Cass. Sez. VI sent. 19135 del 7 maggio 2009 (ud. 2 aprile 2009)
Pres. De Roberto Est. Citterio Ric. Palascino
Polizia Giudiziaria. Revoca comandante polizia municipale e abuso d’ufficio
In relazione all’abuso d’ufficio commesso da un Sindaco nel revocare, per mero spirito di ritorsione, al comandante della locale polizia municipale l’incarico di dirigente del settore della polizia locale e del commercio, la Corte ha stabilito che, anche dopo la privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, non è mutata la natura pubblicistica della funzione svolta e dei poteri esercitati dai dirigenti amministrativi e, con essa, la qualifica di pubblico ufficiale rilevante ai fini dell’art. 357 c.p. (fonte Corte di cassazione)
1. Il 4 dicembre 2008 la Corte d’appello di Caltanissetta ha confermato la condanna per abuso d’ufficio inflitta dalla sentenza del Tribunale di Enna in data 4 ottobre 2005 a PALASCINO LUIGINO, con le connesse statuizioni di natura civile in favore di DI GREGORIO GIOVANNA. Secondo l’imputazione nella qualità di sindaco del Comune di Pietraperzia con provvedimento del 15 ottobre 2001 aveva revocato alla DI GREGORIO, comandante della polizia municipale, l’incarico di dirigente del settore Commercio, Annona e Polizia locale, in violazione degli artt. 21 d.lgs. 165/2001, 109 d.lgs. 267/00 e 22 del CCNL del 14 novembre 1998, intenzionalmente recandole danno e per mero spirito di ritorsione, facendo valere generiche ragioni di sfiducia irrilevanti e comunque riferite all’attività da lei posta in essere quale comandante della polizia municipale e non nella veste di dirigente di quel settore.
Dato conto dei motivi anche nuovi dedotti dal PALASCINO, la Corte nissena li disattendeva argomentando:
- anche dopo la privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti gli organi rappresentativi e di vertice conservavano la qualifica pubblicistica e perseguivano finalità pubbliche, e l’utilizzazione da parte del legislatore anche di strumenti privatistici per la vita ed attività dell’ente — specialmente con riferimento al rapporto di lavoro — non determinava la perdita dei caratteri e poteri connessi alla natura di rappresentanza dei pubblici interessi di una determinata area territoriale;
- con la revoca in questione l’organo di vertice dell’amministrazione aveva autoritativamente disposto la rimozione di un dirigente cui era stato affidato un incarico determinato, così incidendo concretamente sull’organizzazione e gestione di un pubblico servizio e compiendo attività certamente riferibili alla pubblica funzione e non solo limitate all’aspetto meramente privatistico del rapporto di lavoro tra ente e dipendenti; interpretazione che la Corte distrettuale affermava condivisa dalla sentenza di questa Sezione 15043/2007, Colazzo;
— la revoca doveva ritenersi illegittima per le violazioni di norme di legge argomentate dal Tribunale, e in definitiva perché era intervenuta al di fuori dei casi tassativi consentiti, non risultando omesse attività del settore cui la DI GREGORIO era stata preposta come dirigente o — sempre in quel settore — da lei compiuti atti gravemente lesivi del rapporto di fiducia;
- tale revoca era quindi intervenuta in assenza di alcuna valutazione dei risultati e dell’operato della medesima DI GREGORIO nel settore, e in definitiva per motivi che invece riguardavano la diversa sua attività quale comandante della polizia municipale;
- quanto all’elemento soggettivo, era palese nel caso di specie l’intento ritorsivo, risultando dalla mera lettura del provvedimento, e dalla dura contestazione dell’operato della DI GREGORIO lì contenuta, l’effettivo interesse punitivo che, solo, aveva determinato l’atto; infatti, e come già argomentato dal Tribunale, non sussisteva nesso tra gli atti addebitati — alcuni oltre che legittimi palesemente dovuti, come la segnalazione al pubblico ministero circa l’irregolarità di antenne posizionate in terreno cui era interessato il figlio del sindaco — e l’incarico dirigenziale, afferente aspetti dell’amministrazione del tutto differenti.
2. Ricorrono per cassazione con autonomi atti l’avv. Calogero Vinci, difensore del PALASCINO, e il medesimo imputato.
2.1 Con primo motivo il difensore denunzia violazione dell’art. 606 lettere B ed E c.p.p. in relazione all’art. 323 c.p. con riferimento agli artt. 357 e 358 c.p. e 5.2 d.lgs. 165/2001.
