Pres. Onorato Est. Marini Ric. Zaccheo
Rifiuti. Ammendanti e disciplina dei rifiuti
Il "compost" costituisce un prodotto che può essere utilizzato come ammendante soltanto nel caso che subisca un trattamento e presenti caratteristiche in linea con le specifiche autorizzazioni, cosi da garantirne la non dannosità o pericolosità. L'assoggettamento delle attività di compostaggio a forme di autorizzazione (o di autorizzazione-comunicazione), ai sensi della normativa sui rifiuti risponde ai principi in tema di rifiuti adottati dalla normativa europea, ed in particolare all'esigenza che la salute dell'uomo e dell'ambiente sia tutelata attraverso misure che rispondano a logiche di "precauzione" ed alla "azione preventiva", così come indicate dall'art.174, n.2 del Trattato CE e secondo quanto prescritto dalla Direttiva 75-442 (come modificata dalla Direttiva 91-156 e dalla decisione 96-350).
Deve allora concludersi che allorché risulti accertato che un materiale non risponda alle caratteristiche previste ed autorizzate e, ciò nonostante, risulti destinato ad utilizzazione da parte di terzi quale ammendante, si è in presenza di un fatto che va ricompresso nella gestione illecita. La difformità del prodotto rispetto a quanto specificato nella dichiarazione, infatti, non assume rilievo formale in sé, ma in quanto implica una difformità rispetto alle caratteristiche che il prodotto stesso deve garantire per poter essere qualificato come ammendante e non assumere la qualifica di "rifiuto".
Svolgimento del processo
Con sentenza in data del 15 novembre 2005, emessa a
seguito di giudizio
di opposizione a decreto penale di condanna, il Tribunale
di Udine,
Sezione distaccata di Palmanova, ha condannato il Sig. Zaccheo - quale
socio
accomandatario della soc. “Zaccheo Ambiente Sas di Zaccheo
Sandrino & C.” -
alla pena di Euro 9.000,00 di ammenda per il reato previsto
dall’art. 51, comma
Fatto accertato il 2 luglio 2003.
Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il Sig. Zaccheo con un duplice ordine di motivi.
Primo motivo: violazione riconducibile all’art. 606, lett. b) c.p.p. per inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 6, lett. a) del decreto legislativo n. 22 del 1997, così come interpretato in forma autentica dall’art. 14 della legge n. 178 del 2002, nonché dell’art. 33 del citato decreto legislativo n. 22 del 1997, dell’art. 3 del D.M. 5 febbraio 1998 e della legge n. 7684 del 1984 e relative tabelle.
Secondo motivo: violazione riconducibile all’art. 606, lett. a) ed e) c.p.p. in relazione all’art. 192 c.p.p. ed illogicità della sentenza.
Motivi della decisione
1. Il secondo motivo è
manifestamente inammissibile e deve
essere esaminato preliminarmente. Esso si
concentra, infatti, sulla ricostruzione fattuale operata
dal giudice di
prime cure, lamentando che
le conclusioni
in punto di fatto e di responsabilità
del Sig. Zaccheo sarebbero state raggiunte violando il principio,
fissato
dall’art. 192 c.p.p., che richiede ai giudice
di accertare che in atti sussistano
elementi univoci in ordine
agli elementi della fattispecie. A parere del ricorrente, invece,
sussisterebbero all’interno
della
stessa motivazione elementi contraddittori che avrebbero giustificato
conclusioni diverse in punto ricostruzione
del fatto e affermazione di
responsabilità.
Il motivo di impugnazione, illustrato in modo ampio
e dettagliato, si fonda su una
lettura
del materiale probatorio diversa da
quella fatta propria dal giudice di prime cure. Le argomentazioni
difènsive si concentrano
sulla possibilità di una diversa
ricostruzione dei fatti (si
veda
pag. 17-18: “il prodotto finito ben poteva...”; “in
quell’area ben poteva essere presente anche...”;
“benché il teste abbia
riferito che.. .nondimeno
rilevava pure... nel senso che
non escludeva ...“;
pag.
21: “smentendo con ciò
il
rilievo di inattendibilità contenuto nella sentenza gravata,
si pongono le
testimonianze di...”), tanto che,
si afferma, “si
sarebbe posta
una diversa ricostruzione di fatto sottesa alla sentenza”
e si conclude
che alcuni elementi assunti dalla sentenza a sostegno delle conclusioni
dovrebbero qualificarsi come indizio e
non come prova.
