Cass. Sez. III n. 49910 del 30 dicembre 2009 (Ud. 4 nov.2009)
Pres. Grassi Est.Petti Ric. Cangialosi e altri
Rifiuti. Buona fede indotta dalla P.A.

La buona fede che esclude nei reati contravvenzionali l'elemento soggettivo ben può essere determinata da un fattore positivo esterno che abbia indotto il soggetto in errore incolpevole. (Fattispecie di buona fede indotta dal comportamento della P.A. che, richiesta dell'autorizzazione relativamente ad un'attività di smaltimento di rifiuti, ne aveva ripetutamente confermato la non necessità).

 

 

 

 

In fatto

La Corte d’appello di Caltanissetta, in riforma delle sentenze emesse da tribunale di Gela il 30 settembre del 2003 ed il 20 ottobre del 2004 nei due processi poi riuniti in grado d’appello, appellate, la prima, da Cangialosi Francesco, Gonzales Cosimo e dal rappresentante civile Syndial S.p.a. e, la seconda da Rivoli Giuseppe e Gonzales Girolamo, assolveva il Gonzales ed il Rivoli dall’imputazione di cui al capo A) della rubrica – commercio ed internazionale dell’olio combustibile Fox, che era stato ritenuto dal tribunale un rifiuto--, e dichiarava non doversi procedere nei confronti degli imputati, in ordine agli altri reati per i quali il tribunale aveva affermato la loro responsabilità in primo grado, perché si erano estinti per prescrizione. I prevenuti erano stati ritenuti responsabili del reato di cui all’articolo 51 decreto legislativo n 22 del 1997 perché, quali dirigenti dell’impianto ACN di Gela (acronimo per acrilonitrile), avevano effettuato attività di smaltimento dei rifiuti pericolosi mediante l’utilizzazione del Forno F3001 nonché del reato di cui all’articolo 51 lettera b) del decreto legislativo n 22 del 1997, per avere, senza autorizzazione, effettuato attività di stoccaggio delle melme fangose nel bacino S3008. La corte confermava le statuizioni civili nei confronti delle parti civili costituite (Associazione Amidi della Terra, Italia Nostra, WWWF Italia e Provincia di Caltanissetta).

A fondamento della decisione osservava in estrema sintesi che le sostanze trattate dal forno F3001 dovevano qualificarsi come rifiuti, in quanto si trattava di sostanze liquide provenienti da diverse fasi del ciclo produttivo principale dell’acrilonitrile, tutto convogliate nel serbatoio di stoccaggio S3008 e tutte ugualmente destinate all’eliminazione attraverso il processo di ossidazione termico che avveniva nel forno F3001, il quale non era un “impianto di processo” ma un inceneritore; che il serbatoio S3008 era una vera e propria vasca di raccolta dei residui della produzione prima dello smaltimento; che sussisteva l’elemento psicologico perché i prevenuti non si erano attivati per chiedere l’autorizzazione prevista dal decreto legislativo n 22 del 1997, allora vigente, essendosi limitati a richiedere quella prevista per le immissioni in atmosfera.

Ricorrono per cassazione gli imputati ed il responsabile civile, con separati ricorsi, ma con motivi sostanzialmente comuni con cui deducono:

1) la violazione della noma incriminatrice in relazione all’articolo 129 comma secondo c.p.p. e mancanza ed illogicità della motivazione sul punto: i ricorrenti, dopo avere premesso che l’articolo 129 c.p.p. deve essere applicato, non solo quando la prova dell’innocenza appaia prima facile, ma anche in presenza di una prova insufficiente o contraddittoria in merito alla sussistenza del fatto, assumono che l’impianto era munito delle necessarie autorizzazioni richieste dall’autorità amministrativa e ritenute dalla stessa necessarie e che i dirigenti, contrariamente all’assunto della corte, non avevano il potere di disattendere le autorizzazioni amministrative e segnatamente il decreto Assessoriale del 23 marzo del 2000, che aveva autorizzato l’esercizio e sospendere la produzione; la motivazione adottata sul punto della corte era illogica, perché non si poteva far carico al dirigente di non avere disapplicato l’atto amministrativo solo perché ex post si era accertato che quell’autorizzazione non avrebbe dovuto essere rilasciata; i difensori assumono in definitiva che i pervenuti in buona fede avevano fatto affidamento sulla legittimità dell’atto autorizzativo;