Deduce che ormai non sarebbe sufficiente la qualità di sindaco per qualificarlo, in relazione ad ogni sua condotta, quale pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, essendo parte dell’attività dell’Ente non ascrivibile alla sfera pubblica: questa sarebbe ora determinabile solo per la positiva disciplina da norme di diritto pubblico. In particolare, secondo il ricorrente alla data del fatto (15 ottobre 2001) dal combinato disposto degli artt. 2, 5.2 e 19.2 del d.lgs. 165/2001 si evinceva che il rapporto di lavoro della dirigenza pubblica sarebbe stato collocato nell’area di diritto comune, scaturendo i reciproci effetti giuridici dal contratto privato di attribuzione dell’incarico ed essendo state le controversie del rapporto dirigenziale attribuite al giudice ordinario. In definitiva, la cd privatizzazione del pubblico impiego avrebbe comportato l’attribuzione di ogni atto di gestione del rapporto dirigenziale — compresa la revoca — al fuori di una potestà amministrativa, configurando l’Ente pubblico quale privato datore di lavoro, quindi parte e non autorità, che agisce ed opera con strumenti di diritto privato e comune e non con provvedimenti amministrativi.
Da qui, per il ricorrente, l’erroneità della tesi della Corte nissena secondo cui la rimozione del dirigente dal servizio sarebbe atto riferibile alla funzione pubblica perché idoneo ad incidere in concreto sull’organizzazione e gestione di un pubblico servizio: la revoca avrebbe invece inciso solo sul rapporto di natura privatistica tra amministrazione e dirigente (altrimenti facendosi in realtà rientrare ogni atto di gestione nella sfera pubblica), non rilevando i differenti principi giurisprudenziali affermati da questa Sezione nella sentenza Colazzo, che aveva definito fattispecie diversa in cui si verteva in materia di rapporto di pubblico impiego a tempo indeterminato.
In definitiva, i singoli atti di disposizione del rapporto di lavoro sarebbero manifestazione di autonomia negoziale e non atti finalisticamente orientati alla realizzazione dì pubblici interessi, mentre i principi di cui all’art. 97 Cost. rileverebbero solo con riferimento al risultato dell’attività complessiva, o di sue singole fasi intermedie.
La revoca dell’incarico, dunque, sarebbe assimilabile al licenziamento senza giusta causa, espressione di autonomia negoziale e non di esercizio di funzione pubblica o di potere di autotutela. E significativa in tal senso sarebbero sia le sentenze di questa Sezione 13511/2005 (rectius 2006) e 5026/2009, sia le pronunce con cui le Sezioni unite civili negano che la natura pubblica del datore di lavoro possa valere a rendere pubblicistici i poteri discrezionali esercitati nell’attività di gestione.
Con secondo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 606.1 lett. B ed E c.p.p., per erronea applicazione dell’art. 323 c.p. con riferimento agli artt. 21 d.lgs. 165/2001, 109 d.lgs. 267/2000 e 22 CCNL, perché comunque non sussisterebbe la contestata violazione di legge. Premesse l’assenza di alcuna stabilità o inamovibilità quale conseguenza della nomina dirigenziale, nonché la tipizzazione dei casi di revoca e la distinzione tra recesso per responsabilità disciplinare e recesso per responsabilità dirigenziale, secondo il ricorrente la determinazione 39 del 15 ottobre 2001 e l’esame dibattimentale della persona offesa comproverebbero:
- essersi trattato di un caso di revoca per responsabilità disciplinare, per le tre occasioni che avrebbero costituito condotte cli grave lesione del dovere di lealtà: le tendenziosamente inesatte informazioni per l’installazione di alcune antenne di telefonia e le due indebite rivelazioni a esponenti dell’opposizione (la richiesta di potenziamento dell’illuminazione in contrada Serre e la nota riservata inviata dal sindaco alla De Gregorio);
- essere state seguite le procedure tese a garantire il contraddittorio, ignorate dalla dipendente.
