IL RIUTILIZZO DEI RESIDUI NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CASSAZIONE
di Vincenzo PAONE
(pubblicato su Ambiente & Sviluppo n. 22006
CASSAZIONE 14 aprile 2005; Colli
In materia di rifiuti, l'operazione di ritaglio della nozione di "rifiuto" è possibile solo nei limiti in cui sia sottratta alla relativa disciplina ciò che risulti essere un mero "sottoprodotto" del quale l'impresa non abbia intenzione di disfarsi. Deve allora accedersi, quanto all'ipotesi dei residui di produzione, ad un'interpretazione della fattispecie derogatoria del 2° comma dell'art. 14 l. 178/02 orientata dall'esigenza di conformità alla normativa comunitaria, disattendendosi all'opposto una (pur plausibile) interpretazione estensiva di "beni o sostanze e materiali residuali di produzione", quale rifiuto solo eventualmente riutilizzabile previa trasformazione, perché una tale lettura dell'art. 14 cit. comporterebbe un contrasto con la normativa comunitaria.
CASSAZIONE 4 marzo 2005; Maretti
Secondo la normativa comunitaria, un residuo di produzione o di consumo di cui il detentore abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi costituisce rifiuto; ma, secondo l’art. 14 l. 178/02, perde tale qualità se è o può essere oggettivamente utilizzato tal quale nel medesimo o in analogo ciclo di produzione o di consumo e più esattamente se è riutilizzato senza trattamenti preventivi e senza pregiudizio all'ambiente ovvero con trattamenti preventivi che non comportino operazioni di recupero. E’ quindi innegabile la restrizione della definizione comunitaria di rifiuto operata dalla citata legge: infatti, la volontà o l'obbligo di disfarsi del materiale costituisce quest'ultimo come rifiuto secondo il diritto comunitario, sicché il legislatore nazionale non può controqualificarlo come materia prima solo sulla base di una attuale o potenziale riutilizzazione.
L'art. 14 l. 178/02 è vincolante per il giudice in quanto introdotto con atto avente pari efficacia legislativa della norma precedente e perciò non può essere disapplicato dal giudice italiano. Il giudice nazionale, in caso di conflitto tra norma comunitaria e norma interna, in forza del principio di prevalenza del diritto comunitario, deve “non applicare” la norma interna solo quando la norma comunitaria ha diretta efficacia nell'ordinamento nazionale, ma quando - come nel caso di specie - la norma comunitaria non è direttamente efficace, il giudice italiano non ha altra strada che quella di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna per contrasto con gli artt. 11 e 117 Cost.
IL RIUTILIZZO DEI RESIDUI NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CASSAZIONE
Due recenti sentenze della Corte suprema hanno affrontato con non usuale ricchezza di argomenti e chiarezza espositiva una questione ancora problematica qual è quella attinente alla nozione di rifiuto. La prima decisione è del 14 aprile 2005, n. 20499, imp. Colli, la seconda è del 4 marzo 2005, n. 17836, imp. Maretti.
Le sentenze in questione sono accomunate sotto due profili. Uno in diritto, in quanto in entrambe si disserta sul concetto di rifiuto e sull’attiguo concetto di “sottoprodotto” elaborato dalla Corte di Giustizia in alcune note sentenze (su cui v. in appresso); l’altro in fatto, perchè in entrambe le vicende portate all’attenzione del Supremo Collegio era contestata la realizzazione su un’area di un deposito di rifiuti – costituiti, in un caso, da blocchi di cemento con armature, blocchi di marmo, pezzi di tegole, terra, sassi, tubi di plastica, gomme di automezzi, pali di legno e materiale ferroso vario e, nell’altro caso, da terra, asfalto, plastica, carta, legno, ferro, cemento, mattoni, terra da scavo e materiale proveniente da demolizioni - con lo scopo di livellare il terreno e/o procedere al suo riempimento per realizzare successivamente un piazzale ([1]).
Orbene, il nostro interesse per queste sentenze è attirato non solo dalla riflessione su questa ricorrente modalità di impiego dei rifiuti (soprattutto quelli provenienti da demolizione ), ma anche dal fatto che, al centro dell’analisi, è posta con accenti diversi, ma con lo stesso esito decisionale, la questione del “riutilizzo” del residuo/rifiuto e del residuo/sottoprodotto. Ma andiamo con ordine premettendo una breve ricapitolazione del problema ([2]).
