Cass. Sez. III n. 45931 del 6 novembre 2014 (Ud 9 ott 2014)
Pres. Squassoni Est. Pezzella Ric.Cifaldi
Rifiuti. Discarica abusiva e cessazione della pemanenza del reato

Ai fini dell'integrazione del reato di gestione di discarica non autorizzata, rientrano nella nozione di gestione anche la fase post-operativa, successiva alla chiusura, e di ripristino ambientale derivandone che la permanenza del reato previsto dall'art. 51, comma terzo, del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (oggi sostituito dall'art. 256, comma terzo, del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152), per la gestione abusiva o irregolare della fase post-operativa di una discarica, cessa o con il venir meno della situazione di antigiuridicità per il rilascio dell'autorizzazione amministrativa, la rimozione dei rifiuti o la bonifica dell'area o con il sequestro che sottrae al gestore la disponibilità dell'area, o, infine, con la pronuncia della sentenza di primo grado

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di Appello di Bari, pronunciando nei confronti dell'odierno ricorrente C.N., con sentenza del 06.11.2013, confermava la sentenza del Tribunale di Trani sezione distaccata di Canosa di Puglia del 29.01.2013, con condanna al pagamento delle ulteriori spese processuali.

Il Tribunale di Trani sezione distaccata di Canosa di Puglia aveva dichiarato l'imputato colpevole del reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 3 perchè, in qualità di legale rappresentante della SEMFO Sas dei F.lli C., nella cava di calcare sita in (OMISSIS), raccoglieva e gestiva una discarica abusiva di rifiuti inerti conferiti da terzi, nella specie terra e roccia provenienti da scavi, mista a rifiuti dalle demolizioni e costruzioni di case, in (OMISSIS), condannandolo, previa concessione delle attenuanti generiche, alla pena di 4 mesi di arresto e Euro 2200,00 di ammenda, oltre al pagamento delle spese processuali, confisca dell'area in sequestro e ripristino dello stato dei luoghi, pena sospesa, subordinatamente alla pubblicazione della sentenza entro due mesi dal suo passaggio in giudicato su "La gazzetta del mezzogiorno edizione Nord Barese", assoluzione dalle altre ipotesi di reato contestate perchè il fatto non sussiste.

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore, C.N., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:

a. Violazione, inosservanza ed erronea applicazione di legge penale in relazione agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. - difetto di motivazione.

Il ricorrente deduce la nullità della sentenza, in quanto all'imputato sarebbe stato contestato il reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, lett. a), raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti) e non l'ipotesi di reato prevista dal comma 3, realizzazione e gestione di una discarica non autorizzata, per la quale sarebbe stata emessa la sentenza di condanna.

L'imputato sarebbe stato condannato per un reato mai contestato e mai trattato nel corso del giudizio.

b. Violazione, inosservanza ed erronea applicazione di legge penale in relazione agli artt. 498 e 507 cod. proc. pen. - difetto di motivazione.

Il ricorrente deduce la nullità e/o inutilizzabilità delle prove raccolte.

Nel processo di primo grado il teste M., ascoltato ai sensi dell'art. 507 cod. proc. pen., sarebbe stato escusso prima della conclusione dell'attività istruttoria richiesta dalle parti e ammessa dal Tribunale.

Il Giudice avrebbe realizzato un'intromissione nell'espletamento della prova e sul punto la Corte di appello avrebbe ritenuto generici i rilievi mossi nell'impugnazione e non avrebbe ravvisato violazioni di norme processuali.

L'atto di appello, invece, avrebbe mosso specifici e dettagliati rilievi relativamente all'esame del teste, che sarebbe stato svolto direttamente dal Giudice formulando domande vietate, e al controesame del P.M. in cui sarebbero state formulate domande nuove non derivanti da fatti emersi durante il controesame della difesa.

c. Violazione, inosservanza ed erronea applicazione di legge penale in relazione al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 3 - motivazione insufficiente e contraddittoria.

La Corte territoriale avrebbe ritenuto l'esistenza di una discarica abusiva e la consequenziale responsabilità del C. con una motivazione in contrasto con gli atti di causa.