Avrebbe pertanto errato la Corte di merito a richiamare la tematica della valutazione dei risultati, perché sarebbe “incontestabile” che l’atto di revoca venne motivato nell’ambito della responsabilità disciplinare. E poiché secondo l’impostazione accusatoria recepita dai giudici del merito la revoca sarebbe stata determinata da ‘palese intento ritorsivo’, la prospettata illegittimità costituirebbe ipotesi non di violazione di legge o regolamentare, bensì di eccesso di potere per sviamento delle funzioni, non rilevante per il delitto ex art. 323 c.p.. In ogni caso la preposizione al settore della polizia locale non poteva che comprendere anche l’attività svolta nella polizia municipale quale comandante.
Con terzo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 597.3 c.p.p. con riferimento all’art. 183.2 c.p., perché la Corte distrettuale avrebbe sostituito alla sospensione condizionale della pena l’indulto delle pene stesse, con aggravamento sostanziale della sanzione e così violando il divieto di reformatio in peius.
2.2 Nel suo ricorso personale il PALASCINO con primo motivo denuncia violazione dell’art. 323 c.p. in relazione ai d.lgs. 165/200 e 267/00 nonché al CCNL del 14 novembre 1998. Richiamando anch’egli il precedente di questa Sezione 13511/2005 (2006), deduce che a seguito della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego eventuali violazioni di norme collettive contrattuali o del d.lgs. 165/2001 non costituirebbero violazione di legge idonea ad integrare il delitto ex art. 323 c.p., essendo il rapporto di lavoro del pubblico dipendente parificato a quello del dipendente privato. E quindi il sindaco opererebbe non come pubblico ufficiale ma come datore di lavoro privato, nel caso di una sua violazione di norma contrattuale potendo l’interessato rivolgersi solo al giudice del lavoro e non al Tar o al giudice penale. In definitiva, nel nostro caso il sindaco avrebbe nominato discrezionalmente un funzionario del Comune dirigente a tempo determinato nella sua qualità di datore di lavoro e non di pubblico ufficiale, e sulla base di un rapporto fiduciario.
Il secondo motivo deduce mancanza di motivazione sulla violazione di legge, in relazione all’art. 323 c.p.. La revoca sarebbe stata adottata dopo approfondita istruttoria e con motivazione adeguata, non al di fuori del caso previsto dall’art. 21 d.lgs. 165/2001, venendo effettuata la contestazione a seguito di una valutazione negativa dei risultati e con rispetto del contraddittorio, non instauratosi solo per rinuncia del dirigente che nessuna osservazione aveva presentato alla contestazione degli addebiti.
In particolare la dirigente Di Gregorio aveva:
— dato informazioni false al pubblico ministero sulla natura dei terreni e sulla qualità di PALASCINO SALVATORE quale affittuario anziché proprietario-locatore;
- non aveva comunicato la presenza anche di un’antenna collocata per conto della polizia senza alcuna informazione al Comune;
- aveva un collegamento con un consigliere
dell’opposizione cui passava informazioni segrete;
- non rispondeva alle richieste del sindaco perché “vistasi scoperta”;
- invece di correggersi aggrediva verbalmente il sindaco.
Insomma, “una serie di fatti messi in opera dal dirigente che vengono valutati negativamente dal sindaco”: nessuna violazione di legge, pur essendo possibile la non condivisione della valutazione che aveva mosso il ricorrente.
Il terzo motivo denuncia omessa motivazione sul dolo intenzionale. Il ricorrente non avrebbe avuto alcun intento ritorsivo, perché per le antenne non vi erano irregolarità tant’è che vi era stata archiviazione, e specialmente perché il figlio era estraneo ai fatti essendo solo proprietario—locatore e nessun danno avrebbe quindi potuto ricevere dalla vicenda. In definitiva “nessuna volontà punitiva, ma semplice necessità di revocare un dirigente che passa notizie all’opposizione politica”, cui la Di Gregorio aveva ammesso di appartenere.
Considerato in diritto
3. I ricorsi sono infondati e al loro rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al rimborso delle spese di difesa sostenute dalla costituita e presente parte civile che, avuto riguardo all’opera prestata, si liquidano come da dispositivo.
