Cass. Sez. III n. 4973 del 1 febbraio 2019 (Ud 18 ott 2018)
Pres. Cervadoro Est. Di Nicola Ric. Mastroianni
Rifiuti.Inosservanza prescrizioni e mancanza di autorizzazione

In tema di gestione di rifiuti l’inosservanza delle prescrizioni e la mancanza di autorizzazione, quantunque in astratto concedibile, e dunque la carenza del prescritto controllo amministrativo preventivo sullo svolgimento dell’attività determinano situazioni intrinseche di rischio, essendo suscettibili di mettere in pericolo la salubrità dell’ambiente.

RITENUTO IN FATTO

1. Antonio Mastroianni ricorre per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale il tribunale di Firenze lo ha condannato, con il vincolo della continuazione, alla pena di ottomila euro di ammenda per i il reato previsto dall’articolo 256, comma 1, lettera a), commi 2 e 4, del decreto legislativo 3 aprile 2006,n l. 152 perché, quale amministratore e legale rappresentante della Scaviter S.r.l., effettuava un’attività di gestione di rifiuti non autorizzata ed in particolare:
- nell’anno 2014 illecitamente commercializzava come materie prime seconde “macerie” e “terre e rocce” che, per la sistematica inosservanza delle procedure di analisi previste per la procedura di conformità “end of wast”, dovevano essere qualificati come rifiuti;
- depositava in maniera incontrollata peraltro fuori dai locali dell’impresa, 800 tonnellate di “macerie” che, per la sistematica inosservanza delle procedure di analisi previste per la procedura di conformità “end of wast”, dovevano essere qualificati come rifiuti, come constatato durante il sopralluogo ispettivo del 23 gennaio 2015;
- violava le prescrizioni inerenti l’autorizzazione e segnatamente organizzava l’impianto in difformità alla planimetria, non provvedeva alla copertura dei mucchi di rifiuti con teloni per il contenimento delle polveri diffuse, l’impianto era privo di idoneo sistema di canalizzazione di acque meteoriche, gestiva quantitativi di rifiuti superiori a quelli autorizzati, come constatato durante il sopralluogo ispettivo del 23 gennaio 2015. In Fucecchio alle date indicate.
L’imputato veniva, invece, assolto dal medesimo reato in relazione al fatto di aver, nel periodo 1 maggio 2014 - 5 agosto 2014, effettuato operazioni di messa in riserva (R13) di conglomerato bituminoso e macerie, non previste nelle autorizzazioni della Circondario Empolese Valdelsa, in quanto non autorizzate neppure alla precedente società a cui la Scaviter era subentrata.

