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Sez. 3, Sentenza n. 10662 del 05/03/2004 (Cc. 14/11/2003 n.01762 ) Rv. 227554
Presidente: Papadia U. Estensore: Fiale A. Imputato: Min. della difesa. P.M. Iacoviello F. (Conf.)
(Rigetta, Trib.La Spezia, 12 giugno 2003).
614001 SANITÀ PUBBLICA - IN GENERE - Disciplina dei rifiuti - Beni e materiali dell'Amministrazione della difesa - Dichiarati fuori uso - Natura di rifiuto - Impossibilità a rispettare le condizioni del deposito temporaneo - Mancanza della autorizzazione - Reato di cui all'art. 51 del D. Lgs. n. 22 del 1997 - Configurabilità.
CON MOTIVAZIONE

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Massima (Fonte CED Cassazione)

In tema di gestione dei rifiuti, l'accumulo di beni e materiali dichiarati fuori uso, e dei quali pertanto il detentore ha deciso di disfarsi, e/o di materiali, sostanze e beni compresi nell'elenco dei rifiuti pericolosi per i quali sussiste l'obbligo di disfarsi, effettuato al di fuori delle garanzie, formali e sostanziali, di tutela imposte dal D.Lgs. 5 febbraio 1997 n. 22, anche se non avente carattere di definitività, integra l'ipotesi di deposito incontrollato di rifiuti previsto dall'art. 51, comma secondo, del citato decreto n. 22. (Fattispecie relativa a deposito di materiali fuori uso e rottami dell'amministrazione della marina militare posti all'interno dell'area militare stessa, e nella quale la Corte ha escluso che possa avere rilievo giustificativo dello sforamento dei tempi richiesti dall'art. 6 lett. m) per qualificare il deposito quale temporaneo il rispetto delle disposizioni regolamentanti il procedimento relativo all'alienazione di beni mobili dello Stato (di cui ai d.P.R. 5 giugno 1976 n. 1076 e 1077 e 13 febbraio 2001 n. 181), sul presupposto che ove tali procedure non rendano configurabile un deposito temporaneo devono essere rispettate le disposizioni in tema di rifiuti relative all'obbligo di munirsi di preventiva autorizzazione).

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Camera di consiglio
Dott. PAPADIA Umberto - Presidente - del 14/11/2003
1. Dott. SQUASSONI Claudia - Consigliere - SENTENZA
2. Dott. GRILLO Carlo M. - Consigliere - N. 1762
3. Dott. VANGELISTA Vittorio - Consigliere - REGISTRO GENERALE
4. Dott. FIALE Aldo - Consigliere - N. 26826/2003
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
AMMINISTRAZIONE della DIFESA, in persona del MINISTRO pro tempore;
avverso l'ordinanza 12.6.2003 pronunziata dal Tribunale per il riesame di LA SPEZIA;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Aldo Fiale;
udito il Pubblico Ministero nella persona del Dott. IACOVINO F.M. che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTO E DIRITTO
Il G.I.P. del Tribunale di La Spezia, con ordinanza del 22.5.2003, convalidava il decreto di sequestro preventivo - emesso dal P.M. in via di urgenza in data 19.5.2003 - di un'area insistente all'interno del locale Arsenale della Marina Militare in relazione al reato di cui all'art. 51, 2^ comma, del D.Lgs. n. 22/1997, ipotizzato nei confronti degli ammiragli Nascerti Dino e Zannini Ermogene. Veniva contestato agli indagati, nella qualità di successivi responsabili pro tempore dell'ente militare:
- di avere disposto o consentito o comunque non impedito, avendone l'obbligo - senza alcuna precauzione a tutela dell'ambiente ed in difetto di qualsivoglia titolo autorizzativo;
- il deposito/abbandono incontrollato al suolo, in violazione del divieto di cui all'art. 14 del D.Lgs. n. 22/1997, di ingentissimi quantitativi di rifiuti, almeno in parte pericolosi, per molte migliaia di metri cubi contemporaneamente e per più anni di seguito, nonché tra loro disordinatamente frammisti, in un'area dell'Arsenale, a cielo aperto e non pavimentata, estesa complessivamente circa mq. 16.607, denominata "magazzino materiali fuori-uso e rottami", accessibile tramite superamento di sbarra metallica ed inclusiva di sotto-area estesa circa mq. 2.961 recintata da transenne metalliche e chiusa con cancello denominata "deposito metalli pregiati".
