere chiamata a fare un ulteriore passo in avanti nella direzione di una legislazione penale ancor più efficace per il contrasto al crimine ambientale.

Il 15 dicembre 2021, infatti, la Commissione Europea ha approvato la proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla tutela penale dell’ambiente, destinata a sostituire la direttiva 2008/99/CE.

Nell’ottobre del 2020 la Commissione ha reso pubblico uno studio sullo stato di attuazione della direttiva 2008/99, giungendo a conclusioni allarmanti.

Nello studio si è evidenziato che il numero dei crimini ambientali indagati con successo nei dieci anni precedenti ad esso era stato molto basso, che le sanzioni penali introdotte dai singoli Stati non si erano rivelate adeguatamente dissuasive perché eccessivamente blande e che la cooperazione transfrontaliera per il contrasto a tali crimini non era stata attuata in modo sistematico.

Di qui la necessità di intervenire per rivedere la direttiva 2008/99 e formulare una proposta di modifica di essa che proiettasse il suo raggio d’azione su sei versanti: potenziare l’efficacia delle indagini e dell’azione penale; garantire tipi e livelli di sanzioni efficaci, dissuasivi e proporzionati per la criminalità ambientale; promuovere le indagini e l’azione penale transfrontaliere; migliorare il processo decisionale informato in materia di criminalità ambientale tramite una migliore raccolta e diffusione dei dati statistici; migliorare l’efficacia operativa delle catene nazionali di contrasto per promuovere indagini, azioni penali e sanzioni.

La Commissione ha individuato la necessità di introdurre sanzioni penali per una molteplicità di fatti non contemplati dalla precedente direttiva del 2008, quali, ad esempio, l’immissione sul mercato di prodotti che provocano danni rilevanti all’ambiente, l’estrazione illegale di acqua e la grave elusione degli obblighi di effettuare una valutazione dell’impatto ambientale.

I crimini ambientali commessi dalle persone e dalle imprese dovranno essere puniti, a seconda della durata, della gravità e della riparabilità del danno, con pene fino a dieci anni di reclusione per le persone e con multe, per le imprese, sino al 5% del loro fatturato annuale mondiale o, in alternativa, dell’importo di 24 o 40 milioni di euro a seconda del crimine ambientale accertato.

Il 27 febbraio 2024 il Parlamento europeo ha adottato, a larghissima maggioranza (con 499 voti a favore, 110 contrari e 23 astensioni), la citata proposta di direttiva, che entrerà in vigore il ventesimo giorno successivo alla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea e che dovrà essere recepita dagli Stati membri nei due anni successivi.

  1. L’orientamento della Corte Costituzionale in tema di sviluppo sostenibile, tutela dell’ambiente e crescita economica.

Come si è scritto, la Costituzione italiana è entrata in vigore l’1 gennaio del 1948 e, quindi, in un’epoca nella quale si era ben lontani dalla nascita dell’ambientalismo moderno.

L’esordio in Costituzione della tutela dell’ambiente, degli ecosistemi e della biodiversità come valore costituzionale primario è avvenuto dopo oltre settant’anni dalla sua entrata in vigore.

In questi oltre settanta anni, però, la sensibilità del Giudice italiano delle leggi aveva già instradato il bene ambiente in quel percorso interpretativo che avrebbe mutato l’essenza di esso, facendolo divenire da mera materia di legislazione a valore di rango costituzionale.

Tale percorso ha avuto la sua genesi nel 1987, nello stesso anno, cioè, nel quale il rapporto Bruntland aveva riempito di un significato preciso il termine “sostenibilità”, assegnandoli una dimensione intimamente connessa con la necessità che le generazioni presenti avessero fatto un uso delle risorse del nostro pianeta rivolgendo il loro pensiero anche a quelle future.