Come appare evidente,
il
motivo di ricorso attiene alla pretesa contraddittorietà
della valutazione
probatoria operata dal giudice.
Secondo un ormai consolidato
indirizzo di questa Corte, il
giudice di legittimità non può essere chiamato ad
un controllo sulla decisione che consista
nella rivalutazione del materiale
probatorio legittimamente acquisito ed
utilizzato dalla
decisione impugnata, ma deve
limitare la propria analisi alla coerenza e alla logicità
della motivazione nei
sensi indicati dalla lett. e) dell’art. 606 c.p.p.
La modifica apportata dall’art. 8 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, all’art. 606, lett. e) c.p.p., infatti, non ha trasformato la natura essenziale del giudizio avanti la Corte di cassazione, che resta ancorato al controllo sulle violazioni di legge.
Tale
conclusione emerge con
chiarezza da numerosi precedenti, ed in particolare
dall’ampia motivazione, che
viene condivisa da questo Giudice, della sentenza della Seconda Sezione
Penale
della Corte, 5 maggio-7 giungo 2006, n. l9584, Capri ed altra (rv
233773, rv 233774, rv 233775) e della sentenza della
Sesta Sezione Penale, 24 marzo-20
aprile 2006, n. 14054, Strazzanti (rv 233454).
Osserva la sentenza Capri che prima delle novella del 2006 la giurisprudenza pacificamente affermava che l’art. 606, lett. e) c.p.p. non affidava alla Corte “il compito di accertare l’intrinseca adeguatezza dei risultati dell’interpretazione delle prove, ma quello ben diverso di stabilire se i giudici di merito avessero esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se avessero dato esauriente risposta alle deduzioni delle parti e se nell’interpretazione delle prove avessero esattamente applicato le regole della logica, le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione della prova... “. Tali principi sono rimasti fermi anche dopo la legge n. 46 del 2006, e la natura del vizio denunciabile resta attinente alla correttezza del discorso giustificativo della decisione e non al suo contenuto valutativo.
Ciò non toglie importanza alla circostanza che il nuovo testo del citato art. 606, lett. e) sottolinea il Valore decisivo che la valutazione del fatto ha con riferimento alla corretta applicazione della disposizione che si attaglia al caso concreto, posto che un’errata applicazione delle regole sulla valutazione della prova si trasforma in una non coerente applicazione della legge al fatto realmente accaduto ed alle conseguenti responsabilità.
Tuttavia, resta fuori dubbio che il giudizio avanti la Corte di cassazione risponde a logiche e finalità sue proprie, che non ripetono quelle del giudizio avanti i giudici di merito. Una dimostrazione di questa differenza la si ricava, tra l’altro, dalla motivazione della sentenza n. 26 del 2007 della Corte costituzionale, là dove (punto 6.1), argomentando in ordine alla modifica apportata dalla legge n. 46 del 2006 al potere di impugnazione del pubblico ministero, afferma che la possibilità di ricorso avanti la Corte di cassazione è “rimedio (che) non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito, consentito (invece) dall’appello”.
Se, dunque, il controllo demandato alla Corte di cassazione non ha “la pienezza del riesame di merito” che è propria del controllo operato dalle corti di appello, ben si comprende come il riferimento del nuovo testo dell’art. 606, lett. e) agli “altri atti del processo” su cui il ricorso può fondare la richiesta di annullamento della sentenza di merito non significa affatto che il giudice di legittimità sia chiamato, attraverso l’esame di tali atti, a ripercorre l’intera ricostruzione della vicenda oggetto di giudizio.
Come
giustamente osservato dalla
citata sentenza Capri ed altra, il rapporto tra il disposto degli artt.
544 e
546 c.p.p., e cioè tra completezza e concisione della
motivazione, comporta che
la motivazione del giudice di merito non deve dare conto
di tutti gli elementi di prova esaminati, ma concentrarsi
su
quelli che assumono valore decisivo ai fini della decisione, posto che
la
finalità della motivazione resta quello di rendere edotte le
parti delle
ragioni essenziali della decisione stessa e del percorso logico
seguito. E’
all’interno di questa prospettiva di ordine generale che deve
essere inteso il
riferimento agli specifici atti del processo, con la conseguenza che il
giudice
di legittimità è chiamato a valutare
l’incidenza di eventuali violazioni
commesse dalla decisione impugnata sul risultato finale. Restano
pertanto
escluse dal controllo della Corte “non soltanto le deduzioni
che riguardano
l’interpretazione e la specifica consistenza degli elementi
di prova, ma anche
le incongruenze logiche che non siano assolutamente incompatibili con
le
conclusioni adottate in altri passaggi argomentativi adottati dai
giudici;
cosicché non possono trovare ingresso in sede di
legittimità i motivi di
ricorso fondati su una diversa prospettazione dei fatti adottata dai
ricorrenti
né su altre spiegazioni fornite dalla difesa per quanto
plausibili, ma comunque
inidonee ad inficiare la decisione di
merito. Al di là di questi limiti finirebbe per accreditarsi la
Corte di cassazione di poteri rivalutativi che, come tali, appartengono
alla sola cognizione del giudice di merito.”.