Nella sotto-area, in particolare, erano accumulati rifiuti quali lavatrici, rottami metallici, quadri elettrici, monitor e stampanti per computer, cavi in gomma etc. (tutti oggetti fuori uso), nonché motori marini fuori uso non bonificati da cui si spandevano sostanze oleose sul terreno.
All'esterno di tale sotto-area erano accumulati altri rifiuti per lo più ferrosi, per varie migliaia di metri cubi, quali mobili, cassetti, sedie, reti metalliche per letti, cuscinetti di alternatori elettrici intrisi di grassi ed emulsioni oleose, elmetti militari, estintori, parti di quadri elettrici, frigoriferi (tutti fuori uso) e tattiche in plastica con residui di olii minerali, anche con presenza sul terreno di vistose macchie scure da spandimento di sostanze oleose.
Il provvedimento di sequestro era stato adottata dal P.M. sugli essenziali rilievi - condivisi dal G.I.P. - che:
- parte dei rifiuti non provenivano da interventi di manutenzione e modifica di installazioni di bordo o terrestri ovvero da dismissione di naviglio obsoleto, effettuati presso lo stesso Arsenale, bensì da interventi similari riguardanti la generalità delle strutture militari dell'area spezzina;
- non risultavano rispettati i limiti quantitativi e temporali massimi, fissati dall'art. 6, lett. m), punti 2 e 3, del D.Lgs. n. 22/1997, per il deposito temporaneo di rifiuti presso il luogo di produzione (i rifiuti assommavano a varie migliaia di metri cubi, con permanenza media in sito di 9/10 mesi ed in molti casi anche superiore);
- non risultavano rispettate, ai sensi dell'art. 6, lett. m), punti 4 e 5, del D.Lgs. n. 22/1997, le norme tecniche alle quali deve essere assoggettato il deposito temporaneo o lo stoccaggio dei rifiuti pericolosi, nonché quelle disciplinanti l'imballaggio e l'etichettatura dei medesimi, di cui alla deliberazione 27.7.1984 del Comitato interministeriale;
- la problematica ambientale in oggetto era stata segnalata dal Comune di La Spezia alla direzione dell'Arsenale sin dall'estate del 2000, ma tale segnalazione non aveva prodotto alcun risultato pratico e nessuna autorizzazione per attività di stoccaggio e trattamento di rifiuti (ai sensi degli artt. 27 e 28 del D.Lgs. n. 22/1997) era stata richiesta ne' rilasciata dalla competente Amministrazione provinciale di La Spezia;
- l'Arsenale non risultava iscritto nel registro provinciale delle imprese effettuanti il recupero di rifiuti non pericolosi;
- doveva considerarsi irrilevante la circostanza che i materiali di scarto depositati ed abbandonati incontrollatamente al suolo fossero destinati all'alienazione a ditte private interessate al relativo recupero, poiché trattavasi comunque di oggetti da qualificarsi come "rifiuti", anche secondo alcune pronunzie della Corte di Giustizia europea.
Il Tribunale di La Spezia, con ordinanza del 12.6.2003, rigettava l'istanza di riesame proposta dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Genova nell'interesse dell'Amministrazione della difesa, in persona del Ministro pro tempore.
Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso l'Avvocatura generale dello Stato la quale - sotto il profilo della violazione di legge - ha eccepito:
a) la incompatibilità del vincolo giuridico apposto attraverso la misura cautelare reale con la natura demaniale del bene assoggettato a sequestro, destinato alla difesa nazionale;
b) la inapplicabilità del D.Lgs. n. 22/1997 al demanio militare, nonché la inconfigurabilità giuridica, quale "discarica" (anche ai sensi del D.Lgs. 13.1.2003, n. 36), del "magazzino materiali fuori- uso e rottami" interno alla base militare, e, quali "rifiuti", dei materiali insistenti nella relativa area: in particolare detto "magazzino" era stato istituito con D.M. 22.11.1984 e confermato con D.M. 2.5.1997;
c) la mancata applicazione della normativa di cui: alle disposizioni generali di contabilità dello Stato (che prevedono che il materiale dichiarato fuori uso venga venduto); al D.P.R. 5.6.1976, n. 1076 (Regolamento per l'amministrazione e la contabilità degli organismi dell'Esercito, della Marina e dell'Aeronautica); al D.P.R. 5.6.1976, n. 1077 (Regolamento per gli stabilimenti ed arsenali militari a carattere industriale) ed alle istruzioni applicative impartite con decreti ministeriali del 22.12.1977, in tema di gestione dei "materiali e beni fuori uso", norme che avrebbero rango primario e carattere di specialità prevalente sul D.Lgs. n. 22/1997;
d) la insussistenza (oltre che del "fumus" della contravvenzione ipotizzata) di un "periculum in mora" effettivo e concreto. Il preteso pericolo di protrazione e di aggravamento delle conseguenze del reato era smentito, infatti, dalla produzione documentale del già intervenuto smaltimento di ingenti quantità di beni fuori uso, mediante cessioni con regolari gare di appalto, e dalla predisposizione di un progetto per la ristrutturazione dell'area e la sua integrale bonifica.
L'Avvocatura generale dello Stato ha depositato poi, in data 4.8.2003, memoria di ulteriore illustrazione dell'ultimo motivo di ricorso.
II ricorso deve essere rigettato, poiché infondato. 1. Sequestro preventivo e regime dei beni demaniali. La 6^ Sezione di questa Corte Suprema - con la sentenza 31.1.2001, n. 3947, ric. Sindoni - ha affermato il principio della legittimità del sequestro di un'area demaniale, allorquando la misura di cautela reale sia rivolta ad impedire il protrarsi di un'attività illecita in corso di effettuazione sull'area medesima.
La formale inalienabilità ed impignorabilità dei beni demaniali, sancita dall'art. 823 cod. civ., non vale a garantire, infatti, che su tali beni o per mezzo di essi possano essere commessi reati e che tali reati, ove siano tuttora "in itinere", possano provocare ulteriori conseguenze pregiudizievoli dell'interesse primario tutelato dalla norma penale violata.
Il sequestro preventivo (che non ha alcun collegamento necessario con la confisca) è rivolto appunto a tutelare l'esigenza di protezione della collettività dalla prosecuzione dell'attività criminosa ovvero dalla commissione di nuovi reati e, nella specie, razionalmente è stata ravvisata la probabilità di danno futuro connessa all'uso (considerato illecito) che in concreto viene fatto di un'area del demanio militare.
Nella vicenda in esame, con il sequestro, l'area non è stata sottratta alle finalità di difesa nazionale alle quali è destinata per la sua natura demaniale. Ciò che è stato impedito non è l'uso pubblico istituzionale del bene demaniale (vedi Cass., Sez. 3^, 16.3.1994, n. 270, ric. Filippone), bensì l'uso illecito di esso quale sito di abbandono incontrollato di rifiuti ed in proposito va ricordato che, ai sensi del 3 comma dell'art. 321 c.p.p., il giudice deve revocare immediatamente la misura di cautela allorquando "risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti" i requisiti previsti dal 1^ comma dello stesso articolo.
2. La disciplina dei "rifiuti" ed i materiali insistenti nell'area sequestrata.
2.1. Le caratteristiche principali della nozione di "rifiuto", in ambito europeo, sono individuate dall'art. 1 della direttiva del Consiglio 15.7.1975, n. 75/442/CEE (sui rifiuti in generale), modificata dalla direttiva 18.3.1991, n. 91/156/CEE e dall'art. 1 della direttiva del Consiglio 20.3.1978, n. 78/319/CEE (sui rifiuti tossici e pericolosi), modificata dalla direttiva 12.12.1991, n. 91/689/CEE.
Secondo tali direttive "per rifiuto si intende qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'obbligo di disfarsi secondo le disposizioni nazionali vigenti".
La direttiva n. 91/156/CEE ha ampliato e specificato tale nozione, riportandone le categorie nell'Allegato 1^ e rinviando alla Commissione il compito di preparare, entro il 1 aprile del 1993, un elenco (suscettibile di riesame periodico) dei rifiuti rientranti nelle suddette categorie.