2) violazione della norma incriminatrice e mancanze ed illogicità della motivazione anche con riferimento all’attività di stoccaggio, per avere la corte ricompresso all’interno della categoria dello stoccaggio di rifiuti l’attività discontinua ed automatica di raccolta, mediante precipitazione, per effetto della gravità, di particelle solide all’interno di un filtro dell’impianto di ACN;

3) La violazione degli artt. 74,76 100 e 122 c.p.p. e 4 comma terzo della legge n 265 del 1999 con riferimento alle statuizioni civili per la mancanze di legittimato ad causam, posto che le procure facevano riferimento solo alla legittimazione processuale; invece la volontà di costituirsi nel processo penale, sia la rappresentanza in giudizio.

Hanno quindi concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

Le parti civili hanno insistito nella costituzione.

 

Motivi della decisione

Il ricorso è in parte fondato e va accolto per quanto di ragione.

In merito al rapporto tra cause di proscioglimento nel merito e declaratoria immediata di determinate cause di non punibilità ai sensi dell’articolo 129 c.p.p. (nella fattispecie la prescrizione) sono recentemente intervenute le Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n 35490 del 2009, con cui hanno accolto l’orientamento in base al quale la formula di proscioglimento nel merito non prevale sulla declaratoria della causa di non punibilità nel caso di contraddittorietà o insufficienza della prova a norma dell’articolo 530 comma secondo c.p.p.  Le Sezioni unite hanno tuttavia precisato che la disposizione di cui al comma secondo dell’articolo 129 c.p.p. deve coordinarsi con la presenza della parte civile e con una pronuncia di condanna in primo grado ossia con il disposto di cui all’articolo 578 c.p.p.. In tal caso il giudice dell’impugnazione deve esaminare in maniera approfondita il materiale probatorio senza essere vincolato al canone di economia processuale che impone la declaratoria di estinzione del reato anche quando la prova dell’innocenza non risulti ictu oculi. In definitiva in presenza di una condanna, sia pure generica a favore della parte civile, il giudice dell’impugnazione e precedere ad una doppia valutazione, di cui occorre dare conto nella motivazione: da un lato deve verificare se sussistono gli estremi di reato dal quale la parte civile fa discendere il proprio diritto e, dall’altro, è chiamato ad accertare, sia pure in modo sommario, la sussistenza di tale diritto. Nella prospettiva di tale decisione i motivi della dell’impugnazione proposti dall’imputato devono essere esaminati compiutamente non potendosi dare conferma della condanna anche sono generica al risarcimento del danno in mancanza di prova dell’innocenza degli imputati secondo quanto prescritto dall’articolo 129 comma 2 c.p.p.. Se da questo esame emerge la prova dell’innocenza del prevenuto si dovrà ricorrere alla corrispondente formula assolutoria.

Nel caso in esame la corte, pur applicando la prescrizione, ha ritenuto configurabile il reato dal punto di vista oggettivo che soggettivo ed ha condannato gli imputati al risarcimento del danno. Con i ricorsi si sostiene che mancherebbe quanto meno l’elemento soggettivo del reato essendo palese la sussistenza di una situazione di buona fede. L’impugnazione deve essere quindi compiutamente esaminata, sia per verificare la sussistenza di cause di proscioglimento nel merito più favorevoli della prescrizione, sia perché non si possono confermare le statuizioni civili in presenza di una situazione dubbia in ordine agli elementi costituivi dell’illecito.

Fatta questa premessa, come già accennato, il ricorso è in parte fondato e più precisamente è fondato il primo motivo con cui si deduce in sostanza una situazione di buona fede.