Dei “sottoprodotti” si comincia a parlare per la prima volta nella sentenza 18 aprile 2002, C-9/00, Palin Granit ([3]). Il tema è stato poi ripreso nella sentenza 11 settembre 2003, n. 114/01, Avesta-Polarit Chrome Oy ([4]) e da ultimo nella sentenza 11 novembre 2004, C-457/02, Niselli ([5]).
La Corte di Giustizia, nella prima delle menzionate decisioni, aveva infatti scritto che “un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale l’impresa non ha intenzione di «disfarsi» ai sensi dell’art. 1, lett. a), 1° comma, della direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari. Un’analisi del genere non contrasterebbe con le finalità della direttiva 75/442. In effetti, non vi è alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni di quest’ultima, che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero dei rifiuti, beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti. Tuttavia, tenuto conto dell’obbligo, ricordato al punto 23 della presente sentenza, di interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto, per limitare gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro natura, occorre circoscrivere tale argomentazione, relativa ai sottoprodotti, alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione”.
Il pensiero della Corte (peraltro formulato incidentalmente perchè irrilevante nella fattispecie concreta) presenta per la verità alcuni lati oscuri.
Non è infatti chiaro il significato del termine “riutilizzo” ([6]), ma soprattutto genera confusione il fatto che la Corte talora abbia fatto ricorso all’espressione (comunque indeterminata) “nel corso del processo di produzione” e talora alla lievemente diversa espressione “in un processo successivo”.
Invero, la differenza può sembrare solo apparente, ma in realtà, nel primo caso, è accettabile un’interpretazione restrittiva del concetto, che alluda cioè solo al ciclo tecnologico da cui proviene il residuo, mentre nel secondo caso il significato è più ampio tenendo anche conto che, secondo la stessa Corte, “l’impresa può non solo sfruttare, ma anche commercializzare a condizioni per lei favorevoli il sottoprodotto”.
Questo dubbio potrebbe però essere sciolto (a favore della prima opzione) leggendo il paragrafo 52 della sentenza Niselli laddove si dice che “materiali come quelli oggetto del procedimento principale non sono riutilizzati in maniera certa e senza previa trasformazione nel corso di un medesimo processo di produzione o di utilizzazione, ma sono sostanze o materiali di cui i detentori si sono disfatti...”: la frase questa volta pare decisamente meno equivoca ed avalla l’interpretazione da noi avanzata circa la necessaria identità del processo di produzione di provenienza dei residui rispetto a quello in cui gli stessi sono riutilizzati.
Anche a prescindere da questo argomento (in effetti, non sappiamo quanto consapevolmente la Corte abbia fatto ricorso alla riportata espressione), si può provare comunque a ricostruire il pensiero dei Giudici comunitari.
A questo riguardo, è significativo il seguente brano tratto dalla sentenza Palin: “Occorre distinguere, da una parte, i residui che sono utilizzati senza trasformazione preliminare nel processo di produzione per assicurare un necessario riempimento delle gallerie e, dall'altra, gli altri residui. Infatti, i primi sono allora utilizzati come materia nel processo industriale minerario propriamente detto e non possono essere considerati come sostanze di cui il detentore si disfi o abbia intenzione di disfarsi, poiché, invece, esso ne ha bisogno per la sua attività principale. Per quanto riguarda i residui la cui utilizzazione non è necessaria nel processo di produzione per riempire le gallerie, essi devono, in ogni caso, essere considerati nel loro complesso come rifiuti. Ciò è vero non solo per i detriti e la sabbia di scarto la cui utilizzazione per operazioni di costruzione o per altri usi è incerta, ma anche per i detriti che saranno trasformati in conglomerati, poiché, anche quando una tale utilizzazione sia probabile, essa necessita precisamente di un'operazione di recupero di una sostanza che, come tale, non è utilizzata né nel processo di produzione mineraria, né per l'uso finale previsto. Occorre quindi risolvere la prima questione pregiudiziale nel senso che, in una situazione come quella del procedimento principale, il detentore di detriti o di sabbia di scarto da operazioni di arricchimento di minerale provenienti dallo sfruttamento di una miniera si disfa o ha intenzione o l'obbligo di disfarsi di tali sostanze, che devono essere qualificate, di conseguenza, come rifiuti ai sensi della direttiva 75/442, salvo che il detentore li utilizzi legalmente per il necessario riempimento delle gallerie della detta miniera e fornisca garanzie sufficienti sull'identificazione e sull'utilizzazione effettiva delle sostanze destinate a tale effetto”.