In altri e conclusivi termini, questa Corte ritiene
che il giudizio sulla
completezza e correttezza della
motivazione della sentenza impugnata
non possa confondersi “con una rinnovata
valutazione delle risultanze acquisite,
da contrapporsi a quella fornita dal giudice di merito”, con
la conseguenza che
una motivazione esauriente nell’affrontare
i temi essenziali e coerente
nella valutazione degli elementi probatori si sottrae al sindacato di legittimità.
Conservano, dunque, piena validità
anche dopo la novella del 2006 i principi
essenziali fissati dalla sentenza delle Sezioni Unite Penali, n. 2120, del
23 novembre 1995-23
febbraio 1996, Fachini (iv 203767).
Nel caso dì
specie, la sentenza
del Tribunale di Udine non presenta alcuno
dei vizi lamentati dal ricorrente. La motivazione dà ampio
conto del materiale probatorio
raccolto ed esamina
con particolare attenzione
le prove testimoniali, illustrando
in modo coerente il percorso logico che ha condotto il giudice,
nel contrasto anche solo parziale tra le
diverse dichiarazioni (significativo appare, tra l’altro, l’approfondimento
sulla testimonianza De Marchi alla
pagina ottava della parte motiva),
a privilegiare una
ricostruzione dei fatti, così giungendo
anche a disporre la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero
perché valuti
la sussistenza del reato di cui all’art.
372 c.p. a carico di alcuni dei testimoni assunti nel corso del
dibattimento. Contrariamente a quanto esposto al punto 4.2.5 dei
motivi di impugnazione, la Corte ritiene
del tutto corretto che il
giudice del merito operi un giudizio di
prevalenza degli elementi probatori raccolti, posto che gli elementi potenzialmente contrari
alla ricostruzione effettuata sono
stati nella loro sostanza esaminati e valutati secondo un percorso logico
coerente che non può essere oggetto
di censure in questa sede.
2. Più articolato si presenta
l’esame del primo motivo
di ricorso. Il motivo di ricorso si
compone di plurimi livelli di argomentazione, alcuni
attinenti la ricostruzione
dei fatti (quali la collocazione del
prodotto sull’area
di stoccaggio; l’avvenuta
conclusione
del ciclo di trasformazione; la
disponibilità del prodotto alla vendita), altri, invece,
alla non corretta
qualificazione del prodotto come “rifiuto”,
con conseguente violazione
dell’art. 6 del decreto
legislativo n. 22 del 1997 (punti 4.1.1 e 4.1.2).
2.1 - Per quanto riguarda le
censure che attengono alla ricostruzione
dei fatti, la Corte non può che ribadire
il giudizio di inammissibilità
esposto
con riferimento al motivo di ricorso in precedenza esaminato. Ancora
una volta,
infatti, il ricorrente nelle proprie doglianze
si limita, in realtà, a proporre una
ricostruzione dei fatti
alternativa a quella che la sentenza
impugnata ha
adottato al termine di una
valutazione logica e intrinsecamente coerente.
2.2 - Venendo adesso al punto
essenziale del ricorso, e cioè alla assunta
non correttezza della qualificazione come
“rifiuto” dei
prodotti oggetto della contestazione,
la Corte osserva quanto segue.
Afferma il ricorrente che non risultano rispettate le norme in tema di campionamento ed analisi di prodotti “fertilizzanti” (art. 8, comma 3, punto 2 della legge n. 784 del 1984) e che dagli atti processuali dovrebbe concludersi che i prodotti in esame erano in concreto “ammendanti vegetali, in quanto degli stessi veniva ad essere riscontrata la loro trasformazione chimico-fisica potendo parlarsi di ammendante vegetale per l’effettuazione di un processo di trasformazione”. Di qui l’applicabilità agli stessi della disciplina contenuta nella legge n. 784/l984, con il relativo regime sanzionatorio amministrative delle eventuali violazioni.