La nozione medesima è stata altresì recepita dall'art. 2, lett a), del Regolamento del Consiglio CEE 1 febbraio 1993, n. 259/93, relativo ai trasporti transfrontalieri di rifiuti (immediatamente e direttamente applicabile in Italia secondo Corte Cost. n. 170/1984). 2.2. Nel nostro Paese le caratteristiche che, in ambito comunitario, individuano la nozione di "rifiuto" sono riprodotte nell'art. 6, comma 1 - lett. a), del D.Lgs. 5.2.1997, n. 22 (che ha recepito le modifiche del 1991 alle due direttive comunitarie sai rifiuti) secondo cui "è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientra selle categorie riportate nell'Allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi".
Tale normativa - attraverso il rinvio all'Allegato A), che riproduce l'Allegato 1^ della direttiva n. 75/442/CEE - riporta l'elenco delle 16 categorie di rifiuti individuate in sede comunitaria, mentre gli Allegati 2^ A 2^ B della direttiva sono riprodotti, rispettivamente, negli Allegati B) e C) al D.Lgs. n. 22/1997.
Il primo elemento essenziale della nozione di "rifiuto", nel nostro ordinamento, è costituito, pertanto, dall'appartenenza ad una delle categorie di materiali e sostanze individuate nel citato Allegato A), ma l'elenco delle 16 categorie di rifiuti in esso contenuto non è esaustivo ed ha un valore puramente indicativo, poiché lo stesso Allegato "A) - Parte 1^ comprende due voci residuali capaci di includere qualsiasi sostanza od oggetto, da qualunque attività prodotti:
- la voce Q1, che riguarda "i residui di produzione o di consumo in appresso non specificati";
- la voce Q16, che riguarda "qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate".
È necessario tenere essenzialmente conto, pertanto, delle ulteriori condizioni imposte dalla legge, e verificare cioè, anche e soprattutto, che il detentore della sostanza o del materiale:
- se ne disfi;
- o abbia deciso di disfarsene;
- o abbia l'obbligo di disfarsene.
L'art. 2 della direttiva n. 91/156/CEE prevede, al 1^ comma, alcune specifiche esclusioni del proprio campo di applicazione mentre, al 2^ comma, delinea in termini di complementarietà ed integrazione i rapporti della normativa generale sui rifiuti, da essa fissata, con alcune normative comunitarie specifiche, relative a particolari categorie e la legislazione italiana ribadisce la valenza generale del D.Lgs. n. 22/1997 "fatte salve disposizioni specifiche particolari o complementari, conformi ai principi del presente decreto, adottate in attuazione di direttive comunitarie che disciplinano la gestione di determinate categorie di rifiuti" (art. 1, comma 1).
I "materiali fuori uso e rottami" degli enti militari non costituiscono una particolare categoria di rifiuti, peculiarmente disciplinata ai fini di tutela ambientale, e per essi valgono i principi della normativa generale sui rifiuti.
2.3. Le tre diverse previsioni del concetto di "disfarsi" (riprodotte nell'art. 6, comma 1 - lett. a), del D.Lgs. n. 22/1997) hanno trovato recente "interpretazione autentica" nell'art. 14 del D.L. 8.7.2002, n. 138, pubblicato in pari data nella Gazzetta Ufficiale e convertito nella legge 8.8.2002, n. 178.
Secondo questa interpretazione:
a) "si disfi" deve intendersi: qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B) e C) del D.Lgs. n. 22/1997;
b) "abbia deciso di disfarsi" deve intendersi: la volontà di destinare sostanze, materiali o beni ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B) e C) del D.Lgs. n. 22/1997;
e) "abbia l'obbligo di disfarsi" deve intendersi: l'obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all'Allegato D) del D.Lgs. n. 22/1997 (che riproduce la lista di rifiuti che, a norma della direttiva n. 91/689/CEE, sono classificati come pericolosi).
Ai sensi della nuova normativa, le sole fattispecie di cui alle lettere b) e c) cioè le ipotesi in cui il detentore della sostanza o del materiale "abbia deciso" ovvero "abbia l'obbligo di disfarsi"" e non anche l'ipotesi in cui esso "si disfi" non ricorrono - per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo - ove sussista una delle seguenti condizioni:
1) gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente;
2) gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo, senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'Allegato C) del D.Lgs. n. 22/1997.