Nella sentenza PolaritAvesta, sullo stesso tema, si legge che “Per quanto riguarda i residui la cui utilizzazione non è necessaria nel processo di produzione per riempire le gallerie, essi devono, in ogni caso, essere considerati nel loro complesso come rifiuti. Ciò è vero non solo per i detriti e la sabbia di scarto la cui utilizzazione per operazioni di costruzione o per altri usi è incerta, ma anche per i detriti che saranno trasformati in conglomerati, poiché, anche quando una tale utilizzazione sia probabile, essa necessita precisamente di un'operazione di recupero di una sostanza che, come tale, non è utilizzata né nel processo di produzione mineraria, né per l'uso finale previsto (v. punto 36 della sentenza Palin Granit). Ciò è anche vero per i detriti accumulati in forma di ammassi e che resteranno sul posto a tempo indeterminato, o per la sabbia di scarto che resterebbe nei vecchi bacini di decantazione. Infatti, tali residui non serviranno al processo di produzione, e non possono essere sfruttati o commercializzati in una maniera diversa senza operazioni di trasformazione preliminare. Si tratta di conseguenza di rifiuti di cui il detentore si disfa”.
Da quanto sopra riportato, è ragionevole sostenere che il riutilizzo, quale situazione idonea ad escludere la nascita del rifiuto, non coincide affatto con un generico reimpiego del residuo/sottoprodotto come “materia prima” in un qualsiasi nuovo ciclo produttivo ([7]). Ed è questa la ragione per cui l’art. 14 è gravemente affetto da illegittimità comunitaria ([8]).
Infatti, nel 1° comma la locuzione “nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo” appare in contrasto con la direttiva 75/442/Cee: se il primo (e con cautela anche il secondo) termine è coerente con quanto emerge dalla giurisprudenza comunitaria, l’ultimo termine è invece nettamente collidente con la stessa. Poche parole, invece, per dire che il 2° comma è incompatibile con la citata direttiva perchè prevede la deroga alla nozione di rifiuto anche quando il residuo, per essere riutilizzato, necessiti di trattamenti preventivi.
Che cosa dicono le sentenze Colli e Maretti
Con queste coordinate vanno dunque lette le sentenze che si riportano.
Nella sentenza Maretti l'applicabilità dell'art. 14 è stata esclusa sia perchè i materiali provenienti da demolizioni erano stati smaltiti nel momento in cui erano stati trasportati nel piazzale della società dell’imputato sia perchè l'ipotesi di una riutilizzazione certa e oggettiva dei materiali di che trattasi per la formazione di sottofondi stradali doveva escludersi in quanto, in senso contrario, deponeva l’indizio incontestabile della quantità di rifiuti accumulati sulla località che raggiungeva complessivamente circa 1800 metri cubi.
La Maretti ha però il merito di aver individuato per la prima volta nel ricorso alla Corte costituzionale il rimedio per superare il problema delle conseguenze nell’ordinamento interno della sentenza Niselli.
Al riguardo, è noto che in materia ([9]) si fronteggia la tesi di coloro che sostengono che i giudici e i funzionari dovrebbero far ricorso diretto alla nozione di rifiuto dettata dalla Cee, non applicando la normativa nazionale con essa confliggente, e coloro che sostengono che la cd. disapplicazione della norma interna non sarebbe consentita.
In questo dibattito, da subito ci siamo collocati aderendo da un lato a questa seconda impostazione, ma suggerendo dall’altro lato che la soluzione più corretta del problema andava individuata proprio nel ricorso alla Corte costituzionale ([10]).
Pertanto, con soddisfazione vediamo rispecchiata nella sentenza Maretti la nostra posizione. D’altra parte, va debitamente segnalato che Trib. Terni (ord. 2 febbraio 2005) e Trib. Riesame Venezia (ord. 14 marzo 2005) ([11]) hanno già sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, 25°, 26°, 27°, 28° e 29° comma, della legge delega per l’ambiente 15 dicembre 2004, n. 308, nella parte in cui prevede che i rottami ferrosi siano esclusi dalla normativa sui rifiuti.
