Cass. Sez. III n. 35314 del 23 agosto 2016 (Cc 20 mag. 2016)
Presidente: Fiale Estensore: De Masi Imputato: P.M. in proc. Oggero.
Rifiuti.Ignoranza e scusabilità

In tema di elemento psicologico del reato, l'ignoranza da parte dell'agente sulla normativa di settore e sull'illiceità della propria condotta è idonea ad escludere la sussistenza della colpa, se indotta da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della pubblica amministrazione. (Fattispecie, nella quale la Corte ha escluso che ricorressero gli estremi dell'errore scusabile, affermando che l'imputato, cui era stato contestata la commercializzazione di kg. 430 di rifiuti metallici, avrebbe dovuto quanto meno informarsi presso l'autorità competente se la propria condotta necessitasse di autorizzazione, come in effetti previsto dalla normativa di settore).

   RITENUTO IN FATTO

    1. Con sentenza emessa in data 12/1/2015, il GIP presso il Tribunale di CUNEO ha assolto la suindicata imputata, con la formula perchè il fatto non costituisce reato, dal reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, (raccolta, trasporto e commercio non autorizzati di rifiuti metallici) perchè, pur non essendo iscritto all'Albo Nazionale dei Gestori Ambientali, nel corso del 2013 raccoglieva, trasportava e rivendeva ad una società rifiuti metallici per una volta e per complessivi kg. 430 (fatti contestati come commessi tra (OMISSIS)).

    2. Ha proposto ricorso il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di CUNEO, impugnando la sentenza predetta con cui deduce tre motivi di ricorso, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione (art. 173 disp. att. c.p.p.).

    2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all'art. 606 c.p.p., lett. c), sotto il profilo della violazione di legge in relazione all'art. 459 c.p.p., comma 3. La censura investe l'impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricorrente, il giudice avrebbe erroneamente prosciolto l'imputato dal reato addebitato, anzichè provvedere alla restituzione degli atti al PM procedente. Nella sentenza si fa riferimento a lacune investigative, sostenendo che difetti nella richiesta di emissione di decreto penale ogni accertamento su tipologia esatta di materiale, sull'esatta entità dei ricavi per averne indicazioni sulla estemporaneità o sistematicità delle condotte in capo ai soggetti agenti. Se tale era la situazione del materiale all'esame dei giudice, sostiene il PM ricorrente, non sarebbe stato possibile per il GIP prosciogliere ex art. 129 c.p.p. l'imputata, ma, versandosi in una situazione di mancanza di dati su elementi ritenuti rilevanti per la decisione, avrebbe dovuto essere disposta la restituzione a norma dell'art. 459 c.p.p., comma 3 (il riferimento, nel ricorso è alla nota decisione delle Sezioni Unite Cardoni n. 18 del 9/06/1995 ed alla conforme giurisprudenza successiva, di cui il ricorrente richiama Sez. 3, Carboni n. 15034/2012 e Sez. 3, Fusco, n. 45934/2014).

    2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all'art. 606 c.p.p., lett. b), sotto il profilo della violazione di legge in relazione all'art. 5 c.p. in quanto, sostiene il ricorrente, non vi erano in atti gli estremi per ipotizzare la sussistenza di un errore inevitabile sulla norma penale, in particolare per escludere che i soggetti agenti si trovassero in una situazione di "errore inevitabile". A tal proposito, ricorda il PM ricorrente, esiste un sistema pubblico di raccolta di rifiuti urbani e segnatamente, come previsto dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 198, il servizio comunale di raccolta differenziata si occupa dei rifiuti urbani ingombranti metallici o meno e, nel territorio interessato, con servizio di raccolta sotto casa. I soggetti agenti, invece, hanno operato in una prospettiva di privatizzazione dei ricavi e di collettivizzazione dei costi, in quanto gli stessi avrebbero individuato centro di recupero disposti ad acquistare irregolarmente materiale che tutti hanno venduto come privati e non come ditte - come emergerebbe dal fatto che presso la ditta che riceveva i rifiuti l'imputato ha utilizzato non la propria partita IVA ma il proprio codice fiscale individuale - e, nel fare tali operazioni, i privati non avrebbero contatto nè il servizio comunale nè avrebbero avuto alcuna indicazione nè dall'Amministrazione comunale nè da orientamenti giurisprudenziali. Sostiene il PM ricorrente che nello svolgimento di tale attività economica motivata da scelte di profitto, seppur minimale, è mancato qualsiasi accertamento delle regole che avrebbero dovuto trovare applicazione, condotta inquadrabile quantomeno nella colpa per negligenza ed imperizia. Censurabile, peraltro, sarebbe la sentenza laddove sostiene l'esistenza di una complessità normativa in materia, smentita dal dato oggettivo per il quale non è in corso alcuna liberalizzazione del mercato dei rifiuti, metallici e non; a tal proposito, il PM ricorda le decisioni di questa Corte circa la rilevanza della c.d. ignoranza inevitabile con riferimento ai reati contravvenzionali che, con riferimento alla buona fede idonea ad escludere l'elemento soggettivo, richiede pur sempre un fattore positivo esterno che abbia indotto il soggetto in errore incolpevole; nel caso in esame, invece, di ciò non vi sarebbe traccia, non esistendo nè un consolidato indirizzo nè tantomeno una pronuncia di legittimità, conclude il ricorrente, che escluda la rilevanza penale alle condotte di gestione di rifiuti.