Infondato è invece il secondo motivo, il cui esame è preliminare in quanto, mentre con il primo non si esclude l’astratta configurabilità del reati, ma si prospetta solo una situazione di buona fede, con il secondo si esclude il reato sia pure con riferimento alla sola attività di stoccaggio.

I ricorrenti sostengono in definitiva che i giudici del merito inammissibilmente avevano ricompreso nella nozione di raccolta mediante precipitazione, per effetto della gravità, di particelle solide all’interno di un filtro dell’impianto di ACN. Si precisa in proposito che in tutti gli apparati dell’industria si verifica la formazione di depositi che vengono rimossi in occasione delle periodiche attività di manutenzione e non si è mai ritenuto che per la semplice presenza di tali depositi un apparato, che ha la funzione di protezione rispetto ad altro apparato, possa essere considerato in via autonoma un sito di deposito di rifiuti.

La tesi non merita di essere accolta. Essa avrebbe avuto pregio se il serbatoio in questione avesse avuto lo scopo di separare le scorie da altri elementi ancora utilizzabili nel ciclo produttivo, come negli esempi indicati da ricorrenti. Invece in quel serbatoio confluivano tutti i residui della produzione destinati allo smaltimento ed esso aveva lo scopo di separare i rifiuti liquidi dai residui solidi fangosi: i liquidi erano smaltiti tramite l’inceneritore e quelli solidi erano consegnati a terzi per lo smaltimento, una o due volte l’anno. Quindi quel serbatoio nel ciclo produttivo non aveva altra funzione che quella di raccogliere rifiuti di cui la società intendeva disfarsi. Si trattava pertanto di un’attività di stoccaggio come definita dall’articolo 6 pertanto di un’attività di stoccaggio come definita dall’articolo 6 comma 1 lettera I del decreto legislativo n 22 del 1997 all’epoca vigente ed in particolare si trattava di un deposito preliminare di rifiuti pericolosi in attesa dello smaltimento. Invero, in base alla normativa all’epoca vigente (ma sul punto la disciplina non è cambiata), per stoccaggio si intendeva la raccolta di rifiuti nell’attesa dello smaltimento o del recupero. Quindi la disciplina dello stoccaggio di rifiuti dipendeva dalla destinazione dei rifiuti stessi: rientrava in quelli dello smaltimento o del recupero a seconda delle operazioni successive di smaltimento o di recupero. La raccolta poteva e può avvenire sia sul luogo di produzione che altrove. La raccolta sul luogo di produzione dava luogo ( e dà luogo) ad un deposito temporaneo che non richiedeva (e non richiede) specifica autorizzazione se esercitata nel rispetto delle condizioni imposte dalla norma (all’epoca dei fatti articolo 6 lettera m del decreto Ronchi). Nel caso in esame la raccolta era destinata allo smaltimento e quindi occorreva l’autorizzazione prevista per tale tipo di attività. Non ricorrevano le condizioni per la configurabilità di un deposito temporaneo, in quanto non erano rispettate le prescrizioni richieste dalla norma, come precisato dei giudici del merito con accertamento che sul punto non risulta contestato con i motivi di ricorso. Quindi il reato di cui al capo c) è oggettivamente configurabile al pari di quello di cui al capo a) relativo al forno. Quest’ultimo non era un forno di processo ma un vero e proprio inceneritore e, pertanto, non si poteva escludere la normativa sui rifiuti solo perché lo smaltimento avveniva all’esito del ciclo produttivo ed all’interno dello stabilimento. Gli stessi ricorrenti in questa sede non hanno più insistito sulla natura del forno, ma si sono limitati a dedurre una situazione di buona fede.