Per chiudere sul punto, va aggiunto che un definitivo avallo alla nostra tesi dovrebbe provenire da Corte giust. 3 maggio 2005, cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02, avente ad oggetto la legge italiana sul falso in bilancio.
Infatti, in tale decisione si puntualizza che, in virtù dell’art. 2 c.p., i nuovi artt. 2621 e 2622 c.c. devono essere applicati anche se sono entrati in vigore solo successivamente alla commissione dei fatti che sono all’origine delle azioni penali avviate nelle cause principali in quanto il principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite fa parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e perciò va considerato come parte integrante dei principi generali del diritto comunitario che il giudice nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l’ordinamento comunitario.
Tale chiara presa di posizione (che non si rinveniva nella Niselli) non può dunque che implicare l’impossibilità di una disapplicazione diretta da parte dei giudici nazionali della disposizione interna contraria al diritto comunitario.
La sentenza Colli si colloca idealmente nella stessa scia perchè (v. par 2.2) ribadisce a chiare lettere che la legge italiana va interpretata in sintonia con la normativa comunitaria. Questa infatti la conclusione di una corretta premessa: “Deve allora accedersi, quanto all'ipotesi dei residui di produzione, ad un'interpretazione della fattispecie derogatoria del 2° comma dell'art. 14 l. 178/02 orientata dall'esigenza di conformità alla normativa comunitaria, disattendendosi all'opposto una (pur plausibile) interpretazione estensiva di "beni o sostanze e materiali residuali di produzione", quale rifiuto solo eventualmente riutilizzabile previa trasformazione, perché una tale lettura dell'art. 14 cit. comporterebbe un contrasto con la normativa comunitaria”.
Anche in questa decisione è stata esclusa l’applicabilità dell'art. 14 cit. non sussistendo i presupposti della fattispecie ivi contemplata. Infatti, osserva la Corte, da una parte c'è da considerare che sull'area era depositato un ammasso di blocchi di cemento con armature, blocchi di marmo, pezzi di tegole, terra, sassi, tubi di plastica, gomme di automezzi, pali di legno e materiale ferroso vario: si tratta di un ammasso informe e disomogeneo, di varia provenienza, che di per sé non può qualificarsi come "sottoprodotto". Dall’altra parte, l'impiego certo in un processo di produzione è risultato in concreto escluso sia perché tale ammasso di rifiuti è stato alla fine avviato verso una discarica autorizzata, sia perché - in riferimento all'eventuale utilizzazione in loco come materiale di riempimento, ipotizzata dalla difesa - la concessione edilizia assentita ai proprietari del terreno in questione prevedeva il livellamento dello stesso mediante l'utilizzazione di terreno da riporto, e non già di materiale inerte, in modo da costituire un adeguato strato di terreno da coltivo.
Tuttavia, nel percorso motivazionale svolto per arrivare a questa conclusione abbiamo letto alcune affermazioni che non convincono del tutto come laddove si dice: “occorre essenzialmente distinguere tra "residuo di produzione", che è un rifiuto, pur suscettibile di eventuale utilizzazione, previa trasformazione, e "sottoprodotto", che invece non lo è” (v. par 2.3).
In realtà, il rifiuto può essere riutilizzato anche senza la sua previa trasformazione come dimostra il d.m. 5 febbraio 1998 che elenca molti casi di riutilizzo diretto ed immediato.
Analogamente, è opinabile il passaggio in cui si dice: “Al presupposto della mancanza di pregiudizio per l'ambiente - comunque espressamente richiesto dalla lett. a) del secondo comma dell'art. 14 cit., ma implicitamente sotteso, per una necessaria interpretazione sistematica e complessiva della disposizione, anche nell'ipotesi della lett. b) del medesimo comma - si aggiunge una tipizzazione del materiale di risulta di un processo di produzione, tale da renderlo riconoscibile ex se come "sottoprodotto". Ciò che non nuoce all'ambiente e può essere inequivocabilmente ed immediatamente utilizzato come materia prima secondaria in un processo produttivo si sottrae alla disciplina dei rifiuti, che non avrebbe ragion d'essere; la quale invece trova piena applicazione in tutti i casi di materiale di risulta che possa essere sì utilizzabile, ma solo eventualmente ovvero "previa trasformazione"; ciò che, proprio in ragione del principio di precauzione e prevenzione richiamato dalla Corte di giustizia, comporta l'applicazione della disciplina di controllo dei rifiuti.”