Riporta le dichiarazioni rese dai verbalizzanti che si sarebbero recati sul posto una sola volta, notando la presenza di tufi e calcinacci in una zona limitata del piazzale, senza la presenza di mezzi nè uomini. Non vi sarebbe poi nessuna prova dell'avvenuto degrado dell'area per il conferimento dei rifiuti.

Ancora la sentenza impugnata avrebbe ritenuto inattendibile il teste della difesa perchè lavoratore dipendente dell'imputato.

Rileva che nessun interesse avrebbe avuto lo stesso teste, semplice dipendente della ditta e proprio per tale motivo, a conoscenza dei fatti.

d. Violazione, inosservanza ed erronea applicazione di legge penale in relazione agli artt. 132, 133 e 165 cod. pen. - difetto di motivazione.

La Corte di appello e il Tribunale non avrebbero motivato in merito al potere discrezionale concesso nella determinazione della pena.

Non sarebbe condivisibile la decisione di irrogare la sanzione della pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta del Mezzogiorno e di subordinare la sospensione a detta pubblicazione.

La confisca risulterebbe ineseguibile perchè ad incertam rem.

e. Declaratoria di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, con ogni consequenziale provvedimento di legge ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b).

La Corte di appello avrebbe rilevato che il reato commesso in data 8.7.08, non era prescritto al momento della pronuncia perchè il termine era stato sospeso per un ulteriore periodo di 133 giorni.

Il termine massimo di prescrizione però, sarebbe comunque spirato in data 18.11.13, prima che le motivazioni della sentenza, pronunciata il 6.11.2013, fossero depositate (lo sarebbero state poi il 19.11.13).

Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I motivi sopra illustrati sono manifestamente infondati e pertanto il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.

2.1 motivi di ricorso costituiscono riproposizione dei motivi di appello già attentamente valutati e motivati dalla Corte territoriale in sentenza.

Il ricorrente, non senza evocare in larga misura censure in fatto non proponibili in questa sede, si è nella sostanza limitato a riprodurre le stesse questioni già devolute in appello e da quei giudici puntualmente esaminate e disattese con motivazione del tutto coerente e adeguata che il ricorrente non ha in alcun modo sottoposto ad autonoma e argomentata confutazione.

E' ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, dal momento che quest'ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso sez. 2, n. 29108 del 15.7.2011, Cannavacciuolon non mass.; conf. sez. 5, n. 28011 del 15.2.2013, Sammarco, rv. 255568; sez. 4, n. 18826 del 9.2.2012, Pezzo, rv. 253849; sez. 2, n. 19951 del 15.5.2008, Lo Piccolo, rv. 240109; sez. 4, n. 34270 del 3.7.2007, Scicchitano, rv. 236945; sez. 1, n. 39598 del 30.9.2004, Burzotta, rv. 230634; sez. 4, n. 15497 del 22.2.2002, Palma, rv. 221693).

3. La sentenza è ampiamente e correttamente motivata.

Sul primo motivo (sub a.) relativo all'assenza di corrispondenza tra imputazione e condanna, la sentenza impugnata evidenzia che "il capo di imputazione, nella sua parte descrittiva fa esplicito riferimento alla raccolta e gestione di una discarica di rifiuti inerti".

I giudici del gravame di merito, sul punto, hanno risposto in motivazione facendo proprio l'indirizzo stabilito da questa Corte Suprema secondo cui l'indicazione non corretta o mancante delle norme di legge violate assume un ricontenga tutti gli elementi naturalistici, oggettivi e soggettivi, che rilevano ai fini della tipicità del reato, anche circostanziato (sez. 4, n. 6821 dell'11.5.1999, Mosquera, rv. 213818).

Questa Corte ha anche, più volte, affermato il principio, che va qui ribadito, che non sussiste violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza quando non muta il fatto storico sussunto nell'ambito della contestazione (così, in ultimo, questa sez. 3, n. 5463 del 5312.2013 dep. il 4.2.2014, Diouf, rv 258975, conf. sez. 3, n. 12443 dell'11.2.2010, Coculo e altro, rv. 246458).

