Cass. Sez. III n. 11390 del 19 marzo 2024 (UP 24 gen 2024)
Pres. Ramacci Est. Semeraro Ric. Palumbo
Rifiuti.Qualificazione ed accertamento della pericolosità

Il detentore del rifiuto (e non soltanto il produttore), quando la composizione del rifiuto potenzialmente pericoloso non sia immediatamente nota, ha l'onere di raccogliere le informazioni idonee a consentirgli di acquisire una conoscenza sufficiente di detta composizione e, in tal modo, di attribuire a tale rifiuto il codice appropriato. Va esclusa radicalmente la possibilità di arbitrarie scelte da parte del detentore del rifiuto circa le modalità di qualificazione del rifiuto ed accertamento della pericolosità.

RITENUTO IN FATTO

1. La sentenza impugnata
1.1. Con la sentenza del 14 ottobre 2021 la Corte di appello di Messina, per quanto qui interessa, in parziale riforma della condanna inflitta dal Tribunale di Messina il 16 gennaio 2019, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Raffaele Palumbo perché estinti per prescrizione i reati di cui ai capi: 
2) ex artt. 110 cod. pen. e 260 d.lgs. n. 152 del 2006, commesso in Messina, secondo la Corte di appello, fino a tutto il 2011, per avere, quale responsabile di fatto del cantiere Palumbo di Messina, in concorso con altri soggetti, al fine di conseguire un ingiusto profitto consistito nel non dover sopportare i costi dovuti ordinariamente per il corretto smaltimento in discarica o per il recupero dei rifiuti presso siti all'uopo autorizzati, abusivamente gestito ed occultato ingenti quantitativi di rifiuti, anche pericolosi, costituiti da materiale abrasivo di scarto (cd. grit esausto) prodotto dall'attività di sverniciatura delle navi (cd. «sabbiatura») effettuata nel cantiere navale di Messina della Palumbo s.p.a.
3) ex artt. 110 e 434 cod. pen. per avere, in concorso con altre persone e con le condotte descritte ai capi precedenti, nella qualità prima indicata, commesso fatti diretti a cagionare un disastro ambientale con pericolo per la pubblica incolumità, avendo immesso nell'ambiente i predetti rifiuti, in parte sotterrati in aree attigue a torrenti; in Messina da epoca successiva e prossima al 30 novembre 2007 al 15 aprile 2013;
5) ex artt. 110 cod. pen., 6, comma 1, lett. a), b), d) del d.l. n.172 del 2008, convertito dalla legge n.210 del 2008, per avere, nella qualità prima indicata, in concorso materiale e morale con altri soggetti, nel territorio della Regione Sicilia in cui vige lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti dichiarato con D.P.C.M. del 9.7.2010 raccoglievano, trasportato e smaltito illecitamente il cd. grit esausto, materiale abrasivo di scarto, costituente rifiuto speciale, anche pericoloso, avente codice CER 120116 (materiale abrasivo di scarto, contenente sostanze pericolose) o 120117 (materiale abrasivo di scarto da quello di cui alla voce 120 116), prodotto dai lavori di sverniciatura (cd. sabbiatura) delle carene delle navi effettuati nel cantiere di Messina della Palumbo s.p.a.; in Messina dal 22 luglio 2010 al 15 aprile 2013;
9) ex artt. 110 cod. pen., 6, comma 1, lett. g), del d.l. n.172 del 2008, convertito dalla legge n.210 del 2008, per avere, nella qualità prima indicata, in concorso materiale e morale con altri soggetti, nel territorio della Regione Sicilia in cui vige lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti dichiarato con D.P.C.M. del 9.7.2010 effettuato nei cantieri navali di Messina della Palumbo s.p.a. attività di miscelazione di complessivi mc 50 di terra con materiale da demolizione e materiale abrasivo di scarto utilizzato per la sverniciatura delle navi, contenente sostanze pericolose; accertato in Messina il 22 maggio 2012.