Pare di capire che per la Cassazione una sostanza residuale che abbia tutte le caratteristiche della materia prima (“primaria”) possa essere reimpiegata in un nuovo processo produttivo senza che questa attività costituisca un recupero di rifiuti. Ciò però contrasterebbe con la conclusione cui siamo giunti in precedenza e cioè che il riutilizzo (legittimo) del “sottoprodotto” non può consistere nell’utilizzo dello stesso come materia prima.
L’utilizzo dei rifiuti per il riempimento dei terreni
A questo punto, ci pare interessante verificare come la giurisprudenza abbia affrontato la specifica questione dell’utilizzo dei rifiuti per il “riempimento” e come, più in generale, abbia riflettuto sulla tematica del riutilizzo dei rifiuti e dei sottoprodotti.
Quanto al primo profilo, accenniamo subito a due pronunce che hanno avuto una vasta eco.
Secondo Cass. 11 febbraio 2003, Mortellaro ([12]) i materiali di scavo e sbancamento di una pubblica via, anche se contenenti modeste parti di asfalto, non rientrano nella nozione di rifiuto, atteso che le terre e rocce da scavo, anche se contaminate, sono riutilizzabili purché non provengano da siti inquinati o da bonifiche; la di poco successiva Cass. 25 giugno 2003, Papa ([13]), citata anche nella sentenza Colli ([14]), ribadisce il concetto, ma senza convincerci.
Infatti, nella fattispecie esaminata, vari materiali inerti scaturiti dalla parziale demolizione di un preesistente muro erano stati reimpiegati quale sottofondo di un piazzale. La Cassazione ha osservato che la nuova norma - del tutto legittima quale espressione della volontà del Parlamento - fornisce una "interpretazione autentica " della nozione di rifiuto, pur senza innovare radicalmente rispetto alla normativa comunitaria e nazionale. L'elemento di novità non è costituito dalla restrizione del concetto di rifiuto, ma dalla eliminazione degli elementi di incertezza derivanti da un eccesso di dilatazione della nozione medesima. La norma mira a favorire il riutilizzo, nel senso di escludere il concetto di rifiuto, allorché il soggetto economico interessato abbia deciso di non disfarsi di beni, sostanze e materiali di produzione e di consumo aventi ancora una valenza economica. La norma nazionale di interpretazione autentica non appare in contrasto con i principi comunitari, così come ribaditi in una recente sentenza della Corte di Giustizia in data 18 aprile 2002.
La sentenza si commenta da sè e dunque con crediamo che siano necessarie particolari considerazioni per dimostrare quanto poco la stessa sia coerente con gli insegnamenti del Giudice comunitario!
In senso contrario, è stato affermato che integra il reato di cui all'art. 51, 1° comma, l’utilizzazione di rifiuti speciali, costituiti dagli inerti provenienti dalla demolizione di un fabbricato al fine di innalzare il livello del piano di campagna (così Cass. 7 febbraio 2003, Gardani ([15]); oppure si configura il reato di realizzazione di discarica quando materiali provenienti da demolizioni e scavi vengono scaricati in un'area determinata attraverso una condotta ripetuta, anche se non abituale e protratta per lungo tempo (così Cass. 16 gennaio 2004, Fiato ([16]).
Cass. 27 aprile 2004, n. 32712, Guccinelli, inedita, in una fattispecie in cui su un'area demaniale marittima erano stati eseguiti lavori per l'ampliamento di un piazzale utilizzando anche i materiali derivanti dalla scarifica del preesistente piazzale asfaltato, non solo ha confermato la qualifica di rifiuti (perché si trattava di materiali di cui il detentore si era disfatto), ma ha anche affermato che il riempimento del piazzale costituiva un’operazione di recupero di rifiuti.
In questo ordine di idee, è stato anche detto, in un caso di utilizzo di materiali inerti provenienti da demolizione, senza effettuare i test di cessione, nelle opere di riempimento di un fossato, che la riutilizzazione deve avvenire con modalità tali non arrecare pregiudizi all’ambiente (così Cass. 27 maggio 2004, n. 30127, Piacentino, inedita).