L'argomentazione svolta dal ricorrente muove, con tutta evidenza, da un'erronea interpretazione della ratio e del raggio di azione della disposizione di cui all'art. 521 cod. proc. pen.. Quest'ultima, infatti, è stata prevista all'evidente scopo di impedire che un soggetto possa essere condannato per un fatto diverso da quello sul quale era stato chiamato a difendersi, ma tale rischio, chiaramente, non si corre quando il fatto resti lo stesso e muti semplicemente, in sede di sentenza, la qualificazione giuridica che si decida di dare al fatto.

Nel caso che ci occupa è rimasto integro il contenuto fattuale dell'accusa, siccome cristallizzato e consolidato ab inizio nel capo d'imputazione ove, al di là della correttezza nell'indicazione della norma violata, si parla chiaramente di raccolta e gestione di una discarica abusiva di rifiuti inerti conferiti da terzi, nella specie terra e roccia provenienti da scavi, mista a rifiuti dalle demolizione e costruzioni di case, oltre che di scarico diretto abusivo delle acque reflue industriali.

Lo ricorda in maniera congrua e logica, rispondendo allo specifico motivo di appello, la Corte barese, rilevando come questa sia stata la condotta esaminata in dibattimento su cui si sono potuti confrontare pubblica accusa e difesa e valutata dal primo giudice, previo corretto inquadramento giuridico della fattispecie (partendo dalla definizione di discarica abusiva e distinguendo tale ipotesi da quella di abbandono incontrollato di rifiuti e riportandola nell'ambito del terzo comma primo periodo, e non già del comma 1 della norma indicata dall'accusa). In tale contesto, condivisibilmente, la Corte territoriale rileva essere irrilevante il diverso trattamento sanzionatorio previsto dalle norme, incentrandosi il diritto di difesa sul fatto contestato al quale deve corrispondere la sentenza.

4. Manifestamente infondato è anche il motivo di ricorso sopra illustrato sub b.

Va qui, infatti, ribadito il principio e l'indirizzo, contrario a quello isolato e risalente nel tempo indicato in ricorso, per cui l'assunzione di una testimonianza ai sensi dell'art. 507 cod. proc. pen. in un momento diverso da quello indicato dalla norma ("terminata l'acquisizione delle prove") costituisce mera irregolarità e non è sanzionata nè sotto il profilo della nullità, nè sotto quello dell'inutilizzabilità; in particolare non può ravvisarsi, in tale ipotesi, alcuna nullità di ordine generale ricollegabile all'art. 178 c.p.p., lett. c), in quanto l'escussione di un teste, "anticipata" rispetto al termine dell'acquisizione delle prove, non può incidere sull'assistenza, sulla rappresentanza o sull'intervento dell'imputato (cfr. sez. 1, n. 9707 del 10.8.1995, Caprioli, rv. 202304, conf. sez. 1 n. 24018 del 20.3.2002, Carboni e altri, rv. 221890; sez. 6, n. 2424 del 6.11.2009 dep. 20.1.2010; sez. 5, n. 26163 dell'11.5.2010, Bontempo, rv. 247896).

Il ricorrente si duole, poi, che il giudice si sia sostituito al Pm nell'esame del testimone, cui avrebbe formulato domande platealmente suggestive e persino nocive".

La giurisprudenza di questa Corte, invero, è divisa in ordine alla possibilità per il giudice di formulare domande suggestive.

Vi è stato un primo orientamento che affermava che nel corso dell'esame testimoniale, il divieto di porre domande suggestive non operasse con riguardo al giudice, il quale potrebbe rivolgere al testimone qualsiasi domanda, con esclusione di quelle nocive, ritenuta utile a fornire un contributo per l'accertamento della verità (così sez. 3, n. 27068 del 20.5.2008, B., rv. 240261; conf. sez. 3 n. 9157 del 28.10.2009 dep. l'8.3.2010, C. , rv. 246205).