Nella motivazione della sentenza n. 210 del 28 maggio 1987 della Corte Costituzionale, si legge, in relazione ai giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 5, 6, 7, 12, comma primo, lett. c), 13 e 18, commi quarto e quinto della legge 8 luglio 1986 n. 349, che aveva istituito il Ministero dell'ambiente nonché della stessa legge nella sua interezza in toto, promossi dalle Province autonome di Bolzano e di Trento, che: “Va riconosciuto lo sforzo in atto di dare un riconoscimento specifico alla salvaguardia dell'ambiente come diritto fondamentale della persona e interesse fondamentale della collettività e di creare istituti giuridici per la sua protezione. Si tende, cioè, ad una concezione unitaria del bene ambientale comprensiva di tutte le risorse naturali e culturali. Esso comprende la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni naturali (aria, acque, suolo e territorio in tutte le sue componenti), l’esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso vivono allo stato naturale ed in definitiva la persona umana in tutte le sue estrinsecazioni. Ne deriva la repressione del danno ambientale cioè del pregiudizio arrecato, da qualsiasi attività volontaria o colposa, alla persona, agli animali, alle piante e alle risorse naturali (acqua, aria, suolo, mare), che costituisce offesa al diritto che vanta ogni cittadino individualmente e collettivamente. Trattasi di valori che in sostanza la Costituzione prevede e garantisce (artt. 9 e 32 Cost.), alla stregua dei quali le norme di previsione abbisognano di una sempre più moderna interpretazione”.

Nel solco di tale orientamento si è posta anche la sentenza n. 536 del 20 dicembre del 2002 del Giudice delle leggi, nel giudizio di legittimità costituzionale della Legge della Regione Sardegna del 7 febbraio 2002, n. 5, recante “modifica dell’art. 49 della legge regionale 29 luglio 1998, n. 23, legge a sua volta recante norme per la protezione della fauna selvatica e per l’esercizio della caccia in Sardegna, promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Nella motivazione la Corte ha scritto che: “ L’art. 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione esprime un’esigenza unitaria per ciò che concerne la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ponendo un limite agli interventi a livello regionale che possano pregiudicare gli equilibri ambientali. Come già affermato da questa Corte, la tutela dell’ambiente non può ritenersi proprio “una materia”, essendo invece l’ambiente da considerarsi come un valore costituzionalmente protetto che non esclude la titolarità in capo alle regioni di competenze legislative su materie (governo del territorio e tutela della salute) per le quali quel valore costituzionale assume rilievo….E in funzione di quel valore, lo Stato può dettare standard di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale anche incidenti sulle competenze legislative regionali ex art. 117 della Costituzione…”…..

Tale orientamento è stato, infine, ribadito dalla sentenza n. 126 dell’1 giugno 2016 della Corte Costituzionale nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 311, comma 1, del Decreto legislativo 3 aprile 206, n. 152, promosso dal Tribunale di Lanusei.

Nella motivazione il Giudice ha scritto che: “ E’ noto che, sebbene il testo originario della Costituzione non contenesse l’espressione ambiente, né disposizioni finalizzate a proteggere l’ecosistema, questa Corte con numerose sentenze aveva riconosciuto (sentenza n. 247 del 1974) la preminente rilevanza accordata nella Costituzione alla salvaguardia della salute dell’uomo (art. 32) e alla protezione dell’ambiente in cui questi vive (art. 9, secondo comma), quali valori costituzionali primari (sentenza n. 210 del 1987). E la giurisprudenza successiva aveva poi superato la ricostruzione in termini solo finalistici, affermando (sentenza n. 641 del 1987) che “ “l’ambiente costituiva un bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di tutela; ma tutte, nell’insieme sono riconducibili ad unità. Il fatto che l’ambiente possa essere fruibile in varie forme e differenti modi, così come possa essere oggetto di varie norme che assicurano la tutela dei vari profili in cui si estrinseca, non fa venir meno e non intacca la sua natura e la sua sostanza di bene unitario che l’ordinamento prende in considerazione””.

Il riconoscimento dell’esistenza di “un bene immateriale unitario” non è fine a se stesso, ma funzionale all’affermazione della esigenza sempre più avvertita della uniformità della tutela, uniformità che solo lo Stato può garantire, senza peraltro escludere che anche altre istituzioni potessero e dovessero farsi carico degli indubbi interessi delle comunità che direttamente fruiscono del bene.