1.2. La Corte territoriale ha confermato la condanna inflitta a Raffaele Palumbo per il reato di cui al capo 1), ex art. 416 cod. pen., quale promotore ed organizzatore dell’associazione per delinquere costituita allo scopo di commettere delitti concernenti il traffico illecito organizzato di rifiuti speciali, anche pericolosi, mediante una serie indeterminata di trasporti e sversamenti, presso siti sconosciuti o discariche comunque non autorizzate, di ingenti quantità di materiale abrasivo di scarto (cd. grit esausto) avente codice CER 120116* (materiale abrasivo di scarico, contenente sostanze pericolose) o 120117 (materiale abrasivo di scarto diverso da quello di cui alla voce 120116), prodotto dai lavori di sverniciatura (cd. sabbiature) delle carene delle navi effettuati nel cantiere di Messina della Palumbo s.p.a., operando con continuità e allestimento di mezzi. Il fatto è contestato nell’imputazione in Messina dal 2008 al 15 aprile 2013, data di esecuzione della misura cautelare.
    Ha rideterminato la pena inflitta a Raffaele Palumbo in 4 anni di reclusione, revocando la pena accessoria dell’interdizione legale e sostituendo l’interdizione in perpetuo dei pubblici uffici con l’interdizione temporanea per la durata di anni 5. 
1.3. La Corte di appello di Messina ha ridotto la sanzione amministrativa inflitta alla Palumbo S.p.a. a 450 quote del valore di euro 500,00 ciascuna ed ha revocato le sanzioni interdittive applicate ex artt. 9 e 24 ter, co. 3, d.lgs. 231/01.
La Palumbo S.p.a. è stata condannata per gli illeciti amministrativi contestati a capo 11) di cui agli artt. 24-ter, comma 2, e 25-undecies d.lgs. n. 231 del 2001, in relazione ai reati di cui ai capi 1), 2), 5) e 9), commessi in Messina dal 8 agosto 2019, data di entrata in vigore dell’art. 24-ter, sino al 15 aprile 2013.
1.4. La Corte territoriale, inoltre: 
- ha assolto Antonio Palumbo e Giuseppe Costa dai reati loro ascritti per non aver commesso il fatto, Raffaele Donnarumma dai reati ascritti ai capi 1,2,3 e 5 per non aver commesso il fatto e ha dichiarato non doversi procedere perché estinto per prescrizione il reato di cui al capo 9 a lui ascritto;
- ha dichiarato non doversi procedere perché estinti per prescrizione i reati ascritti a Salvatore Croce e Santi Scopelliti;
- ha ridotto la sanziona inflitta alla Futura Sud S.r.l. mentre ha assolto la Stabi Yachting & Coating dall’imputazione a lei ascritta;
- ha confermato nel resto la sentenza di primo grado e le statuizioni civili nei confronti dei soggetti condannati o i cui reati sono stati dichiarati prescritti.
1.5. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione i difensori di Palumbo Raffaele e della Palumbo S.p.A. 

2. Il ricorso di Raffaele Palumbo
Con il ricorso di Raffaele Palumbo si impugna la sentenza della Corte di appello di Messina «contro tutti i capi ed i punti della sentenza».
2.1. Con il primo motivo si deduce la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sulla condotta di illecito trattamento e smaltimento di rifiuti pericolosi sussunta nei reati contestati a Raffaele Palumbo ai capi 1, 2, 3, 5 e 9 della rubrica, risultanti dal testo della sentenza nonché dall'esame dei testi Broccio (udienza del 22 aprile 2014, pag. 28, udienza del 17 giugno 2014, pag. 8-10,  92 e ss), Saladino (udienza del 15 ottobre 14, pag. 24 e ss.), Sprovieri (udienza del 25 ottobre 2016), e dalla relazione del consulente tecnico di parte dott. Mario Sprovieri.
2.1.1. La motivazione sarebbe contraddittoria, sulla destinazione del grit utilizzato presso i cantieri Palumbo di Messina, in quanto la Corte di appello non avrebbe valutato che alcune delle fatture di acquisto recavano in modo esplicito la destinazione del grit in un luogo diverso dai cantieri Palumbo di Messina. 
Sarebbe manifestamente illogico suffragare l'ipotesi accusatoria solo in base alle fatture di acquisto provenienti dal fornitore Italscorie s.r.l. omettendo di considerare le fatture nelle parti in cui indicano come destinazione del grit Siracusa e non i cantieri Palumbo di Messina: la diversa destinazione emergerebbe anche dall'all. 8 alla consulenza tecnica del dottor Mario Sprovieri. 