Singolare è il caso giudicato da Cass. 4 febbraio 2005, n. 11092, Amante, inedita: l’imputato venne sorpreso mentre con un escavatore stava interrando tre metri cubi circa di polvere colorante costituente rifiuto non pericoloso. L’imputato si era difeso dicendo di essersi limitato a disperdere le citate polveri sul terreno, senza interrarle, ma per la Corte tale affermazione, oltre che non suffragata da idonei riscontri obiettivi, era comunque irrilevante perchè anche la sola attività di dispersione sul terreno del prodotto realizza la condotta di smaltimento di rifiuti, per la quale è necessaria la prescritta autorizzazione.
Da ultimo, in una fattispecie di realizzazione del sottofondo di un piazzale mediante l'utilizzo di macerie provenienti da altri siti, composte da frammenti di cemento, tubi, plastica, componenti ferrosi, pezzi di legno ed altro materiale impiegato comunque senza una preventiva separazione delle singole componenti e senza la necessaria riduzione volumetrica delle stesse, Cass. 16 febbraio 2005, n. 13159, Nicoletti, inedita ha manifestato una nitida posizione asserendo che il materiale in oggetto non è stato utilizzato all'interno di un ciclo produttivo o di consumo, sia pure diverso da quello di cui costituiva sostanza residuale, ma è stato puramente e semplicemente abbandonato nel luogo dove si intendeva costituire una vasta area da adibire a parcheggio o deposito, non potendosi considerare come lo sviluppo di un qualsivoglia ciclo produttivo la mera azione di spianamento subita da tali rifiuti. In senso conforme, v. anche Cass. 22 febbraio 2005, n. 11127, Conti, inedita ([17]).
Lo stato della giurisprudenza sul riutilizzo
Vediamo ora come la giurisprudenza si sia espressa in termini più generali sulla questione del riutilizzo.
Alcune decisioni, emesse prima di Corte giust. 11 novembre 2004, Niselli, cit., suscitano non poche perplessità: per Cass. 13 dicembre 2002, Pittini ([18]), quando non vi sia la necessità di un trattamento e sussista la possibilità di un riutilizzo immediato dei residui in un nuovo ciclo produttivo, non si può parlare di rifiuto, ma di materia prima secondaria (nella specie, si trattava di rottame ferroso, riutilizzato di per sé, senza alcuna operazione di trattamento preliminare); per Cass. 6 giugno 2003, Agogliati, ([19]), deve escludersi la natura di rifiuto per i beni, sostanze o materiali residuali di produzione o di consumo, qualora siano effettivamente ed oggettivamente riutilizzati, senza alcun trattamento preventivo od anche dopo un trattamento preventivo, purché non vi sia pregiudizio all’ambiente; per Cass. 29 ottobre 2003, Martinengo ([20]), le operazioni di macinazione di sottoprodotti di risulta del processo produttivo, utilizzati parzialmente, unitamente ad altra materia prima, in un ulteriore ciclo produttivo, e per altra parte immessi sul mercato, non configurano attività di recupero dei rifiuti.
Altre (e ben più numerose) sentenze si sono allineate all’interpretazione della Corte di Giustizia: ricordiamo Cass. 22 gennaio 2004, n. 12675, Ticani, inedita ([21]); 14 aprile 2004, n. 23988, Pesce, inedita ([22]); 14 maggio 2004, n. 24329, Ravelli, inedita ([23]); 8 giugno 2004, Cioffi ([24]); 10 giugno 2004, n. 30625, Bellotti, inedita ([25]); 21 settembre 2004, Muzzupappa, ([26]); 5 ottobre 2004, n. 45779, Fiumano', inedita, ([27]); 12 ottobre 2004, Falconi, Ced Cass., rv. 230421 ([28]).
Interrompe questa lunga serie la meno convincente Cass. 27 ottobre 2004, Sollo ([29]), in cui era contestato lo svolgimento di attività consistente nella "selezione, taglio, imballaggio e vendita di indumenti usati": per la Corte tale condotta non è penalmente rilevante perchè ricorre 1'eccezione prevista dal 2° comma, lett. b) dell’art. 14 l. 178/02, in quanto, pur volendo ravvisare la volontà dei precedenti proprietari di disfarsi degli indumenti, invece che quella di cederli magari anche a titolo oneroso, quantunque "usati", non può in alcun modo contestarsi la loro riutilizzazione, in diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo un trattamento preventivo (selezione, taglio, imballaggio, ecc.), senza la necessità di alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C d.leg. 22/97.