Vi sono state, poi, pronunce successive che hanno affermato il principio contrario secondo cui il divieto di porre al testimone domande suggestive si applica a tutti i soggetti che intervengono nell'esame, operando, ai sensi dell'art. 499 cod. proc. pen., comma 2 per tutti costoro, il divieto di porre domande che possono nuocere alla sincerità della risposta e dovendo, anche dal giudice, essere assicurata, in ogni caso, la genuinità delle risposte ai sensi del comma sesto del medesimo articolo (sez. 3, n. 7373 del 18.1.2012, B. rv. 252134; conf. sez. 3 n. 25712 dell'11.5.2011, M., rv. 250615).

Nel caso che ci occupa, tuttavia, il Collegio ritiene di non essere chiamato a prendere posizione sulla querelle interpretativa.

Ciò in quanto, come rileva la Corte territoriale, il rilievo sul punto è assolutamente generico e aspecifico, in quanto non vengono mai indicati quali specifici interventi "siano da considerarsi ad avviso della difesa fuorvianti rispetto alla regola processuale della formazione della prova in dibattimento, nel contraddittorio delle parti".

Rispondendo alla specifica doglianza sul punto, i giudici baresi evidenziano poi come "dalla lettura dei verbali di udienza si evince (...) la chiara esposizione dei fatti da parte dei militari escussi, le precisazioni richieste dal giudice per circostanziare tali fatti, la possibilità per la difesa di sottoporre ad esame i testi e di formalizzare le proprie eccezioni: il tutto nel sostanziale rispetto delle regole processuali".

Quanto al fatto che il giudice abbia, a tratti, condotto l'esame del teste in luogo del Pm, ribadito che lo stesso può intervenire in ogni momento nella direzione del dibattimento con domande "a chiarimento" e che è conforme ad economia processuale e ad una maggiore chiarezza del mezzo di prova che si va ad assumere che tali chiarimenti vengano richiesti quando ne emerga la necessità e non all'esito dell'esame a richiesta delle parti, va evidenziato che la Corte territoriale ha fatto buon governo della giurisprudenza di questa Corte di legittimità, che in più occasioni ha affermato che l'assunzione della prova direttamente a cura del presidente (o del giudice) non può dirsi conforme alle regole che disciplinano la prova stessa, perchè comunque viola la disposizione per la quale - salvi alcuni casi particolari - le domande sono rivolte al testimone direttamente dalle parti processuali (art. 498 c.p.p., comma 1), ma che va esclusa, nondimeno, la ricorrenza della sanzione di inutilizzabilità (art. 191 cod. proc. pen.), posto che non si tratta di prova assunta in violazione di divieti posti dalla legge bensì di prova assunta con modalità diverse da quelle prescritte, così come va esclusa la ricorrenza di nullità, posto che la deroga alle norme indicate non è riconducibile ad alcuna delle previsioni delineate dall'art. 178 codice di rito (sez. 2, n. 35445 dell'8.7.2002 dep. l'11.9.2003, Natalotto, rv. 227360).

Ciò è peraltro conforme al dictum, risalente agli albori del codice di rito vigente, secondo cui l'inutilizzabilità di una prova, secondo quanto disposto dall'art. 191 c.p.p., comma 1, ha luogo soltanto quando quella prova sia stata assunta "in violazione dei divieti stabiliti dalla legge" e non quando l'assunzione, pur consentita, sia stata effettuata senza l'osservanza delle prescritte formalità. In tale ultima ipotesi, infatti, può trovare applicazione soltanto il diverso istituto della nullità (così, ex plurimis, sez. 1, n. 6922 dell'11.5.1992, Cannarozzo, rv. 190571).

5. Manifestamente infondato è, ancora, il motivo sub e, rubricato alternativamente come inosservanza ed erronea applicazione di legge penale e/o come vizio motivazionale, ma con cui, in realtà, si chiede a questa Corte una rivalutazione complessiva del fatto e delle testimonianze, che evidentemente non è consentita in questa sede.

Sul punto va ricordato che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. vedasi questa sez. 3, n. 12110 del 19.3.2009 n. 12110 e n. 23528 del 6.6.2006).

Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l'illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (sez. 3, n. 35397 del 20.6.2007; Sez. Unite n. 24 del 24.11.1999, Spina, rv. 214794).

Più di recente è stato ribadito come ai sensi di quanto disposto dall'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene nè alla ricostruzione dei fatti nè all'apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell'atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l'assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento, (sez. 2, n. 21644 del 13.2.2013, Badagliacca e altri, rv. 255542).

Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto.

Non c'è, in altri termini, come richiesto nel presente ricorso, la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. E ciò anche alla luce del vigente testo dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46. Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.

Il ricorrente non può, come nel caso che ci occupa limitarsi a fornire una versione alternativa del fatto, senza indicare specificamente quale sia il punto della motivazione che appare viziato dalla supposta manifesta illogicità e, in concreto, da cosa tale illogicità vada desunta.

Il vizio della manifesta illogicità della motivazione deve essere evincibile dal testo del provvedimento impugnato. Com'è stato rilevato nella citata sentenza 21644/13 di questa Corte la sentenza deve essere logica "rispetto a sè stessa", cioè rispetto agli atti processuali citati. In tal senso la novellata previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da "altri atti del processo", purchè specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto.

Avere introdotto la possibilità di valutare i vizi della motivazione anche attraverso gli "atti del processo" costituisce invero il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto "travisamento della prova" che è quel vizio in forza del quale il giudice di legittimità, lungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti per verificare se il relativo contenuto è stato o meno trasfuso e valutato, senza travisamenti, all'interno della decisione.

In altri termini, vi sarà stato "travisamento della prova" qualora il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste (ad esempio, un documento o un testimone che in realtà non esiste) o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale (alla disposta perizia è risultato che lo stupefacente non fosse tale ovvero che la firma apocrifa fosse dell'imputato). Oppure dovrà essere valutato se c'erano altri elementi di prova inopinatamente o ingiustamente trascurati o fraintesi. Ma - occorrerà ancora ribadirlo - non spetta comunque a questa Corte Suprema "rivalutare" il modo con cui quello specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito, giacchè attraverso la verifica del travisamento della prova.

Per esserci stato "travisamento della prova" occorre che sia stata inserita nel processo un'informazione rilevante che invece non esiste nel processo oppure si sia omesso di valutare una prova decisiva ai fini della pronunzia.

In tal caso, però, al fine di consentire di verificare la correttezza della motivazione, va indicato specificamente nel ricorso per Cassazione quale sia l'atto che contiene la prova travisata o omessa.

Il mezzo di prova che si assume travisato od omesso deve inoltre avere carattere di decisività. Diversamente, infatti, si chiederebbe al giudice di legittimità una rivalutazione complessiva delle prove che, come più volte detto, sconfinerebbe nel merito.

Se questa, dunque, è la prospettiva ermeneutica cui è tenuta questa Suprema Corte, le censure che il ricorrente rivolge al provvedimento impugnato si palesano manifestamente infondate, non apprezzandosi nella motivazione della sentenza della Corte d'Appello di Bari alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva.

Il ricorrente non contesta il travisamento di una specifica prova, ma sollecita a questa Corte una diversa lettura dei dati processuali non consentito in questa sede di legittimità.

I giudici del gravame di merito con motivazione specifica, coerente e logica hanno, infatti, dato conto (cfr. pagg. 10 della sentenza impugnata) di come i testi avessero riferito che all'interno dell'ampia zona interessata dalla cava di calcare gestita dal C., in un'area originariamente pianeggiante, fosse stato riscontrato un accumulo di rifiuti con caratteristiche tali (natura, quantità, eterogeneità, dislocazione sul terreno) da escludere che si trattasse di un deposito temporaneo ed occasionale, con conseguente degrado dell'aria.