La Corte di appello avrebbe ignorato il motivo di appello, fondato sulla relazione del consulente tecnico di parte dottor Sprovieri, con cui si sostenne che parte del grit venduto da Italscorie s.r.l. sarebbe stato trasferito presso i cantieri di Napoli il 23 maggio 2008 mentre un'altra parte sarebbe stata acquistata dalla Petrol Lavori s.r.l. e direttamente indirizzata alla sede di tale società a Siracusa, non al cantiere Palumbo di Messina. 
L'erroneità della deduzione dell’illecito smaltimento del grit - desunta dal volume di prodotto acquistato per l'attività di sabbiatura dei cantieri Palumbo - troverebbe conferma nella parte della motivazione in cui, in modo contraddittorio, si indicherebbe che, ai fini della verifica dell'ipotesi accusatoria, non sarebbe stata ritenuta decisiva l'esatta quantificazione del grit. 
La Corte territoriale avrebbe omesso di considerare che attraverso il corretto calcolo dei grit lavorato presso i cantieri Palumbo sarebbe stato dimostrato che tutto il materiale sarebbe stato conferito presso la discarica Vallone Guidara, regolarmente autorizzata a ricevere tale tipologia di rifiuti.
2.1.2. La motivazione sarebbe, poi, in manifestamente illogica perché non avrebbe tenuto conto degli esiti della analisi comparativa tra i campioni in esame, come indicato nel primo motivo d'appello, da cui risulterebbe che il materiale rinvenuto nella discarica non proverrebbe dalle lavorazioni riferibili al ricorrente.
L'unica analisi scientifica sarebbe stata svolta dal consulente della difesa il quale non avrebbe rinvenuto la presenza degli elementi caratterizzanti il grit, come il ferro e l’alluminio, dato che risulterebbe anche dai test dell'Arpa.
Dalla motivazione della sentenza (pag. 29 e 30 riportate nel ricorso) risulterebbe ignorato il primo motivo di appello con cui si rilevò che le analisi scientifiche sui campioni delle sostanze rinvenute nelle discariche di Mili San Marco e Vallone Guidara con i reperti grit presenti presso i cantieri Palumbo escluderebbero che si tratti di frammenti di rifiuti provenienti dall’attività di sabbiatura svolta nei cantieri Palumbo, a prescindere dalla presenza di ferro e alluminio.
Tale oggettivo risultato non potrebbe essere smentito dalla generica analogia della composizione chimica di materiali, riferiti ai tecnici dell'Arpa che non avrebbero mai effettuato analisi di laboratorio comparata tra i campioni. 
Si riporta, sul punto, la relazione del consulente tecnico dott. Sprovieri, richiamata nel primo motivo di appello, con la quale la Corte di appello non si sarebbe confrontata.
Rispetto al risultato dell’accertamento scientifico eseguito dal consulente tecnico della difesa, la Corte territoriale avrebbe fondato la decisione sulle testimonianze di Dora Saladino e Santa Interdonato che avrebbero collegato l’assenza delle sostanze contaminanti su una ipotesi, per cui i materiali potrebbero essere stati trascinati dalle acque.
La sentenza avrebbe, dunque, ascritto al ricorrente la condotta di illecito trattamento e smaltimento dei grit esausto sulla base di una motivazione affetta da contraddittorietà e manifesta illogicità.
2.2. Con il secondo motivo si deduce la manifesta illogicità della motivazione sul ruolo di promotore e organizzatore dell’associazione per delinquere attribuito a Raffaele Palumbo.
Dopo aver riportato la motivazione della sentenza impugnata sul punto, si deduce la manifesta illogicità nella parte in cui si è ritenuto sussistente il ruolo di promotore ed organizzatore: il ricorrente avrebbe dato istruzioni solo ai suoi dipendenti ma non a quelli delle altre ditte impegnate nei lavori di smaltimento – la Petrol Lavori e la Stabia Yacth – con cui erano in atto i contratti per lo svolgimento di tale servizio.
La motivazione sarebbe, poi, contraddittoria perché avrebbe addebitato il ruolo di promotore anche per l’erronea compilazione dei formulari mentre risulterebbe dalla stessa sentenza (pag.23) che sui formulari sarebbe stata apposta la firma apocrifa del ricorrente.