È stata così introdotta una doppia deroga alla nozione generale di "rifiuto", in relazione alla quale:
- la Commissione Europea, il 16.10.2002, ha deciso di aprire una procedura di infrazione (ex art. 169/226 del Trattato) nei confronti del Governo italiano per mancato rispetto della direttiva n. 75/442/CEE come modificata dalla direttiva n. 91/156/CEE, ritenendo configurabile "un'indebita limitazione del campo di applicazione della nozione di rifiuto".
La Commissione, anche con riferimento alla giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia, ha evidenziato che "la nozione di rifiuto non può essere commisurata allo specifico tipo di operazione di recupero o smaltimento che viene effettuata".
In data 9 luglio 2003 la Commissione ha redatto il parere motivato complementare, al quale il nostro Paese è stato invitato a conformarsi.
- Il Tribunale monocratico di Terni, con ordinanza 20.11.2002, ha richiesto alla Corte Europea di Giustizia di stabilire, con sentenza interpretativa (ex art. 177/234 del Trattato), se la nozione di rifiuto introdotta con le citate direttive CEE debba continuare ad essere intesa ed interpretata in Italia alla luce delle pregresse sentenze emesse in materia dalla stessa Corte di Giustizia ovvero alla stregua dell'alt. 14 della legge n. 178/2002.
2.4. Nella situazione normativa dianzi delineata, questa Sezione ha espresso due diversi orientamenti:
- Con la sentenza 13.11.2002, n. 4052, Passerotti ha affermato che la nuova disciplina del 2002 - benché modificativa della nozione di rifiuto dettata dall'art. 6, 1^ comma - lett a), del D.Lgs. n. 22/1997 - è vincolante per il giudice, in quanto introdotta con atto avente pari efficacia legislativa della norma precedente. Essa inoltre - benché modificativa anche della nozione di rifiuto dettata dall'art. 1 della direttiva europea 91/156/CEE - resta vincolante per il giudice italiano, posto che tale direttiva non è autoapplicativa (self executing) e costituisce obblighi per gli Stati dell'Unione Europea ma non direttamente situazioni giuridiche attive o passive per i soggetti intrastatali, sicché ha necessità di essere recepita dagli ordinamenti nazionali per diventare efficace verso questi ultimi (Nel senso che anche la direttiva 91/689/CEE, in materia di rifiuti pericolosi, rientra tra le direttive aventi l'obiettivo di armonizzare le diverse normative nazionali e non fra quelle con prescrizioni incondizionate e dettagliate, immediatamente applicabili nell'ordinamento interno, vedi Cass., Sez. 3^, 26.6.1997, n. 1699).
- Con la sentenza 6.6.2003, n. 32235, Agognati ha applicato l'art. 14 del D.L. n. 138/2002.
- Con la sentenza 27.11.2002, n. 2125, Ferretti ha sostenuto, al contrario, la necessità di non applicare la normativa nazionale contrastante con il Regolamento del Consiglio CEE 1 febbraio 1993, n. 259/93 sui trasporti transfrontalieri direttamente applicabile nell'ordinamento degli Stati membri ai sensi dell'art. 249 (ex 189) dei Trattato) e con l'interpretazione delle sentenze della Corte Europea di Giustizia.
- Con la sentenza 15.1.2003, n. 17656, Gonzales (che si sofferma in particolare sulla distinzione tra i residui ed i sottoprodotti dei quali l'impresa non ha intenzione di disfarsi ai sensi dell'art. 1, lett. a, comma 1, della direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari) - tenuto anche conto della nuova formulazione dell'art. 117 della Costituzione, introdotta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 - ha ribadito la necessità dell'applicazione immediata, diretta e prevalente, nell'ordinamento nazionale, dei principi fissati (non da direttive che non siano autoapplicative o self executing) ma dai Regolamenti comunitari (vedi Corte Cost., ord. 144/1990) e dalle sentenze della Corte Europea di Giustizia (vedi Corte Cost., sent. 389/1999, 255/1999 e 113/1985).