    2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di cui all'art. 606 c.p.p., lett. b), sotto il profilo della violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1. La censura investe l'impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricorrente, il giudice avrebbe erroneamente prosciolto l'imputato dal reato addebitato richiamando il disposto del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 193, comma 5, ossia facendo riferimento all'espressa esenzione dal FIR (formulario di identificazione del rifiuto) per trasporti del produttore rifiuti che siano occasionali e sporadici. Non v'è dubbio, ad avviso del il PM ricorrente, che il fatto addebitato rientri nel capo di applicazione della norma contestata, in quanto il reato de quo è un reato impropriamente comune in quanto necessariamente legato allo svolgimento di un'attività di gestione di rifiuti anche se limitata ad una sola tra le varie condotte elencate dalla norma, trattandosi di fattispecie a condotta plurima. Ciò sarebbe confermato, prosegue il ricorrente, dalla interpretazione fornita da questa stessa Corte (il riferimento è alla recente sentenza di questa Sezione, ric. Lazzaro, n. 29992/2014), che ha anche precisato come a nulla rilevi la minore o maggiore entità del volume di affari al quale il giudice del merito sembra attribuire rilievo. In buona sostanza, un'attività di commercio di rifiuti metallici per quantitativi significativamente eccedenti i trasporti occasionali e sporadici come definiti dal legislatore, anche se non integra la principale o l'esclusiva fonte di reddito dell'agente integrerebbe comunque l'attività sanzionata penalmente; nella sentenza impugnata, invece, difetterebbe ogni indicazione dell'assoluta occasionalità richiesta da questa Corte per derivarne l'irrilevanza penale della stessa, anzi, conclude il PM, nel caso in esame in una singola occasione, nel corso del primo semestre del 2013, l'imputata avrebbe rivenduto complessivamente alla società destinataria dei rifiuti metallici oltre quattro volte il quantitativo massimo annuale di quanto definito dalla legge come trasporto occasionale e sporadico, indice di una vera e propria attività (sia pure secondaria) e non ad un'operazione assolutamente occasionale.

    3. Con requisitoria scritta depositata in data 18/5/2015, il Procuratore Generale presso questa S.C. ha chiesto annullarsi l'impugnata sentenza, essendo fondati tutti e tre i motivi di ricorso, richiamando le argomentazioni già sviluppate dall'impugnante con il ricorso.

    3.1 Con memoria difensiva depositata in data 4/5/2016, la O. ha evidenziato la sussistenza di "prove a discarico" tali da legittimare la pronuncia assolutoria e l'errore incolpevole determinato dal mancato rifiuto ad accogliere il conferimento da parte di società specializzata ed chiesto quindi il rigetto del ricorso.
    