Mancherebbero gli elementi fattuali per ritenere sussistente la condotta di promotore ed organizzatore.
2.3. Con il terzo motivo si deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., la violazione dell’art. 416 cod. pen. con riferimento alla ritenuta configurabilità dell’elemento materiale del reato di associazione per delinquere.
La Corte di appello si sarebbe limitata a richiamare alcune massime della giurisprudenza che escludono la sussistenza di un rapporto di specialità tra i reati ex art. 416 cod. pen. e 260 d.lgs. n. 152 del 2006 e non avrebbe risposto al motivo di appello sull’assenza, in concreto, di elementi idonei a ritenere che il programma criminoso avesse travalicato la predisposizione di mezzi finalizzati all’illecito smaltimento di rifiuti.
Contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale, la predisposizione dei mezzi, necessaria per la sussistenza del delitto ex art. 416 cod. pen., non può identificarsi con quella finalizzata alla commissione del reato di cui al capo 2) ex art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006.
I ruoli descritti nell’imputazione, su cui si fonda la motivazione, si riferiscono esclusivamente alle attività di smaltimento del grit esausto; la Corte di appello avrebbe sovrapposto l’organizzazione per la gestione dei rifiuti con la stabile organizzazione rilevante ex art. 416 cod. pen. ed avrebbe dedotto l’esistenza dell’associazione per delinquere con la contestazione di una serie di reati ambientali, ricompresi nello scopo del reato ex art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006.
Dopo i richiami alla giurisprudenza (pag.15-16) si sostiene che sarebbe erroneo il generico richiamo alla complessità dell’organizzazione per ritenere sussistente l’associazione per delinquere, posto che non sussisterebbe la struttura volta a commettere una serie indeterminata di delitti.
La motivazione sull’allestimento dei mezzi sarebbe di stile ed erronea laddove richiama la finalità di trarre il profitto illecito, per sostenere l’esistenza dell’associazione per delinquere, mentre tale finalità è tipica del traffico illecito di rifiuti.
Le plurime azioni consistite nello smaltimento del grit concretizzerebbero al più solo il delitto ex art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006. Mancherebbe la lesione del bene giuridico protetto dall’art. 416 cod. pen.
2.4. Con il quarto motivo si deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., il vizio di violazione di legge, in relazione agli artt. 416 e 43 cod. pen., per la ritenuta sussistenza del dolo del reato associativo in capo a Raffaele Palumbo (capo 1).
L’errore contenuto nella motivazione della sentenza (il passo è riportato nel ricorso) consisterebbe nell’avere ritenuto che il dolo sia specifico, perché finalizzato al conseguimento di un ingiusto profitto che, invece, sarebbe richiesto dall’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006; la Corte territoriale avrebbe sovrapposto le due ipotesi di reato.
Gli elementi del dolo del reato ex art. 416 cod. pen. non sussisterebbero nel caso in esame perché ciascuno degli imputati ha agito nel solco degli oneri contrattuali previsti dagli accordi in atti, nell'esclusivo interesse personale, senza che vi fosse alcuna consapevolezza comune di partecipare ad un'associazione per delinquere con lo scopo di realizzare un più vasto, generico programma criminoso. 
2.5. Con il quinto motivo si deduce il vizio di violazione di legge, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., in relazione all’art. 434 cod. pen. per la ritenuta configurabilità del disastro ambientale sulla mera scorta della valutazione di astratta pericolosità del grit, senza che si fosse proceduto alla individuazione dell’elemento del disastro.
Sarebbe stato confuso l’inquinamento, in ipotesi realizzato con lo smaltimento prolungato del grit, con il disastro, in base, inoltre, alla indimostrata natura di rifiuto pericoloso del grit esausto che non sarebbe stata dimostrata neanche dai testi citati nella motivazione della sentenza (cfr. pag. 20 e ss. del ricorso).
Mancherebbe, poi, l’elemento costitutivo del pericolo per la pubblica incolumità: la sentenza avrebbe omesso di indicare il luogo in cui si sarebbe consumato il disastro e come la condotta contestata agli indagati, mediante l’illecito smaltimento, abbia inciso sull’habitat circostante, alterandolo in maniera significativa e duratura.