Il
ricorrente afferma, altresì,
che risulterebbe coerente con tale impostazione la disciplina prevista
dall’art. 6, lett. a) del decreto legislativo n. 22 del 1997
che,
nell’interpretazione autentica dell’art. 14 del
decreto legislativo (rectius decreto
legge) n. l38 del 2000, convertito con legge n. l78 del 2000,
stabilisce un
legame inscindibile fra la nozione di rifiuto e il concetto di
smaltimento, che
presuppone a sua volta l’esistenza di una volontà
o di obbligo per l’imprenditore
di disfarsi del prodotto. Di qui la
conclusione che il prodotto destinata ad essere successivamente
utilizzato
senza ulteriori trasformazioni va
escluso dal novero dei
“rifiuti”. La sentenza impugnata avrebbe, dunque,
erroneamente qualificato
come rifiuti i
prodotti oggetto della contestazione.
Sul
punto la sentenza impugnata osservava: a) la società di cui il
ricorrente è legale rappresentante
svolge, all’interno di un’“area
ecologica” l’attività di raccolta,
trasporto e recupero rifiuti;
b) nel corso di un controllo, gli
operanti rilevavano che nel prodotto
in lavorazione per la sua trasformazione in “compost”
(che la società provvedeva, secondo convenzione, a cedere gratuitamente
ai privati) erano presenti materiali plastici
e altri corpi estranei; c)
accertata la presenza di due
grandi cumuli di materiale uscito dal
capannone di compostaggio in
un’area
(“A2”) definita sulla planimetria
come
luogo di “vagliatura del
compost
maturo”, veniva
fatta intervenire
l’ARPA, che procedeva a]
campionamento
ed all’analisi dei materiali; d) dalle analisi risultava
la presenza di materie plastiche e inerti
in quantità
superiore a quanto consentito dalla Legge 19 ottobre 1984, n. 74 per “l’ammendante
composto misto”; e) a conclusioni analoghe conducevano le analisi effettuate
su un terzo cumulo di materiale
rinvenuto in occasione di un secondo accesso dei verbalizzanti. Alla
luce di questi elementi di
fatto
la sentenza conclude che la
presenza di materiale plastico e di altro materiale non degradabile che le analisi hanno accertato essere, secondo la motivazione (pag. 2) “in quantitativo
superiore a quello ammesso
dalla
l. 748 del 19 ottobre
Una
volta escluso, come sopra
motivato, che questa Corte abbia
motivo di censurare le
conclusioni della sentenza impugnata
in ordine alla destinazione a terzi del prodotto stoccato nella zona
“A2” ed oggetto
della contestazione, non sembra alla
Corte possa mettersi in dubbio la qualifica
del prodotto stesso come
“rifiuto”.
Il “compost” costituisce un
prodotto che può essere utilizzato come
ammendante soltanto nei casi che subisca un trattamento e presenti caratteristiche in linea
con le specifiche autorizzazioni, così da garantirne
la non dannosità o
pericolosità.
A tal proposito è opportuno ricordare
che l’assoggettamento delle
attività di compostaggio a forme di autorizzazione (o di
autorizzazione-comunicazione), ai sensi dell’art. 33 del
d.lgs. n. 22 del 1997,
risponde ai principi in tema di rifiuti
adottati dalla normativa europea,
ed in particolare all’esigenza
che la salute dell’uomo e dell’ambiente sia
tutelata attraverso misure che
rispondano a logiche di
“precauzione” ed alla “azione
preventiva”, così come indicate
dall’art. 174, n. 2 del Trattato
CE e
secondo quanto prescritto dalla
Direttiva 75/442 (come modificata dalla
Direttiva 91/156 e dalla decisione 96/350).
Deve allora concludersi
che
allorché risulti accertato che
il materiale
reperito in loco non risponde alla
caratteristiche previste ed autorizzate
e, ciò nonostante, risulta destinato
ad utilizzazione da
parte
di terzi quale ammendante, si è
in presenza
di un fatto che va ricompresso nella
previsione dell’art. 51 del d.lgs. n. 22 del 1997. La
difformità del prodotto rispetto
a quanto specificato nella dichiarazione,
infatti, non assume rilievo formale in sé, ma in quanto implica una
difformità
rispetto alle caratteristiche
che il prodotto stesso deve garantire (e
sul punto della
difformità gli accertamenti tecnici compiuti sono risultati
univoci) per
poter essere qualificato come
ammendante e non assumere la
qualifica di “rifiuto”.
Alla luce di quanto esposto il ricorso
deve essere respinto.