3.1 Quanto al primo motivo, comune ai due ricorsi, correttamente i giudici di merito hanno affermato che la ‘privatizzazione’ della disciplina del rapporto di lavoro dirigenziale, anche con la sua attribuzione alla cognizione del giudice civile ordinario, non ha avuto alcuna conseguenza sulla natura pubblicistica dell’attività in materia di organizzazione che caratterizza gli uffici pubblici - come gli enti locali territoriali - e sulla natura dell’azione di chi loro è preposto anche con funzione di indirizzo politico, nella doverosa e sola prospettiva del perseguimento degli interessi pubblici per la cui cura e tutela quegli enti sono costituiti e le funzioni istituzionali sono attribuite. La legge costituisce la fonte primaria di disciplina della materia organizzativa, per l’espressa riserva prevista dall’art. 97 Cost., e significativamente è la norma di legge che prevede e disciplina i casi di ricorso all’apporto della dirigenza, pure negli enti locali (legge 421/1992 — con la previsione dell’assoggettamento a disciplina pubblicistica di organi, uffici, principi fondamentali dell’organizzazione —, d.lgs. 29/1993, d.lgs. 165/2001, art. 107 ss. T.U. enti locali) . E’ altrettanto significativo che la stessa Costituzione al sesto comma dell’art. 117 preveda la potestà regolamentare dei Comuni in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite. E proprio l’art. 107 del d.lgs. 267/00 (T.U. enti locali) nei suoi due primi commi’ prevede che:
“1. Spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti. Questi si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica e’ attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo;
2. Spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico—amministrativo degli organi di governo dell’ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108.”
Altrettanto significativo è l’art. 109 che, disciplinando il conferimento di funzioni dirigenziali, così dispone: “1. Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato, ai sensi dell’articolo 50, comma 10, con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia e sono revocati in caso di inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o dell’assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione previsto dall’articolo 169 o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro. L’attribuzione degli incarichi può prescindere dalla precedente assegnazione di funzioni di direzione a seguito di concorsi.
2. Nei comuni privi di personale di qualifica dirigenziale le funzioni di cui all’articolo 107, commi 2 e 3, fatta salva l’applicazione dell’articolo 97, comma 4, lettera d), possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione”.
E l’art. 50.10 prevede che: “Il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili degli uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e provinciali.”
Tali norme, come avvertito nella sentenza di primo grado, hanno trovato corrispondente disciplina regionale nelle leggi 7/1992, 26/93, 48/1991 e 23/1998.
Si tratta di disciplina del tutto omologa a quella in generale prevista dagli artt. 5 e 19 d..lgs 165/2001, i quali richiamano anche i principi generali fissati da disposizione di legge, gli atti organizzativi secondo i rispettivi ordinamenti, la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa, gli obiettivi di tale azione.
Proprio da tale convergente complesso di norme si ha conferma che il dirigente si inserisce — per volontà di chi, in quanto titolare del corrispondente potere attribuito da norme di legge disciplinanti l’organizzazione dell’ente e nell’esercizio della funzione di indirizzo, lo nomina - nella struttura organizzativa dell’ente pubblico, costituendo un rapporto di servizio che gli attribuisce in modo specifico l’esercizio di potestà pubblicistiche e il potere di impegnare l’Amministrazione con i soggetti ad essa esterni, nell’ambito di un contesto specificamente delineato da norme di legge. E ciò, appunto, solo a seguito dell’esercizio — da parte del soggetto che attribuisce l’incarico - di un vero e proprio potere di natura prettamente pubblicistica (espressamente disciplinato, quanto al caso del sindaco, dalle tipiche fonti della materia organizzativa pubblica: la legge, artt. 109 e 110 T.U. enti locali; statuti e regolamenti comunali) esercizio di potere organizzativo pubblico che si concretizza in un provvedimento motivato.
Palesemente infondata è pertanto la deduzione difensiva secondo cui — pur in questo contesto normativo — il conferimento di un tale incarico sarebbe una sorta di atto privato discrezionale del sindaco/datore di lavoro e, in ogni caso, comunque la revoca dell’incarico (la rimozione del dirigente dal servizio) inciderebbe solo sul rapporto privatistico instauratosi, realizzando una sorta di mero licenziamento senza giusta causa e costituendo manifestazione di autonomia negoziale e non atto finalisticamente orientato alla realizzazione di pubblici interessi. Si evince infatti con assoluta chiarezza dalle norme appena richiamate che la nomina del dirigente — e la sua revoca, che l’art. 109.1 disciplina contestualmente — è invece strettamente connessa proprio al migliore perseguimento delle più rilevanti finalità istituzionali, si risolve nell’attribuzione al medesimo dirigente di funzioni e poteri di natura prettamente pubblicistica, costituisce pertanto atto direttamente riferito alle esigenze organizzative dell’ente pubblico; il tutto secondo un’ottica di efficienza che — così come l’aspetto relativo alla natura contrattuale della disciplina del rapporto tra Amministrazione e dirigente, afferente solo l’utilizzazione di strumenti operativi e modelli organizzativi ritenuti più agili - non muta la natura pubblicistica della funzione svolta e dei poteri esercitati e, con essa, la qualifica di pubblico ufficiale rilevante ai sensi dell’art. 357 c.p.. Del resto, sarebbe all’evidenza illogica ed incoerente una ricostruzione sistematica che sottraesse all’esercizio della funzione proprio il momento dell’attribuzione e revoca di decisivi poteri pubblicistici finalizzati al perseguimento degli obiettivi essenziali dell’azione dell’Amministrazione alla regola dell’imparzialità e della buona amministrazione, costituzionalmente presidiata dall’art. 97 della Carta fondamentale.