    CONSIDERATO IN DIRITTO

    4. Il ricorso è fondato.

    5. Ed invero, quanto al primo motivo, come correttamente osservato dal PM ricorrente, nella sentenza si fa riferimento a lacune investigative, sostenendo che difettasse nella richiesta di emissione di decreto penale ogni accertamento su tipologia esatta di materiale, sull'esatta entità dei ricavi per averne indicazioni sulla estemporaneità o sistematicità delle condotte in capo ai soggetti agenti. Orbene, non può non convenirsi con l'impugnante e con il P.G. presso questa Corte che, se tale era la situazione del materiale all'esame del giudice, non sarebbe stato possibile per il GIP prosciogliere ex art. 129 c.p.p. l'imputato, ma, versandosi in una situazione di mancanza di dati su elementi ritenuti rilevanti per la decisione, avrebbe dovuto essere disposta la restituzione a norma dell'art. 459 c.p.p., comma 3.

    Pacifico è infatti l'orientamento giurisprudenziale, correttamente ricordato dal PM e dal PG, secondo cui il giudice per le indagini preliminari può, qualora lo ritenga, prosciogliere la persona nei cui confronti il Pubblico Ministero abbia richiesto l'emissione di decreto penale di condanna solo per una delle ipotesi tassativamente indicate nell'art. 129 c.p.p., e non anche per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova ai sensi dell'art. 530 c.p.p., comma 2, alle quali, prima del dibattimento - non essendo stata la prova ancora assunta - l'art. 129 cit. non consente si attribuisca valore processuale (Sez. U, n. 18 del 09/06/1995 - dep. 25/10/1995, P.G. in proc. Cardoni, Rv. 202375; conf. Sez. Unite, 9 giugno 1995 n. 19, 20, 21, 22, rispettivamente in proc. Omenetti, Valeri, Solustri e Tupputi). Trattasi di principio costantemente ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte (v., da ultimo: Sez. 3, n. 45934 del 09/10/2014 - dep. 06/11/2014, P.G. in proc. Fusco, Rv. 260941). L'affermazione, contenuta in sentenza, secondo cui l'imputata sarebbe caduta in errore scusabile allorquando ha conferito il materiale al centro di raccolta anzichè all'isola ecologica, si fonda invero su una serie di elementi che danno per presupposte anche lacune investigative che finirebbero per incidere sull'elemento soggettivo, nel senso che non vi sarebbe prova che l'imputato fosse consapevole del carattere illecito della propria condotta nè che fosse stato messo nella condizione di conoscere che il conferimento da parte sua del materiale di scarto alla società destinataria fosse contrario alla normativa di settore.

    Tutto ciò avrebbe dovuto condurre non al proscioglimento ex art. 129 c.p.p., ma ad adottare il provvedimento restitutorio di cui all'art. 459 c.p.p., comma 3, come correttamente sostenuto dal PM ricorrente e dal P.G. presso questa S.C..

    6. Parimenti fondato è il secondo motivo di ricorso.

    Ed invero, al fine di valutare la sussistenza della buona fede escludente la sussistenza dell'elemento soggettivo ex art. 5 c.p., il GIP richiama alcuni elementi (presunta complessità della normativa che disciplina la gestione dei rifiuti, soggetta a continue modifiche e che ha per naturali destinatari le imprese produttrici dei rifiuti e i professionisti del settore e le imprese che li gestiscono in maniera professionale; la natura di extrema ratio del diritto penale che sanzionerebbe offese concrete e significative ai beni protetti dalla normativa penale; la circostanza che l'imputata, soggetto incensurato, non svolga professionalmente detta attività; il modesto guadagno che avrebbe tratto dalla cessione dei rifiuti; la qualità di privato cittadino che non è nella condizione di conoscere nel dettaglio la complessa normativa sui rifiuti e specialmente la distinzione tra rifiuto consegnato all'isola ecologica o al centro di raccolta e i limiti che la legge impone per il secondo conferimento), per pervenire alla conclusione che questi sarebbe caduto in un errore scusabile allorquando ha conferito il materiale al centro di raccolta anzichè all'isola ecologica, buona fede che sarebbe comprovata dall'aver declinato al centro di raccolta le proprie generalità corrette, ciò che denotava l'assenza di consapevolezza di commettere un reato.

    6.1. Trattasi di argomentazioni prive di pregio, come correttamente evidenziato dal PM ricorrente e dal PG presso questa S.C..