La Corte territoriale ha ripercorso il contenuto delle testimonianze degli operanti, appartenenti al nucleo ambientale della provincia di Bari, evidenziando correttamente come il divieto di esprimere apprezzamenti personali non si applichi nel caso in cui il testimone sia - come nell'ipotesi in argomento - persona particolarmente qualificata, in conseguenza della sua preparazione professionale, quando i fatti in ordine ai quali viene esaminato siano inerenti alla sua attività, giacchè l'apprezzamento diventa inscindibile dal fatto, dal momento che quest'ultimo è stato necessariamente percepito attraverso il filtro delle conoscenze tecniche professionali del teste (così sez. 5, n. 42634 del 29.9.2004, Comberlato, rv. 230330; conf. sez. 2 n. 12942 del 16.1.2007, Mocci, rv. 236384; sez. 2, n. 40840 del 19.9.2007, Ranieri, rv. 238758; sez. 5, n. 38221 del 12.6.2008, Kofilova, rv. 241312; sez. 2 n. 44326 dell'11.11.2010, Tavernari, rv. 249180).

La Corte territoriale, con una motivazione logica e congrua - e pertanto immune dai denunciati vizi di legittimità - evidenzia, peraltro, come i testi abbiano riferito di fatti e circostanze che non risultano sconfessati da alcuna produzione difensiva (nella specie i tempi di accumulo, l'epoca di sedimentazione del materiale, la sua variegata composizione riconducibile a rifiuti edilizi, gli effetti del deposito sull'assetto morfologico del sito, il generale stato di degrado dell'area).

I giudici baresi danno anche conto del perchè non apparissero rilevanti le divergenze quantitative evidenziate dalla difesa, su come i testi escussi avessero fatto riferimento alle eloquenti foto acquisite agli atti e di come gli stessi testi avessero completato il loro ragionamento deduttivo facendo cenno a due altre circostanze, direttamente percepite, che confermano la destinazione dell'area in argomento a discarica: le tracce di pneumatici di mezzi che si recavano appositamente in quella zona, presumibilmente per scaricare materiale (atteso che l'area non era accessibile dall'esterno se non dall'unico cancello posto all'ingresso della cava) e l'estraneità all'attività produttiva autorizzata di ogni forma di recupero e riutilizzo di quei materiali inerti.

Infine, i giudici del gravame del merito rispondono anche sulle dichiarazioni del teste a discarico specificando le ragioni per cui ritengono che le sue affermazioni, contrastanti non solo con le testimonianze, ma anche con lo stato dei luoghi che si evince delle foto, non siano idonee ad inficiare l'assunto accusatorio.

Rispetto a tale motivata, logica e coerente pronuncia il ricorrente chiede una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione. Ma per quanto sin qui detto un siffatto modo di procedere è inammissibile perchè trasformerebbe questa Corte di legittimità nell'ennesimo giudice del fatto.

6. Manifestamente infondato e anche il motivo di ricorso sopra illustrato sub d. con cui ci si duole, ancora una volta alternativamente denunciando violazione di legge e/o vizio motivazionale, in ordine all'esercizio da parte del giudice del merito del potere discrezionale concessogli nella determinazione della sanzione, con particolare riferimento alla decisione in ordine alla pubblicazione della sentenza, cui è stata subordinata la sospensione condizionale della pena, e alla confisca.

Il giudice d'appello ha fornito una risposta congrua e logica anche sul punto, che viene oggi riproposto, evidenziando che la confisca non riguarda la cava ma solo l'area destinata a discarica abusiva (un piazzale che non costituisce zona di passaggio e che non risulta impiegato per l'attività estrattiva) e che eventuali problemi di esatta delimitazione della stessa potranno essere adeguatamente risolti in sede di esecuzione, non potendo certo gli stessi impedire l'applicazione della misura, obbligatoria per legge ai sensi dell'art. 256, comma 3, testo unico ambientale.

Congrua è anche la valutazione operata dai giudici baresi laddove hanno risposto sul punto della pubblicazione della sentenza, cui è stata condizionata all'efficacia della sospensione condizionale della pena, che per la seconda volta è stata concessa all'imputato, evidenziando la rilevanza del danno prodotto all'ambiente dal reato.