Alcun fatto idoneo a determinare un disastro o il sorgere di un pericolo per la pubblica incolumità sarebbe addebitabile a Raffaele Palumbo.
2.6. Con il sesto motivo si deduce il vizio di violazione di legge, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., in relazione all’art. 15 cod. pen., per la mancata applicazione del principio del ne bis in idem sostanziale, dovendo i fatti contestati ai capi 5 e 9 dell’imputazione assorbiti nel reato di cui al capo 2.
La sentenza sarebbe viziata anche nella parte in cui ha ritenuto sussistenti i reati di cui ai capi 5 e 9, per quanto dichiarati estinti per prescrizione, perché le condotte ex art. 6 d.l. n. 172 del 2008 costituirebbero l’estrinsecazione della condotta di cui al capo 2 ed assorbiti nel reato ex art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006, oggi art. 452-quaterdecies cod. pen.
Si invoca l’applicazione dell’art. 15 cod. pen. Sullo specifico punto dell’appello la Corte territoriale avrebbe omesso ogni considerazione.
2.7. Con il settimo motivo si deduce il vizio di violazione di legge, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., in relazione agli artt. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 e 43 cod. pen. nella parte in cui è stato ritenuto sussistente il dolo specifico dell’aver agito al fine di conseguire un profitto che sarebbe consistito nell’evitare gli oneri connessi alla classificazione del rifiuto prima dello smaltimento; i rifiuti sarebbero stati smaltiti mediante l’indicazione nei formulari di un codice diverso, quello assegnato ai materiali da demolizione: in dibattimento – nell’esame all’udienza del 25 ottobre 2016 del dott. Sprovieri - sarebbe, però, emerso che il costo dello smaltimento di tali materiali sarebbe sostanzialmente analogo a quello previsto per il materiale abrasivo di scarto sicché sarebbe errata la motivazione della sentenza laddove ha ritenuto che il profitto illecito si identifichi con il risparmio del costi.
La sentenza avrebbe, poi, fatto coincidere l’elemento oggettivo con quello soggettivo.
2.8. Con l’ottavo motivo si deduce, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza e manifesta illogicità della motivazione sul trattamento sanzionatorio in relazione al mancato riconoscimento del minimo edittale ed al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Mancherebbe la motivazione in risposta al motivo di appello con cui si contestò la scelta del Tribunale di applicare una pena superiore al minimo edittale e di non riconoscere le circostanze attenuanti generiche.
La Corte territoriale non avrebbe valutato la immediata collaborazione del ricorrente con l’autorità giudiziaria, avvenuta nell’interrogatorio.
2.9. Il ricorrente ha poi depositato un motivo nuovo con il quale, oltre a ribadirsi i vizi della motivazione della sentenza, si eccepisce la prescrizione del reato associativo.

3. Il ricorso della Palumbo s.p.a.
Dopo aver riportato i fatti per i quali è intervenuta la condanna, nel periodo determinato dalla Corte di appello - dal 8 agosto 2009, data di entrata in vigore dell’art. 24-ter d.lgs. n. 231 del 2001, sino a tutto il 2011, ricordato l’attività svolta dalla società ricorrente, si indica che la sentenza è impugnata:
- per assenza di motivazione sul tema dei «bilanci di massa», ovvero del calcolo secondo cui tutto il grit era stato regolarmente smaltito presso la discarica autorizzata di Croce Salvatore a luglio 2009 con conseguenze sia sulla correttezza dello smaltimento sia sul tempus commissi delicti e sulla successiva entrata in vigore degli illeciti contestati (8 agosto 2009 per il 24-ter, 16 agosto 2011 per il 25-undecies d.lgs. n. 231 del 2001);
- per violazioni di legge e motivazione illogica nei capi e punti sulla qualifica di produttore del rifiuto; sulla insussistenza dei reati presupposto dell'illecito ex d.lgs. n. 231 del 2001; sulla mancanza di interesse o vantaggio della Palumbo s.p.a. in relazione allo smaltimento del grit e all'attribuzione dei codici Cer; sulla mancanza di profitto; sul ruolo dei dipendente di Raffaele Palumbo; sull'esistenza ed idoneità dei modelli organizzativi adottati dalla società; sulla confisca e sulla dosimetria della sanzione. 