    Ed infatti, è pacifico, proprio nella materia che ci occupa (gestione dei rifiuti), che la buona fede che esclude nei reati contravvenzionali l'elemento soggettivo ben può essere determinata da un fattore positivo esterno che abbia indotto il soggetto in errore incolpevole. Tuttavia, in quelle decisioni emesse da questa stessa Sezione che hanno fatto applicazione di tale principio, l'applicazione della scriminante della buona fede è sempre stata riconosciuta in presenza di un comportamento, ancorchè penalmente rilevante, ma indotto dal comportamento della P.A. (v. ad es., Sez. 3, n. 49910 del 04/11/2009 - dep. 30/12/2009, Cangialosi e altri, Rv. 245863, in cui è stata riconosciuta la buona fede del ricorrente che, rivoltosi all'autorità amministrativa relativamente ad un'attività di smaltimento di rifiuti, si era ripetutamente sentito confermare da quest'ultima che la stessa non fosse necessaria; da ultimo, Sez. 3, n. 42021 del 18/07/2014 - dep. 09/10/2014, Paris, Rv. 260657, sempre relativa a violazione 6 della normativa sui rifiuti, in cui questa Corte ha escluso che l'invocata buona fede del ricorrente possa derivare da un fatto negativo, quale la mancata rilevazione, da parte degli organi di vigilanza e controllo, di irregolarità da sanare). Diversamente, come nel caso in esame, la pura e semplice ignoranza dell'agente sia sulla normativa di settore che sul carattere illecito della propria condotta come sostanzialmente la qualifica il GIP nella sentenza impugnata - non confortata da provvedimenti espressi dell'autorità amministrativa nè da richieste di chiarimenti sul punto, nè tantomeno da un orientamento giurisprudenziale incerto, non è idonea ad escludere la sussistenza della "colpa" normativamente richiesta per la punibilità dell'agente. Ed invero, dev'essere qui ricordato, con le Sezioni Unite di questa Corte, che a seguito della sentenza 23 marzo 1988 n. 364 della Corte Costituzionale, secondo la quale l'ignoranza della legge penale, se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, scusa l'autore dell'illecito, vanno stabiliti i limiti di tale inevitabilità. Per il comune cittadino tale condizione è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell'ordinaria diligenza, al cosiddetto "dovere di informazione", attraverso l'espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell'illecito anche in virtù di una "culpa levis" nello svolgimento dell'indagine giuridica. Per l'affermazione della scusabilità dell'ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l'agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell'interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto (Sez. U, n. 8154 del 10/06/1994 - dep. 18/07/1994, P.G. in proc. Calzetta, Rv. 197885). Ne discende, dunque, che, per chi non svolga professionalmente una attività nel settore di interesse - qual è l'imputata nella vicenda in esame -, la scusabilità dell'ignoranza della legge penale comporta necessariamente che questi assolva con il criterio dell'ordinaria diligenza - come sottolineato dalle Sezioni Unite -, al cosiddetto "dovere di informazione", attraverso l'espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. E nulla di tutto ciò emerge dall'impugnata sentenza, se non un atto, questo sì, di buona fede del GIP, nel valutare come mancante l'elemento soggettivo del reato in esame per l'ignoranza (certamente evitabile, così ponendosi il caso al di fuori dei limiti applicativi dell'efficacia scusante della buona nelle contravvenzioni ex art. 5 c.p., per come interpretato dalla celeberrima sentenza della Corte 7 cost. n. 364 del 1988) dell'agente sia sulla normativa di settore che sul carattere illecito della propria condotta.

    Da ultimo, e conclusivamente sul punto, non può mancarsi di rilevare come anche al privato cittadino che intenda svolgere un'attività di gestione di rifiuti (nella specie, raccolta di rifiuti prodotti da terzi e consegna per fini di lucro degli stessi ad un operatore professionale) è infatti richiesto l'assolvimento di quella diligenza che richiede la cd. conoscenza parallela nella sfera laica o conoscenza da profano (sorta nel diritto tedesco come Parallelwertung in der Laiensphare), nel senso che, per l'attribuibilità a titolo di colpa del fatto all'agente, occorre certamente che questi si rappresenti anche gli aspetti che fondano la rilevanza giuridica delle situazioni di fatto richiamate dalla fattispecie, e quindi è necessario che il reo abbia avuto consapevolezza - sia pure, appunto, secondo la "conoscenza parallela nella sfera laica" - che ciò che stava commerciando costituisse un bene soggetto ad un particolare regime di gestione.