Ha aderito sostanzialmente all'impostazione della sentenza Ferretti, muovendo dalla lettura di numerose decisioni della Corte Europea di Giustizia (si ricordino, in proposito, le sentenze: 28.3.1990, nelle cause riunite Vessoso e Zanetti; 25 giugno 1997, in proc. 304/94 Tombesi; 15.6.2000, in proc. 418 e 419/1997 Arco; 18.4.2002, Palin Granii Oy; alle quali deve aggiungersi, da ultimo, la decisione 11.9.2003, in proc. AvestaPolarit Chrome Oy).
Ha rilevato altresì che:
- Le direttive non autoapplicative possono influire sul diritto nazionale attraverso le decisioni della Corte Europea di Giustizia. - Le sentenze della Corte di Giustizia, a loro volta (siano esse di condanna per inadempimento dello Stato oppure interpretative del diritto comunitario), sono immediatamente e direttamente applicabili, da parte del giudice italiano, sempre che l'esegesi del diritto comunitario sia incontrovertibile e la normativa nazionale appaia in evidente contrasto (vedi Corte Cost.: n. 113 del 1985 e nn. 232 e 389 del 1989).
- Secondo la Corte Costituzionale (a partire dalla sentenza n. 170/1984), il giudice italiano ha l'obbligo di non applicare la norma nazionale in contrasto con quella comunitaria.
Sotto il profilo dei rapporti tra il diritto comunitario e il diritto penale interno, ha affermato la prevalenza del primo qualora si tratti di "definizioni legali di elementi normativi della fattispecie penale soggetti alla determinazione da parte delle norme comunitarie": e tale, senza dubbio, è la nozione di "rifiuto". 2.5. Nella fattispecie in esame, però, è l'oggettività del fatto ad escludere l'applicazione dell'art. 14 del D.L. n. 138/2002. Nell'area assoggettata a sequestro erano depositati - infatti - beni e materiali (residuali non di produzione ma di consumo) dichiarati "fuori uso", di cui perciò il detentore sicuramente aveva "deciso di disfarsi, nonché materiali, sostanze e beni compresi nell'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all'Allegato D) del D.Lgs. n. 22/1997, per i quali sussisteva "l'obbligo di disfarsi".
Gli stessi beni e materiali:
- non erano e non potevano essere effettivamente e oggettivamente riutilizzati in un qualsiasi ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento;
- potevano essere riutilizzati (ma non nella loro totalità), invece, soltanto dopo aver subito un trattamento preventivo, previa necessaria effettuazione di un'operazione di recupero tra quelle individuate nell'Allegato C) del D.Lgs. n. 22/1997 (nella specie:
riciclo/recupero dei metalli, dei composti metallici e di altre sostanze inorganiche - punti R4 ed R5).
Le deroghe introdotte dal 2 comma dell'art. 14 del D.L. n. 138/2002, dunque, non sarebbero comunque applicabili per carenza dei presupposti.
3. La qualificazione giuridica della fattispecie.
Tutte le argomentazioni riferite in ricorso alla nozione di "discarica" - anche alla stregua della definizione fornita dall'art. 2, lett. g), del D.Lgs. 13.1.2003, n. 36 (Attuazione della direttiva 1999/31/CE relativa alle discariche di rifiuti) - sono assolutamente irrilevanti poiché, nella specie, il reato ipotizzato non è quello di cui all'art. 51, 3^ comma, del D.Lgs. n. 22/1997.
Si verte, infatti, in ipotesi di "deposito incontrollato" di rifiuti anche pericolosi sul suolo (art. 51, 2^ comma, lett a) e b)):
dismissione non avente carattere di definitività ma comunque effettuata al di fuori delle garanzie, formali e sostanziali, di tutela ambientale previste dalla legge.
Nè può invocarsi il disposto dell'art. 6, comma 1 - lett. m), del D.Lgs. n. 22/1997 al fine di argomentare che non si verterebbe in tema di "gestione di rifiuti", bensì sarebbe configurabile soltanto una legittima operazione preliminare all'attività di gestione, preparatoria al recupero.
Tale norma (dopo le modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 389/1997) definisce il deposito temporaneo dei rifiuti quale "raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti" nel rispetto di specifiche condizioni riferite: ai limiti della presenza di determinate sostanze; alle cadenze temporali di raccolta e di avviamento alle operazioni di recupero o di smaltimento; ai termini massimi di durata; alle modalità del deposito stesso.