Sul punto il ricorso è fondato. La Corte territoriale esclude la buona fede in base al rilievo che la tesi esposta in varie occasioni dalla pubblica amministrazione sulla non necessità dell’autorizzazione era infondata (come accertato ex post) e da tale infondatezza fa discendere quanto meno la colpa dei ricorrenti per non essersi attivati nel chiedere l’autorizzazione. La questione posta all’esame del collegio non consiste però nello stabilire se la tesi della pubblica amministrazione sulla non applicabilità alla fattispecie in questione della disciplina sui rifiuti fosse o no fondata con riferimento alla normativa allora vigente, ma se, a seguito dell’opinione, fondata o infondata che fosse, espressa dalla pubblica amministrazione, i prevenuti siano stati o no tratti in errore sull’illiceità del fatto. Secondo l’orientamento di questa corte, nei reati contravvenzionali, la buona fede dell’agente tale da escludere l’elemento soggettivo non può essere determinata dalla mera non conoscenza della legge, bensì da un fattore positivo esterno che abbia indotto il soggetto in errore incolpevole (Cass. N. 46671 05/10/2004 – 01/12/2004; n 172 del 2008). Tale fattore esterno esiste nella fattispecie ed è costituito dal fatto che la pubblica amministrazione in più occasioni aveva ritenuto non necessaria l’autorizzazione trattandosi di impianti che comunque facevano parte del ciclo produttivo. La tesi della pubblica amministrazione non è condivisibile per le ragioni già espresse ossia perché un impianto di smaltimento o di stoccaggio non può essere escluso dalla disciplina sui rifiuti solo perché inserito nel ciclo della produzione, ma da tale infondatezza non può derivare la sicura responsabilità dei ricorrenti per non avere chiesto un’autorizzazione che la pubblica amministrazione, la quale avrebbe dovuto rilasciarla, aveva ritenuto non necessaria. In tale ipotesi l’errore non interessava, in maniera inescusabile, l’antigiuridicità formale della condotta, ma riguarda le condizioni stesse sulle quali possa, nel soggetto, essersi formata una coscienza positiva di tale antigiuridicità. Ciò perché il principio della tutela dell’affidamento risposto su un provvedimento amministrativo formalmente valido e che non sia frutto di accordo criminoso con il privato, va rispettato proprio sulla base dell’esteriorità formale si esso e della provenienza dello stesso dell’organo legittimato ad ammetterlo.

Orbene, per comprendere la fonda tessa della tesi esposta dai ricorrenti è sufficiente ripercorrere l’iter amministrativo che ha portato al conseguimento del decreto assessoriale 20/17 rilasciato il 23 marzo del 2000 dalla Regione Sicilia con cui si autorizza l’impianto ACN nell’assetto in cui era stato sempre esercitato.

Allorché è entrato in vigore il D.P.R. n. 915 del 1982, poiché non era chiaro se le unità di termo distribuzione e smaltimento facenti parte integrante degli impianti produttivi dovessero essere autorizzati, i dirigenti dell’epoca chiesero in via cautelare l’autorizzazione che venne rilasciata in via provvisoria per sei mesi, poi sempre rinnovata fino al 20 maggio del 1986 allorché la società, per porre fine alla situazione di provvisorietà, chiese al Ministero dell’Ecologia. Comitato interministeriale, conferma dell’applicabilità della disciplina dettata dl D.P.R. n 915 del 1982. A tale richiesta il Comitato rispose nel senso che i residui di un processo produttivo trattati per motivi di sicurezza in un apposito impianto facente parte integrante del processo produttivo non davano luogo ad attività di smaltimento di rifiuti nel senso inteso dall’articolo 1 del D.P.R. n 915 del 1982 e quindi non era necessaria l’autorizzazione prevista per i rifiuti. Tale opinione venne confermata dall’Assessorato Regione Siciliana il quale, con la nota del 1° ottobre del 1999, durante la vigenza del decreto Ronchi, confermò la non necessità dell’autorizzazione di cui agli artt 27 e 28 del citato decreto.