7. Infine, manifestamente infondate sono le questioni che attengono all'intervenuta prescrizione del reato (motivo sub e.).

Va qui ribadito il recente dictum questa Corte secondo cui ai fini dell'integrazione del reato di gestione di discarica non autorizzata, rientrano nella nozione di gestione anche la fase post-operativa, successiva alla chiusura, e di ripristino ambientale derivandone che la permanenza del reato previsto dal D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 51, comma 3, (oggi sostituito dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 256, comma 3), per la gestione abusiva o irregolare della fase post-operativa di una discarica, cessa o con il venir meno della situazione di antigiuridicità per il rilascio dell'autorizzazione amministrativa, la rimozione dei rifiuti o la bonifica dell'area o con il sequestro che sottrae al gestore la disponibilità dell'area, o, infine, con la pronuncia della sentenza di primo grado (sez. 3, n. 32797 del 18.3.2013, P.G., R.C., Rubegni ed altri, rv. 256664).

Nella medesima pronuncia si precisa anche: 1) che in tema di tutela dell'ambiente, le rocce e le terre da scavo che presentino sostante esterne inquinanti sono sottratte alla disciplina sui rifiuti solo in presenza: a) di caratteristiche chimiche che escludano una effettiva pericolosità per l'ambiente; b) di approvazione di un progetto che ne disciplini il reimpiego; c) di prova dell'avvenuto rispetto dell'obbligo di reimpiego secondo il progetto; 2) che in tema di discarica, il mancato esercizio dell'attività di controllo e vigilanza della stessa, anche dopo la cessazione dei conferimenti, lungi dal rientrare in un generico obbligo di eliminare le conseguenze del reato già perfezionato ed esaurito o dall'integrare il reato D.Lgs. n. 252 del 2006, ex art. 257, relativo alla bonifica dei siti inquinati, è parte costitutiva del reato di gestione di discarica ambientale, (sez. 3, n. 32797 del 18.3.2013, P.G., R.C., Rubegni ed altri, rv. 256661-63).

In applicazione del principio, nella sentenza Rubegni, questa Corte ha annullato la sentenza che aveva ritenuto di fissare la cessazione della permanenza del reato di gestione di discarica non autorizzata in coincidenza con l'ultimo conferimento.

Va peraltro rilevato che, anche a voler accedere alle modalità di calcolo della prescrizione operate dal ricorrente, che individua il dies a quo nell'8.7.2008 (data dell'accertamento) e - tenuto conto dei 133 giorni di sospensione della prescrizione di cui da pure conto la Corte di appello a causa del rinvio per l'astensione degli avvocati dell'udienza del 18 settembre 2012 - afferma essersi reato prescritto il 18.11.2013, la prescrizione non era maturata allorquando, in data 6 novembre 2013, vi è stata la sentenza di secondo grado.

Diversamente da quanto sostiene il ricorrente, infatti, è pacifica la giurisprudenza di questa Corte Suprema - che va qui riaffermata - secondo cui, ai fini dell'interruzione della prescrizione, rileva il momento della lettura del dispositivo della sentenza di condanna e non quello, successivo, del deposito della motivazione (così, in ultimo, questa sez. 3, n. 18046 del 9.2.2011, Morrà, rv. 250328; conf. sez. 5, n. 46231 del 4.11.2003, Bertolino, rv. 227575; sez. 3, n. 12823 del 20.10.1980, Garetti, rv. 146949).

Nè potrebbe porsi in questa sede la questione di un'eventuale declaratoria della prescrizione maturata dopo la sentenza d'appello, in considerazione della manifesta infondatezza del ricorso.

La giurisprudenza di questa Corte Suprema ha, infatti, più volte ribadito che l'inammissibilità del ricorso per cassazione, dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi, non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen. (Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32, De Luca, rv. 217266: nella specie la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. un., 2 marzo 2005, n. 23428, Bracale, rv. 231164, e Sez. un., 28 febbraio 2008, n. 19601, Niccoli, rv. 239400; in ultimo sez. 2, n. 28848 dell'8.5.2013, rv. 256463).

8. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2014.