3.1. Con il primo motivo si deducono la violazione degli artt. 2, comma 1, 24-ter, comma 2, e 25-undecies d.lgs. n. 231 del 2001 e la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione ai capi 1, 2, 5, 9 e 11.
L’ipotesi accusatoria sullo smaltimento del grit esausto si fonderebbe su una presunzione, fondata sulla differenza tra il totale di grit acquistato da Italscoria s.r.l. e quello inutilizzato trovato all'interno del cantiere Palumbo di Messina. Si è ipotizzato che le 2250 tonnellate mancanti fossero state illecitamente sversate nel terreno di Scopellitti Santi o portate nella discarica Croce di Vallone Guidara, accompagnate da un F.I.R. recante un codice Cer (17.09.04), volutamente errato e incompatibile con la natura del grit esausto, per ottenere un risparmio dovuto all'assenza di costi per lo smaltimento.
Risulterebbe, però, dalle dichiarazioni del teste di polizia giudiziaria Broccio che il calcolo per determinare la quantità di grit inutilizzato sarebbe stato effettuato mediante una stima ad occhio (cfr. le pagine 4 e 5 del ricorso). 
La Corte di appello non avrebbe risposto al motivo di impugnazione sui bilanci di massa contenuti nella relazione del dott. Mario Sprovieri, consulente tecnico della difesa ed avrebbe ritenuto che l'errore sui codici Cer fosse sufficiente ad integrare il reato ex art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006. 
La Corte territoriale non avrebbe, però, motivato sulle ragioni che avrebbero spinto la Palumbo s.p.a. all'adozione del codice cer 17.09.04, rifiuti misti di costruzione e demolizione, in luogo di quello corretto 12.01.16, materiale abrasivo di scarpe di scarto, e la rilevanza economica di tale scelta, sicché non sarebbe motivato il vantaggio che avrebbero tratto le società dall'indicazione fraudolenta del codice Cer. Mancherebbe la motivazione sul perché l'errata indicazione debba essere ricondotta alla malafede degli imputati. 
La Corte di appello non avrebbe risposto al motivo di appello con cui si sarebbe spiegato perché fu utilizzato il codice cer 17.09.04 che identifica i rifiuti derivanti da costruzione e demolizione. Il corretto uso della matrice 17, che ricomprenderebbe il ferro e, quindi, la ruggine depositata sugli scafi delle navi, non sarebbe neanche stato oggetto di domanda ai tecnici dell’Arpa.
Inoltre, la Corte territoriale avrebbe erroneamente motivato sulle deduzioni difensive che, invece, si fondavano sull’esame del dottor Sprovieri - da cui risulterebbe che prima del 2015, quando fu modificata la normativa dal Regolamento Ue della Commissione europea n.1357 del 2014, la matrice poteva essere regolarmente utilizzata, perché solo nel 2015 fu inserita la parola sabbiatura nel codice Cer 12.01.17 (l’esame è riportato  pag.7-8) – e della d.ssa Flora Cirelli, consulente esterno della Palumbo s.p.a. (pag.9.10 del ricorso) e della d.ssa Saladino, quanto alla necessità che il codice Cer si dovesse riferire alla tipologia di attività, intesa come ciclo produttivo.
La Corte di appello avrebbe commesso un travisamento della prova per omissione rispetto a tali prove.
Inoltre, la Corte territoriale non avrebbe valutato che sarebbero errati i calcoli effettuati dalla polizia giudiziaria e dal Pubblico ministero, perché eseguiti in maniera atecnica, come indicato nelle pagine 11-12 del ricorso, in particolare per non aver adoperato il peso specifico del grit, ma una densità pari a quella dell’acqua, in contrasto con la scheda tecnica del prodotto, richiamata in sentenza e con l’esame del teste dott. Sprovieri (pag.12-14 del ricorso); né sarebbero state valutate le testimonianze del dott. Sprovieri e della d.ssa Saladino (pag.15), dell’imputato Donnarumma (pag.16-17) sulla percentuale di grit che si polverizza e non produce rifiuto. La corretta valutazione di tali elementi di prova avrebbe determinato che i quantitativi di rifiuti portati in discarica erano uguali a quelli acquistati e non differenti come sostenuto dall’accusa.