Soltanto allorquando dette condizioni vengano rispettate viene meno l'obbligo di autorizzazione, secondo la previsione dell'alt. 28, 5^ comma, del D.Lgs. n. 22/1997.
Nella fattispecie in esame, invece, secondo le prospettazioni accusatone:
- non tutti i rifiuti erano prodotti nel luogo di deposito;
- i beni ed i materiali non erano distinti per tipi omogenei e nel rispetto delle relative norme tecniche;
- i rifiuti pericolosi non risultavano imballati ed etichettati secondo legge;
- non risultavano rispettati i termini di durata del deposito e quelli fissati per la periodicità degli asporti.
Si obietta in ricorso che le norme di contabilità dello Stato prevedono come obbligatoria la vendita del materiale fuori uso avente valore commerciale (con procedura che comporta: la definizione dei lotti da vendere e del prezzo palese da porre a base dell'asta, gli adempimenti di pubblicità, l'esperimento dell'asta, la stipulazione del contratto dopo l'aggiudicazione, la registrazione del contratto da parte della Corte dei Conti, il pagamento del prezzo, il ritiro effettivo del materiale): tale procedimento complesso (con la possibilità di aste deserte) risulterebbe incompatibile con i termini massimi di durata e le cadenze periodiche degli asporti fissati, per il deposito temporaneo, dall'art. 6 del D.Lgs. n. 22/1997.
Ciò comporta, però, che nei magazzini militari di materiali fuori uso, qualora le disposizioni di contabilità pubblica - attualmente è in vigore il D.P.R. 13.2.2001, n. 181 (Regolamento di semplificazione del procedimento relativo all'alienazione di beni mobili dello Stato) - non rendano configurabile il "deposito temporaneo", devono sempre applicarsi le disposizioni relative all'obbligo di autorizzazione di cui al D.Lgs. n. 22/1997. Nella vicenda in esame, comunque, come si è detto, le violazioni contestate non riguardano soltanto il mancato rispetto dei termini e neppure si verte in ipotesi di "stoccaggio", a fronte di un vero e proprio deposito incontrollato.
4. I limiti dell'accertamento incidentale demandato al Tribunale del riesame.
Alla stregua della giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte Suprema, nei procedimenti incidentali aventi ad oggetto il riesame di provvedimenti di sequestro:
- la verifica delle condizioni di legittimità della misura da parte del Tribunale non può tradursi in una anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità dell'indagato in ordine al reato o ai reati oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra fattispecie concreta e fattispecie legale ipotizzata, mediante una valutatone prioritaria ed attenta della antigiuridicità penale del fatto (Cass., Sez. Un., 7.11.1992, ric. Midolini);
- "l'accertamento della sussistenza del fumus commissi delicti va compiuto sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che non possono essere censurati in punto di fatto, per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che vanno valutati così come esposti, al fine di verificare se essi consentono di sussumere l'ipotesi formulata in quella tipica. Il Tribunale, dunque, non deve instaurare un processo nel processo, ma svolgere l'indispensabile ruolo di garanzia, tenendo nel debito conto le contestazioni difensive sull'esistenza della fattispecie dedotta ed esaminando sotto ogni aspetto l'integralità dei presupposti che legittimano il sequestro" (Cass., Sez. Un., 29.1.1997, n. 23, ric. P.M. in proc. Bassi e altri).
Alla stregua di tali principi e di tutte le considerazioni dianzi svolte, deve allora rilevarsi che, nella fattispecie in esame - spettando ai giudici del merito l'ulteriore approfondimento e la compiuta verifica - allo stato, a fronte dei prospettati elementi, della cui sufficienza in sede cautelare non può dubitarsi, le argomentazioni difensive non valgono certo ad escludere la legittimità della misura adottata.
Il "periculum in mora" non è escluso, infine, dal recente incremento delle procedure di vendita ne' da progetti di bonifica e ristrutturazione di cui neppure è certo il finanziamento. Al rigetto del ricorso segue la condanna dell'Amministrazione ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M.
la Corte Suprema di Cassazione, visti gli artt. 127 e 325 c.p.p., rigetta il ricorso e condanna l'Amministrazione ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 14 novembre 2003.
Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2004