L’espressa individuazione, a seguito della riforma del Titolo V, e della materia “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema”, all’art. 117, secondo comma, lett. s), della Costituzione, quale competenza esclusiva dello Stato, fotografa, dunque, una realtà già riconosciuta dalla giurisprudenza come desumibile dal complesso dei valori e dei principi costituzionali”.

Se è vero che, anche prima della revisione costituzionale degli artt. 9 e 41, l’ambiente, nella sua dimensione unitaria e complessiva, aveva ricevuto il riconoscimento di valore di rango costituzionale, è parimenti vero che l’esordio in Costituzione della tutela dell’ambiente, degli ecosistemi e della biodiversità ha una pluralità di ragioni per essere positivamente valutato.

La prima è che la posizione di primazia costituzionale riconosciuta a tale valore “mette in sicurezza” un modello di sviluppo nel quale la dimensione ambientale acquisisce lo stesso peso di quella economica e sociale, vincolando, quindi, il legislatore nazionale a proseguire il percorso, solo in minima parte intrapreso, nella direzione di un equilibrio tra le esigenze delle generazioni presenti e le esigenze di quelle future.

Tale posizione di primazia è, dopo la revisione costituzionale del 2022, non più solo il risultato di un percorso interpretativo del Giudice delle leggi ma il prodotto di una precisa scelta valoriale del legislatore costituzionale, scelta destinata ad orientare, quindi, non solo il legislatore ordinario ma anche il Giudice delle leggi medesimo, ponendo al riparo, quindi, il moderno modello di sviluppo sostenibile dagli effetti di eventuali oscillazioni giurisprudenziali, come quella che pare aver animato la sentenza n. 85 del 9 maggio 2013 della Corte Costituzionale pronunciata in relazione alla vicenda dell’acciaieria ILVA di Taranto.

Nella motivazione della sentenza, infatti, la Corte ha testualmente argomentato che la ratio delle norme delle quali era stata denunciata l’incostituzionalità dal giudice del Tribunale di Taranto consisteva: “ nella realizzazione di un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art,. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali e il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tale senso. Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate e in potenziale conflitto tra loto” (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona. Per le ragioni esposte, non si può condividere l’assunto del rimettente giudice per le indagini preliminari, secondo cui l’aggettivo “fondamentale”, contenuto nell’art. 32 Cost., sarebbe rivelatore di un “carattere preminente” del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona. Né la definizione data da questa Corte dell’ambiente e della salute come “valori primari” (sentenza n. 365 del 1993, citata dal rimettente) implica una rigida gerarchia tra diritti fondamentali. La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come primari dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificasti ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale”.

  1. Considerazioni conclusive.

E’ passato più di mezzo secolo da quando, nell’aprile del 1968, Aurelio PECCEI fondò, unitamente a trenta tra economisti, tecnici e scienziati, il Club di Roma, riunendoli a Roma nell’Accademia dei Lincei alla Villa Farnesina.

E’ passato più di mezzo secolo da quando, nel marzo del 1972, fu reso pubblico, presso lo Smithsonian Institute di Washington, il rapporto denominato “I limiti della crescita” ( Limits to Grouth).

L’idea posta alla base delle due iniziative era la medesima e, cioè, che la crescita incontrollata della popolazione e della produzione industriale potesse, in un arco di tempo non troppo ampio, contrapporre le generazioni presenti a quelle future, lasciando alle seconde - non di più ma - molto di meno di ciò che avevano trovato le prime.

Quell’idea, secondo la quale non vi può essere sostenibilità dello sviluppo lasciando indietro i più e lasciando a chi ci segue molto di meno di ciò che ha trovato chi è venuto prima, si è rivelata l’anima di un modello di sviluppo moderno, anche perché socialmente inclusivo e verde.

Quell’idea è stata anche il riflesso di una presa di coscienza e di un’assunzione di responsabilità, perché, mutuando le parole di Robert SWAN, esploratore, fondatore dell’associazione 2041 che si impegna per la protezione dell’Antartide, “ la più grande minaccia per il nostro pianeta è la convinzione che lo salverà qualcun altro”.

San Paolo del Brasile, 22 marzo 2024.

GIUSEPPE DE NOZZA