Nel 2000 la dirigenza della società decise di sostituire il vecchio forno e presentò il relativo progetto alla Regione Sicilia il quale lo approvò, con decreto n 20 del 23 marzo del 2000, confermando contemporaneamente che per il forno F3001 in esercizio era necessaria solo l’autorizzazione sulle emissioni industriali e non quella sui rifiuti. A seguito dell’entrata in vigore del D.M. 124 del 2000 sui forni da incenerimento l’assessorato Regionale, con nota n 46581 del 2001, pur non revocando il decreto autorizzativo n 20 del 2000 dianzi citato, diffidò in via cautelare la società dal mantenere il forno in esercizio e chiese un parere il Ministero delle Attività produttive al fine di stabilire se il citato decreto dovesse essere applicato anche il forno in questione. Nelle more l’impianto venne formato dai dirigenti. Il Ministero, con nota dell’11 settembre del 2001, rispose che non era applicabile la normativa di cui al citato decreto ministeriale perché il forno costituiva parte integrante dell’impianto. Successivamente il 25 settembre del 2001, su convocazione del Presidente della Regione Siciliana, si tenne una conferenza dei servizi alla quale parteciparono le rappresentanze apicali dell’autorità amministrativa competente in materia. All’esito della stessa si stabilì che il forno F3001 era un elemento del processo produttivo, non dotato di autonomia funzionale, e quindi non richiedeva un’autorizzazione diversa ad autonoma rispetto a quella prevista per le emissioni in atmosfera. Alla stessa conclusione giunse la Commissione Regionale Tutela Ambiente della Regione Sicilia. La sospensione venne pertanto revocata.

Dall’iter amministrativo dianzi evidenziato emerge che la Pubblica Amministrazione, fatta eccezione pel le perplessità manifestate in occasione dell’entrata in vigore del D.M. 124 del 2000, perplessità superato dopo il parere del Ministero delle Attività Produttive, si era sempre espressa per la non necessità dell’autorizzazione prevista dalla legge sui rifiuti. Anzi con il decreto n 20/17 dle 2000 citato aveva confermato che l’impianto andava gestito secondo la normativa sulle emissioni industriali e non su quella dei rifiuti. L’atteggiamento della pubblica amministrazione ha creato o ha potuto creare nei prevenuti la convinzione della non necessità dell’autorizzazione prevista dal decreto Ronchi per la gestione dei rifiuti. Solo con la nota del 27 novembre del 2001 la Commissione Europea – Direzione Generale Ambientale – si è espressa per la necessità dell’autorizzazione di cui alla direttiva 94 del 1976 per qualsiasi unità ed attrezzatura tecnica fissa o mobile destinata al trattamento termico dei rifiuti con o senza recupero del calore prodotto dalla combustione e ciò a prescindere dal fatto che dette unità facessero parte integrante del ciclo produttivo. Tale parere è stato però espresso allorché il Cangialosi e il Gonzale erano stati già rinviati a giudizio con decreto dell’8 agosto del 2000 e qualche mese prima del sequestro preventivo disposto nel giugno del 2002 allorchè l’azienda era diretta dal solo Rivoli. Orbene, a parte il rilievo che non risulta che quest’ultimo abbia avuto contezza del parere espresso dalla Commissione Europea (la stessa sentenza impugnata che alla patina 33 indica tale nota non evidenzia la conoscenza di essa da parte del Rivoli), è assorbente il rilievo che il predetto ha comunque fatto affidamento sui pareri e sulle autorizzazioni in precedenza concessi dalla pubblica amministrazione ai suoi predecessori. Il definitiva non si possono addebitare ai prevenuti profili di solo o si semplice colpa solo perché ex post si è cominciata a profilare la possibilità che quell’impianto dovesse essere sottoposto anche alla disciplina sui rifiuti oltre che a quella sulle emissioni. Le stesse parti civili, che pure sono intervenute anche davanti a questa corte, non hanno contestato specificamente le ragioni addotte dai difensori a sostegno della buona fede dei propri assistiti, non hanno cioè indicato le ragioni per le quali i pareri e le autorizzazioni richiamate dai difensori fossero inidonee a sostenere la dedotta buona fede.

Il terzo motivo relativo all’illegittimità della costituzione delle parti civili rimane assortito.

Alla stregua delle considerazioni svolte, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché i fatti ascritti ai prevenuti, per i quali è stata pronunciata declaratoria di estinzione per prescrizione, non costituiscono reato.