Si torna successivamente alla tesi maggioritaria con Cass. 14 gennaio 2005, n. 5472, Capone, inedita ([30]); 19 gennaio 2005, Scipioni, ([31]); 8 marzo 2005, n. 12366, Fatta, inedita, ([32]); 8 marzo 2005, n. 12998, Guerra, inedita, ([33]); 5 aprile 2005, n. 16613, Toppetta, inedita, ([34]); 5 aprile 2005, n. 16879, Chiovoloni, inedita, ([35]).
Sono invece fortemente discutibili Cass. 10 febbraio 2005, Montinaro, ([36]) e Cass. 19 aprile 2005, n. 18229, Toriello, inedita.
Nella prima pronuncia, si discuteva dell’accumulo in un piazzale, da parte di un’impresa esercente l’attività di produzione di conglomerato bituminoso per la realizzazione di manti stradali, oltre che di materiali inerti forniti da altre ditte, anche di materiale proveniente da rifacimenti/demolizioni di strade da parte della stessa ditta, triturato nel luogo di prelievo e poi trasportato presso il proprio piazzale. Secondo la Corte, non si ha stoccaggio di rifiuti perché il detentore non solo non si disfa dei predetti materiali, ma neppure ne ha l’intenzione, mantenendo gli stessi un valore economico, pur se probabilmente modesto.
La sentenza non può essere condivisa. In primo luogo, perché sposta il punto di osservazione dal quale ci si deve porre per stabilire, in relazione al detentore della sostanza, se si possa parlare di rifiuto oppure no.
Orbene, se il rifiuto si origina nel momento in cui da una determinata sostanza non si possa (o non si voglia) più ricavare alcuna ulteriore utilità, il soggetto che ci interessa a questo fine non può che essere colui che produce o ottiene il residuo. La sentenza invece attribuisce la qualità di detentore al soggetto che stoccava il materiale per le sue finalità produttive: impostato così il punto di osservazione, la sentenza non fatica a dire che questo soggetto non vuole affatto disfarsi del materiale in quanto ha intenzione di utilizzarlo per la produzione di conglomerato bituminoso. Ma il problema è proprio quello di aver dimenticato che è il produttore iniziale del residuo che va qualificato “detentore” ed è rispetto al medesimo che occorre verificare se il residuo costituisca un vero e proprio “ingombro” di cui disfarsi.
Va poi evidenziato che la sentenza cerca l’avallo delle proprie conclusioni in Corte giust. Niselli, cit.: non ci sembra, invece, che vi sia compatibilità tra la decisione della Cassazione e la sentenza Niselli. Infatti, la Corte non solo ha ritenuto che l’asfalto, oggetto materiale della fattispecie esaminata, fosse un vero sottoprodotto (il che già ci lascia molto dubbiosi), ma non ha trovato neppure nulla da eccepire sul fatto che il processo di produzione del conglomerato bituminoso fosse necessariamente diverso da quello da cui derivava il residuo, e cioè l’attività di asportazione del manto stradale. Al riguardo, va ricordato che, secondo la giurisprudenza comunitaria citata in precedenza, proprio questo caso costituisce un recupero soggetto alla direttiva Cee.
Nella decisione Toriello si sostiene che la riutilizzazione della sansa, residuata dalla lavorazione delle olive, quale combustibile per alimentare la caldaia per riscaldare l'acqua necessaria per il raffreddamento dei macchinari utilizzati, senza alcun intervento preventivo di trattamento, esclude la natura di rifiuto della sostanza: questa la motivazione forse troppo “lapidaria” con cui la Corte ha risolto il caso in modo che tuttavia risulta non perfettamente collimante con Corte giust. 15 giugno 2000, C-418/97 e 419/97, Arco Chemie Nederland ltd., ([37]) che si è occupata dell’uso come combustibile di residui come i «Luwa-bottoms» e i trucioli di legno.
Insomma, molte sono le questioni la materia di rifiuti ancora aperte. Auspichiamo dunque un impegno ancora più rigoroso della giurisprudenza nell’analisi della vigente normativa per rispondere alle varie problematiche in modo chiaro e persuasivo.