Va inoltre chiarito, sul punto, che le argomentazioni e conclusioni esposte non integrano un conflitto interno di giurisprudenza rispetto ai precedenti di questa Sezione richiamati dai ricorrenti (Sez.6, sent. 13511 del 3 novembre 2005 — 13 aprile 2006 in proc. De Gaetano e Sez. 6 sent. 5026 del 25 settembre 2008 — 5 febbraio 2009 in proc. Maimone ed altri), avendo tali sentenze affermato non il venir meno della qualifica pubblicistica degli amministratori in ragione della qualità di datori di lavoro, bensì il diverso principio per cui l’inosservanza o la mancata o erronea applicazione delle norme di contratto collettivo per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche non costituisce violazione di legge o di regolamento idonea — e necessaria — a integrare la fattispecie del reato di abuso d’ufficio.
3.2 Anche il secondo motivo svolto nei due ricorsi è infondato. La loro trattazione congiunta evidenzia la manifesta infondatezza del motivo dedotto dal difensore, che in definitiva sostiene la mancanza di violazione dell’art.323 c.p. sull’unico presupposto che si sarebbe trattato di una revoca legittima per motivi disciplinari (argomento nuovo introdotto con il ricorso in cassazione pur relativamente a punto della decisione già oggetto di motivo d’appello, ancorché con diverse deduzioni disattese dalla Corte distrettuale e non qui riproposte). Secondo tale ricorrente sarebbe quindi irrilevante la tematica della valutazione dei risultati argomentata dalla Corte nissena.
E’ però lo stesso imputato che nel suo ricorso viene a confermare che la revoca fu invece argomentata proprio per la ritenuta valutazione negativa dei risultati dell’azione della DI GREGORIO. Il che dà conforto alle argomentazioni in diritto del Tribunale di Enna e della Corte di Caltanissetta, posto che per le ragioni diffusamente argomentate alle pagine da 9 a 13 della sentenza di primo grado (richiamate dalla Corte d’appello a pag. 7 della sua sentenza), la revoca avvenne senza la preventiva interlocuzione dell’apposito organo di controllo — il cd Nucleo di valutazione costituito in quel Comune — deputato proprio alla prescritta verifica, in posizione di terzietà, necessaria ai sensi degli artt. 20 e 21 d.lgs. 29/1993 (artt. 20 — 22 d.lgs. 165/2001) sia nel caso di risultati di gestione negativi, sia in quello di non raggiungimento degli obiettivi, sia nel caso di inosservanza delle direttive del sindaco, sia in quello di responsabilità particolarmente grave o reiterata. Il Tribunale, con argomentazione fatta propria dalla Corte distrettuale, ha in definitiva concluso che non essendo il dirigente degli enti locali (e comunque chi in essi svolga funzioni dirigenziali) revocabile ad nutum per il solo fatto di non rispondere più alle esigenze di chi ha provveduto alla nomina, ed avendo invece nel caso di specie il sindaco provveduto direttamente, senza accedere alla procedura che imponeva il coinvolgimento dell’organo di garanzia terzo (organo terzo che oltretutto aveva successivamente valutato positivamente l’attività della DI GREGORIO per il 2001, riconoscendole il peculiare premio di risultato — pag. 12 sent. Tribunale), il provvedimento di revoca era illegittimo per violazione di legge.