    E, nel caso in esame, non può mettersi in dubbio che, anche senza una particolare avvedutezza, per poter commercializzare 430 kg. di rifiuti metallici occorresse quantomeno informarsi presso l'autorità se ciò poteva esser fatto del tutto liberamente o se occorresse invece una qualche forma di autorizzazione, nella specie l'iscrizione all'Albo Gestori, come previsto dalla normativa di settore, non essendo peraltro trattato - come correttamente rileva il PM ricorrente - della modesta gestione di un rifiuto costituito "una lattina vuota raccolta da terra" o di un episodio isolato di chi si disfi "di un armadio blindato" rivendendolo al centro di recupero", ma di una condotta che, riferito ad un singolo conferimento, aveva riguardato quantitativi eccedenti ben quattro volte quello massimo annuale normalmente consentito dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 193, comma 5, norma peraltro, come si dirà nel paragrafo che segue, non applicabile al caso di specie.

    Occasionalità della condotta, dunque, nella specie, inesistente.

    7. Fondato, infine, è anche il terzo motivo di ricorso.

    Sul punto, il GIP sostiene che secondo la normativa che regola la materia, il privato può conferire rifiuti speciali non pericolosi presso un centro autorizzato per la raccolta, in maniera rara (rectius, occasionale) e sporadica, per non più di quattro volte l'anno, con il limite ogni volta di 30 kg. e il tetto massimo di 100 kg. Trattasi di normativa inapplicabile al caso di specie, ciò integrando un grave errore di diritto.

    Il riferimento, nella specie, è al disposto del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 193, che, com'è noto, sotto la rubrica "Trasporto dei rifiuti"prevede, per quanto qui di interesse, al comma 5 che "5. Fatto salvo quanto previsto per i comuni e le imprese di trasporto dei rifiuti urbani nel territorio della regione Campania, tenuti ad aderire al sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI) di cui all'art. 188-bis, comma 2, lett. a), nonchè per i comuni e le imprese di trasporto di rifiuti urbani in regioni diverse dalla regione Campania di cui all'art. 188-ter, comma 2, lett. e), che aderiscono al sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI), le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano al trasporto di rifiuti urbani effettuato dal soggetto che gestisce il servizio pubblico, nè ai trasporti di rifiuti non pericolosi effettuati dal produttore dei rifiuti stessi, in modo occasionale e saltuario, che non eccedano la quantità di trenta chilogrammi o di trenta litri, nè al trasporto di rifiuti urbani effettuato dal produttore degli stessi ai centri di raccolta di cui all'art. 183, comma 1, lett. mm). Sono considerati occasionali e saltuari i trasporti di rifiuti, effettuati complessivamente per non più di quattro volte l'anno non eccedenti i trenta chilogrammi o trenta litri al giorno e, comunque, i cento chilogrammi o cento litri l'anno".

    Orbene, è palese dalla lettura della norma in esame che la normativa in questione esenta dall'obbligo di cui al comma 1 (obbligo che i rifiuti siano accompagnati da un formulario di identificazione), tre ipotesi: a) trasporto di rifiuti urbani effettuato dal soggetto che gestisce il servizio pubblico; b) trasporti di rifiuti non pericolosi effettuati dal produttore dei rifiuti stessi, in modo occasionale e saltuario, che non eccedano la quantità di trenta chilogrammi o di trenta litri; c) trasporto di rifiuti urbani effettuato dal produttore degli stessi ai centri di raccolta.

    A ben vedere, il caso sub iudice non rientra in alcuna delle ipotesi di esenzione, atteso che siamo in presenza di un trasporto di rifiuti non pericolosi effettuato non dal produttore dei rifiuti stessi (come normativamente richiesto dal comma 5), ma da un soggetto che ha provveduto alla raccolta di rifiuti prodotti da terzi e che ne opera la commercializzazione, per fini di lucro (non importa se traendovi somme consistenti o meno), consegnandoli ad un operatore professionale, ossia al gestore di un centro di raccolta.

    La tipologia di soggetto che viene in esame nel caso di specie non rientra nella nozione di "produttore di rifiuti" di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 183, lett. f), che qualifica come tale solo "il soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti (nuovo produttore)", quanto, piuttosto, in quella di "detentore", descritta dalla successiva lett. h), che qualifica come tale "il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso". Ed è indubbio che il detentore dei rifiuti, se non rispetta le previsioni della normativa di settore risponde del reato di gestione abusiva di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1.