2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza il ricorrente, per il tramite del suo difensore, articola due motivi di gravame, qui enunciati, ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale nella parte in cui il Tribunale ha attribuito natura di rifiuto alle macerie e terre e rocce di scavo commercializzate dalla società dell’imputato nell’anno 2014 (articolo 606, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale), sul rilievo che, come riferito in dibattimento dall’ufficiale di polizia giudiziaria escusso come teste all’udienza del 5 giugno 2017, alcun concreto accertamento era stato svolto da Arpat e/o da altri organi relativamente alle attività di trattamento poste in essere da Scaviter S.r.l. sui materiali prima della loro commercializzazione, risultando una mera presunzione del predetto teste, fatta propria dal Tribunale, quella secondo cui “non sempre questi rifiuti venivano sottoposti a questa analisi con la periodicità appunto prevista …” anche perché lo stesso teste, contraddicendo se stesso, aveva altresì asserito che l’impresa dell’imputato trattava rifiuti, ragione per cui non può escludersi che sia stata eseguita un’attività di recupero ex articolo 183, comma 1, lettera t), del decreto legislativo n. 152 del 2006 che fa cessare, ex articolo 184-ter, del decreto legislativo n. 152 del 2006, la natura di rifiuto del materiale.
Ne consegue, ad avviso del ricorrente, che il tribunale di Firenze – nella parte in cui ha ritenuto che i materiali, pur trattati e lavorati da Scaviter S.r.l., dovessero ritenersi ancora rifiuti (rappresentando, perciò, la loro commercializzazione un illecito punibile ai sensi dell’articolo 256, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 152 del 2006) – non ha rispettato e/o ha erroneamente applicato il disposto normativo in materia di rifiuti e segnatamente non ha preso in considerazione l’articolo 183, comma 1, lettera t), del decreto legislativo 152 del 2006 e o l’articolo 184-ter stesso decreto, ossia norme che escludono la punibilità dell’imputato per il fatto contestato al secondo punto del capo di imputazione.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione (articolo 606, comma 1, lettera e), del codice di procedura penale), sul rilievo che il Tribunale, laddove ha ritenuto provata la penale responsabilità per gli ultimi tre punti contestati nel capo di imputazione, non ha fornito in sentenza una motivazione logica e coerente.
In particolare, con riguardo al secondo punto del capo di imputazione, rileva il ricorrente che, in ogni caso, la responsabilità sarebbe stata affermata in maniera del tutto dubitativa, ossia in difetto di riscontri probatori ed accertamenti sull’attività eseguita dalla società del ricorrente, cosicché lo stesso Tribunale non ha escluso che i materiali venduti dalla Scaviter S.r.l. fossero stati precedentemente sottoposti ad un’ attività di recupero che avrebbe reso lecita la loro vendita a terzi e conseguentemente è apparsa illogica e non corretta la motivazione della sentenza di condanna in parte qua.
Identico discorso il ricorrente svolge con riferimento agli ultimi tre punti contestati nel capo di imputazione non avendo il Tribunale considerato adeguatamente la deposizione del consulente tecnico della difesa e le relative produzioni documentali.
In particolare, con riguardo al terzo punto (deposito incontrollato dei rifiuti), il Tribunale non avrebbe fornito una motivazione corretta e conforme alle risultanze istruttorie del proprio assunto secondo cui le materie accatastate “fuori dei locali dell’impresa” dovessero qualificarsi come rifiuti in quanto materiali già trattati, per i quali però non erano state osservate le procedure legali, attesa l’evidente difformità fra le relative dichiarazioni rese dal teste di accusa e quanto invece asserito dal consulente tecnico della difesa che, in ordine ai predetti materiali, aveva riferito che gli stessi potevano essere definiti come materie prime secondarie avendo caratteristiche tali per cui potevano essere considerati come non rifiuti.
Identico vizio nella motivazione il ricorrente riscontra nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto non pertinenti le circostanze riferite dal consulente tecnico della difesa in ordine alla pratiche edilizie in corso presentate dalle imprese alle quali la Scaviter S.r.l. era subentrata, giacché il primo titolo rilasciato dal Comune di Fucecchio alle predette società escludeva ogni illecito atteso che la Scaviter era stata incaricata di eseguire opere di urbanizzazione al di fuori del proprio impianto e quindi sussisteva un titolo abilitante per poter mettere le materie prime secondarie fuori dal cancello nell’area davanti all’impianto.
Stesse considerazioni varrebbero con riguardo all’autorizzazione unica ambientale richiesta dalla società del ricorrente sin dall’ottobre 2014 che comprendeva e prevedeva “tutti gli endoprocedimenti finalizzati a garantire una gestione dell’impianto nel rispetto della tutela ambientale” e che, nonostante le lungaggini burocratiche era stata autorizzata in data 29 settembre 2016, senza che fosse stato contestato alcunché al relativo progetto presentato avendo, infatti, avuto esito negativo anche il procedimento di assoggettabilità a valutazione integrata ambientale richiesto e disposto dalla Città metropolitana di Firenze.
Tanto più che il progetto alla base dell’autorizzazione unica ambientale era stato ritenuto idoneo ad escludere la sussistenza della contravvenzione contestata per cui la motivazione resa dal tribunale di Firenze sarebbe in parte qua palesemente contraddittoria laddove ha dichiarato non pertinente tale documento, con la conseguenza che le precedenti considerazioni rendevano palese la totale rilevanza, ai fini della esclusione della penale responsabilità del ricorrente, dei due titoli amministrativi depositati in dibattimento e delle relative considerazioni svolte sul punto dal consulente tecnico della difesa, apparendo perciò manifestamente illogico e in contrasto con l’impianto istruttorio acquisito al processo il ragionamento logico operato dal tribunale di Firenze per ritenere illecito tanto il deposito dei materiali fuori dai locali aziendali, quanto non rispettoso delle prescrizioni ambientali l’impianto della Scaviter S.r.l.

CONSIDERATO IN DIRITTO
    
1. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza e perché presentato nei casi non consentiti.
    