Si tratta di argomentazione in diritto condivisibile e che da un lato rende irrilevante la pregressa mera corrispondenza tra le parti — richiamata dal PALASCINO nel suo ricorso personale
— per la sua inidoneità normativa a sostituire o supplire l’omesso prescritto coinvolgimento procedimentale dell’organo terzo; e dall’altro manifesta l’infondatezza palese della deduzione difensiva contenuta nel secondo motivo di ricorso del difensore, in ordine alla ritenuta configurabilità di un mero vizio di eccesso di potere, inidoneo a configurare l’abuso d’ufficio.
Va in proposito ribadito che la violazione di norme di legge o di regolamento, connotante il reato di abuso di ufficio, è configurabile pure quando la condotta contraddica lo specifico fine perseguito dalla norma, concretizzandosi in uno svolgimento della funzione o del servizio che oltrepassa ogni possibile opzione attribuita al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio (Sez. 6, sent. 38965 del 18 ottobre — 24 novembre 2006 in proc. Fiori e altri) e caratterizzandosi per la finalità di sviamento del potere esercitato con l’adozione dello specifico atto formale in assenza delle ragioni che eventualmente lo legittimerebbero (Sez. 6, sent. 12196 del 11 — 29 marzo 2005 in proc. Delle Monache).
In tale contesto l’atto altro non è che lo strumento attraverso il quale si realizza il comportamento che, solo, costituisce reato: nel caso concreto, la finalizzazione dell’atto ad uno scopo che - perseguendo consapevolmente la volontà di recare un danno obiettivamente ingiusto, quale una revoca di incarico (con le negative implicazioni economiche, funzionali e di immagine connesse) al di fuori dei casi consentiti — esula dallo schema legale tipico con intensità tale da sconfinare da atto a comportamento per l’assenza dei presupposti di fatto che consentono l’azione della Pubblica amministrazione (Sez. 6, sent. 37172 del 11 giugno — 30 settembre 2008 in proc. Gatto e altro).
3.3 E’ infatti manifestamente infondato anche il terzo motivo proposto nel ricorso del PALASCINO, relativo all’omessa motivazione sul dolo. Secondo il ricorrente la Corte nissena non avrebbe spiegato perché dovesse esistere un suo intento ritorsivo. Ma la Corte distrettuale ha invece specificamente argomentato sul punto che proprio dalla lettura del provvedimento di revoca risultava l’effettivo interesse punitivo che aveva caratterizzato l’oggettivamente illegittimo atto di revoca, posto che tutte le dure contestazioni rivolte alla DI GREGORIO riguardavano la sua attività come comandante della polizia municipale, senza alcun rilievo quanto alle diverse ed autonome funzioni di dirigente del settore commercio, annona e polizia, sicché la revoca di queste costituiva appunto una punitiva sorta di ‘sostanziale demansionamento’. Sul punto il Tribunale aveva anche evidenziato che in immediata prossimità all’invio della lettera di contestazione ‘con toni aggressivi’ 20 luglio 2001 alla DI GREGORIO il sindaco PALASCINO aveva revocato all’ing. SILLITTO l’incarico di capo settore all’ufficio urbanistico ed al vice sindaco avv. ALEO la delega alla polizia municipale: e considerando che il SILLITTO era colui che aveva fornito alla DI GREGORIO le informazioni relative al terreno su cui risultavano installate le antenne e che l’ALEO era colui che aveva sollecitato la DI GREGORIO ad effettuare l’accesso che aveva condotto poi all’inoltro di informativa alla procura della Repubblica, il primo Giudice del merito aveva da tutto ciò ritenuto sussistere un atteggiamento ostile del PALASCINO nei confronti della donna. Tali considerazioni — svolte dal Tribunale e dalla Corte distrettuale sul punto - costituiscono apprezzamento di merito che si sottrae a censure di ordine logico e che - va notato - proprio sul piano logico trovano emblematico riscontro nel contenuto del ricorso presentato personalmente dall’imputato, dove letteralmente si legge “semplice necessità di revocare un dirigente che passa notizie all’opposizione politica. E la DI GREGORIO ha ammesso in dibattimento di appartenere a schieramento politico opposto a quello del Sindaco”.
3.4 Il terzo motivo proposto dal difensore è manifestamente infondato, perché come emerge con chiarezza dal dispositivo e dall’ultimo paragrafo della motivazione della sentenza di appello la Corte distrettuale non ha affatto revocato d’ufficio la sospensione condizionale della pena, confermando con tutta la sentenza di primo grado anche quella statuizione, avendo in aggiunta applicato l’indulto.