    Sul punto, infatti, correttamente il PM ricorrente ed il PG evidenziano come non v'è dubbio che il fatto addebitato rientri nel capo di applicazione della norma contestata, in quanto il reato de quo è un reato impropriamente comune in quanto necessariamente legato allo svolgimento di un'attività di gestione di rifiuti anche se limitata ad una sola tra le varie condotte elencate dalla norma, trattandosi di fattispecie a condotta plurima. Quanto sopra è effettivamente confermato dalla interpretazione fornita recentemente da questa stessa Corte, secondo cui il reato di cui al D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 256, comma 1, che sanziona le attività di gestione compiute in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli artt. 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del cit. D.Lgs. è configurabile nei confronti di chiunque svolga tali attività anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e non sia caratterizzata da assoluta occasionalità, salva l'applicabilità della deroga di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 266, comma 5, per la cui operatività occorre che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114 e che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio (Sez. 3, n. 269 del 10/12/2014 - dep. 08/01/2015, P.M. in proc. Seferovic, Rv. 261959; Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014 - dep. 09/07/2014, P.M. in proc. Lazzaro, Rv. 260266).

    Giurisprudenza, questa, che ha peraltro chiarito come a nulla rilevi la minore o maggiore entità del volume di affari al quale il giudice del merito sembra attribuire rilievo.

    In sostanza, convenendosi con il PM ricorrente e con il PG presso questa S.C., è indubbio che un'attività ripetuta di commercio di rifiuti metallici per quantitativi significativamente eccedenti i trasporti occasionali e sporadici come definiti dal legislatore, anche se non integra la principale o l'esclusiva fonte di reddito dell'agente, integra comunque l'attività sanzionata penalmente. Ciò soprattutto a fronte di una motivazione della sentenza impugnata nella quale, invece, difetta ogni indicazione dell'assoluta occasionalità richiesta da questa Corte per derivarne l'irrilevanza penale della stessa, assoluta occasionalità che è smentita ex actis proprio dal fatto che in una sola volta, nel corso del primo semestre 2013, l'imputata ha rivenduto complessivamente alla società destinataria dei rifiuti metallici oltre quattro volte il quantitativo massimo annuale di quanto definito dalla legge come trasporto occasionale e sporadico, indice di una vera e propria attività ancorchè secondaria e non di un'operazione assolutamente occasionale.

    Se, dunque, tale limite non sarebbe valso a consentire l'applicabilità della deroga nel caso di "trasporti di rifiuti non pericolosi effettuati dal produttore dei rifiuti stessi, in modo occasionale e saltuario, che non eccedano la quantità di trenta chilogrammi o di trenta litri", a maggior ragione non trova applicazione nei confronti del "detentore" dei medesimi che trasporti rifiuti prodotti da terzi per conferirli ad altri facendone così commercio, tenuto altresì conto che, per giurisprudenza costante di questa Sezione, ai fini della configurabilità del reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, lett. a), è sufficiente anche una sola condotta di trasporto non autorizzato di rifiuti da parte dell'impresa che li produce (da ultimo: Sez. 3, n. 8979 del 02/10/2014 - dep. 02/03/2015, Pmt in proc. Cristinzio e altro, Rv. 262514).

    Infine, e conclusivamente, non va nemmeno dimenticato che il presupposto della inapplicabilità del regime ordinario di gestione dei rifiuti e della contestuale applicabilità del regime giuridico più favorevole andrebbe provato da chi lo invoca, in quanto trattasi di disciplina avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria, e di ciò non v'è traccia nel caso di specie (giurisprudenza costante: v., sull'onere probatorio incombente in capo a chi invoca l'applicabilità di una disciplina in deroga nella materia della gestione dei rifiuti, da ultimo, Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015 - dep. 17/04/2015, Fortunato, Rv. 263336).

    8. La sentenza impugnata deve dunque essere annullata senza rinvio, con trasmissione degli atti per l'ulteriore corso al Tribunale di CUNEO, altro giudice.
   
    P.Q.M.

    La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata e ordina la trasmissione degli atti al Tribunale di CUNEO.

    Così deciso in Roma, il 20 maggio 2016.

    Depositato in Cancelleria il 23 agosto 2016