2. Il Tribunale ha ritenuto che i tecnici Arpa avevano verificato che, relativamente alle macerie e terre e rocce da scavo commercializzate dall’azienda nel 2014 come materie prime seconde, non erano state osservate sistematicamente le procedure necessarie perché detti materiali potessero non considerarsi più rifiuti: più precisamente le analisi effettuate dalla Scaviter prima della cessione a terzi dei materiali non rispettavano la periodicità prevista dalla normativa secondaria; inoltre non vi era una chiara tracciabilità dei vari materiali posto che la società non aveva provveduto alla registrazione dei singoli lotti e delle singole partite, sicché i controlli degli operanti in ordine alle analisi non erano in definitiva possibili.
Sulla base di queste considerazioni – costituenti accertamento di fatto che, in quanto adeguatamente motivato e privo di vizi di manifesta illogicità, è insindacabile in sede di controllo di legittimità – il Tribunale è giunto a ritenere che i citati materiali dovevano considerarsi ancora rifiuti, sicché la relativa commercializzazione costituiva una gestione illecita ai sensi dell’articolo 256, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 152 del 2006.
Il Tribunale ha inoltre rilevato una ulteriore violazione constatata nel corso del sopralluogo riguardante la presenza, fuori dall’azienda, di due cumuli (per complessivi 800 t circa) di materiali già trattati, per i quali però non erano state osservate le relative procedure e quindi si trattava di materiali che andavano considerati come rifiuti.
I citati cumuli non potevano infatti trovarsi nel posto in cui effettivamente si trovavano (erano previste in teoria apposite aree all’interno dell’azienda) ed erano collocati sul terreno nudo, anziché, come necessario, su aree impermeabilizzate o comunque pavimentate.
Sulla base di ciò – che parimenti si traduce nell’espletamento da parte del giudice del merito di un accertamento di fatto che, in quanto adeguatamente motivato e privo di vizi di manifesta illogicità, è insindacabile in sede di controllo di legittimità –  il Tribunale ha ritenuto integrato la fattispecie del deposito incontrollato di rifiuti e non di deposito temporaneo.
Ha poi tenuto conto di quanto aveva riferito il consulente di parte in ordine alla circostanza che l’analisi svolte dopo il sopralluogo dell’Arpa non avrebbero evidenziato una contaminazione del terreno sul quale i cumuli erano posti, pervenendo alla conclusione che si trattava di circostanza non rilevante ai fini della sussistenza del reato così come doveva ritenersi irrilevante la circostanza riferita dal consulente tecnico per la quale vi sarebbe stata una pratica edilizia in corso presentata dalla società alla quale la Scaviter era subentrata.
Era constatato infine il mancato rispetto di plurime prescrizioni: tanto le macerie da demolizione quanto le terre e rocce da scavo (ancora da sottoporre al trattamento) erano collocate in aree diverse da quelle previste nelle planimetrie allegate alle comunicazioni; i cumuli di tutti e tre i tipi di rifiuti stoccati, contrariamente a quanto previsto dal decreto ministeriale 5 febbraio 1998, non erano dotati di teli di copertura contro il rischio di dispersione delle polveri; non erano stati approntati i pozzetti e le griglie (previsti sempre dal citato decreto ministeriale) per la raccolta delle acque meteoriche; a fronte di una autorizzazione per lo stoccaggio di 300 t di terre e rocce da scavo, erano state rinvenute 700 t di tale tipo di rifiuti.
Il Tribunale ha tenuto conto del fatto che il consulente di parte aveva dichiarato che la società nell’ottobre 2014 aveva presentato una richiesta di autorizzazione unica ambientale ed in tale sede aveva richiesto l’autorizzazione allo stoccaggio di un maggiore quantitativo di terre e rocce da scavo (rispetto al quale il quantitativo rinvenuto i tecnici Arpa sarebbe stato compatibile) e previsto anche la regimentazione delle acque attraverso griglie e pozzetti ed ha ritenuto, con logica ed adeguata motivazione, che tale argomento non fosse pertinente per escludere l’integrazione del reato perché il maggiore quantitativo dei rifiuti avrebbe potuto essere stoccato solo a seguito del conseguimento dell’autorizzazione e non prima di aver conseguito il titolo abilitativo; inoltre l’approntamento del sistema di regimentazione delle acque era già obbligatorio alla stregua delle previsioni del decreto ministeriale del 5 febbraio 1998.

3. Va allora ricordato che il reato di attività di gestione di rifiuti non autorizzata è un reato di pericolo, sicché la valutazione in ordine all’offesa al bene giuridico protetto va retrocessa al momento della condotta secondo un giudizio prognostico “ex ante”, essendo irrilevante l’assenza in concreto, successivamente riscontrata, di qualsivoglia lesione (Sez. 3, n. 19439 del 17/01/2012, Miotti, Rv. 252908).
In questo delicato settore del diritto penale, il compito del giudice di merito si risolve in un accertamento diretto a verificare, specialmente nell’interpretazione dei reati formali e di pericolo presunto, che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato dalla disposizione incriminatrice.
Infatti, nei reati di pericolo, l’offesa al bene giuridico protetto si traduce in un nocumento potenziale dello stesso, che viene soltanto minacciato.
A questo proposito, concordemente la dottrina penalistica italiana e la giurisprudenza di legittimità hanno reiteratamente sottolineato che il pericolo di offesa al bene giuridico sorge, potendo perciò ritenersi integrata la categoria penalistica del “pericolo”, quando, secondo un giudizio ex ante e secondo le evidenze disponibili certificate dalla migliore scienza ed esperienza, appare probabile che, secondo l’id quod plerumque accidit, dalla condotta consegua l’evento lesivo che il legislatore, anticipando il momento della tutela, intende scongiurare.
Questa è la ragione per la quale, in conformità alla funzione preventiva dei reati di pericolo e nel rispetto assoluto dei principio della personalità della responsabilità penale, è essenziale che la valutazione circa l’esistenza e la consistenza dell’offesa debba essere retrocessa al momento della condotta, dovendo il giudice (e, più in generale, l’interprete) fare ricorso  ad un giudizio prognostico ex ante (Sez. 3, n. 19439 del 17/01/2012, cit., in motiv.).
Alla stregua di tali principi, non può ritenersi che, nella specie, il reato sia stato ritenuto integrato nei suoi elementi costitutivi sulla base di una condotta formalmente inosservante ma totalmente inoffensiva, in quanto nelle condotte riscontrate nel caso in esame deve ritenersi contenuto un disvalore tale da concretizzare la messa in pericolo dell’ambiente (oltre che della gestione in mano pubblica della risorsa ambientale) quale bene finale tutelato dalle norme incriminatrici poste a presidio del diritto dell’ambiente.
Non può parlarsi, infatti, di infrazioni aventi natura esclusivamente formale, poiché sicuramente l’inosservanza delle prescrizioni e la mancanza di autorizzazione, quantunque in astratto concedibile, e dunque la carenza del prescritto controllo amministrativo preventivo sullo svolgimento dell’attività determinano situazioni intrinseche di rischio, essendo suscettibili di mettere in pericolo la salubrità dell’ambiente.
Anche la Corte di Giustizia - con la sentenza 18/12/2007, causa C- 194/05 - ha avuto occasione di rilevare che le operazioni di deposito delle terre e delle rocce da scavo in vista di un successivo riutilizzo effettivo sono “atte a configurare un onere per il detentore e sono potenzialmente fonte di quei danni per l'ambiente” che la disciplina comunitaria sui rifiuti “mira specificamente a limitare (…), cosicché la sostanza di cui trattasi deve essere considerata, in linea di massima, come rifiuto” (in tal senso, anche, Sez. 3, n. 19439 del 17/01/2012, cit., in motiv.).
In conclusione, le argomentazioni svolte dal ricorrente, da un lato, evocano, un giudizio ex post, che priva il reato di pericolo della sua funzione di tutela anticipata, facendo dipendere la presenza o l’assenza del pericolo stesso dalla presenza o dall’assenza della lesione in un momento successivo al compimento della condotta (pericolosa) e, dall’altro, si risolvono in censure di merito dirette a porre in discussione, su basi meramente fattuali e sollecitando un’alternativa e non consentita rilettura delle prove, l’attività di accertamento del fatto eseguita, con congrua e logica motivazione, dal giudice del merito, censure che pertanto esulano dall’orizzonte cognitivo del sindacato di legittimità.

4. Sulla base delle precedenti considerazioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e ciò comporta l’onere per il ricorrente, ai sensi dell’articolo 616 codice di procedura penale, di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

    Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
        Così deciso il 18/10/2018.