Da pag. 19 della sentenza impugnata emergerebbe che la Corte di appello, e prima il Tribunale, non hanno valutato la prova documentale – le fatture di acquisto utilizzate dalla Corte territoriale - da cui risulta che parte del grit acquistato da Petrol Lavori era destinato a Siracusa; che la somma di 3.300 t. andava ridotta di 2.250 t. di grit perché o restituito a Italscoria, o trasferito al cantiere di Napoli o perché parte del grit sarebbe ancora nel cantiere di Messina.
Dalla valutazione delle prove documentali risulterebbe, dunque, la coincidenza tra i metri cubi acquistati e quelli smaltiti con il codice 17.
Sarebbe stato documentalmente provato che tutto il grit sarebbe stato conferito alla discarica di Croce Salvatore fino al luglio 2009.
La Corte di appello, che ha ridotto il periodo dell’attività illecita fino al 2011, rispetto alla originaria contestazione al 2013, ha fondato la penale responsabilità sulle dichiarazioni dell’autista e del palista della Futura Sud s.r.l. che si occupavano del trasporto dei rifiuti. Però, tali testi avrebbero riferito che i rifiuti del cantiere Palumbo sarebbero stati conferiti nel periodo 2007-2009 (pag. 26 della sentenza impugnata); la questione è rilevante perché gli illeciti contestati alla società ricorrente sono entrati in vigore ad agosto 2009 e ad agosto 2011 e perché la discarica Croce era autorizzata fino al 2010, come risulterebbe dalla testimonianza del teste Broccio (pag.19 del ricorso).
Il travisamento della prova riguarderebbe, altresì, i quantitativi che sarebbero stati sversati illecitamente nel terreno di Scopelliti Santi in Mili San Marco, anche se non oggetto di colpa ascritta alla società ricorrente (pag.20) e riguarderebbe il contenuto delle dichiarazioni dei tecnici dell’Arpa, ed in particolare della d.ssa Saladino, poiché tali tecnici non avrebbero mai cercato gli elementi caratterizzanti il grit, il ferro e l’alluminio.
La Corte di appello avrebbe anche travisato l’esito delle analisi effettuate dal consulente tecnico della difesa – affermando che anche da tali analisi non emergerebbe la presenza di ferro ed alluminio – in quanto il dottor Sprovieri, nell’effettuare gli accertamenti, non avrebbe cercato tali metalli, trovati dalla Università di Messina, ma quelli che caratterizzavano il grit esausto.
La motivazione sarebbe in contrasto con le prove acquisite anche quanto all’affermazione che lo smaltimento illecito si sia protratto fino al 2011, poiché il trasporto effettuato dalla ditta Santa Lucia trasporti di Luciano Musarra & C. del 13 giugno 2011 sarebbe stato destinato a Catania; ciò risulterebbe dalla testimonianza di Francesco Foti, dalle prove documentali e, come indicato a pagina 20 ultimo penultimo capoverso della sentenza impugnata, sarebbe stato effettuato con codice cer 12.01.17. Un ulteriore trasporto di grit esausto effettuato nel settembre del 2011 dalla stessa società fu rispedito alla Palumbo perché contenente grit esausto miscelato con altro materiale.
Mancherebbe, dunque, la prova che l'illecito smaltimento si sia protratto nell'anno 2011: di conseguenza, i fatti si sarebbero esauriti nel luglio 2009, data dell'ultimo conferimento presso la ditta Croce, come emergerebbe dalla deposizione del teste broccio (cfr. pagine 22 e 23 del ricorso).
Il trasporto del settembre 2011 non può ritenersi illecito perché i rifiuti sarebbero stati restituiti alla società ricorrente. 
La Corte di appello, peraltro, non avrebbe tenuto conto delle dichiarazioni dell’imputato Donnarumma (pag. 23-24 del ricorso) assolto dalla Corte di appello, e del teste Latino, per cui l'erronea miscelazione avvenuta in tale trasporto fu il frutto di un errore commesso dalla Stabia Yachting & Coating, società assolta, non riferibile alla società ricorrente.
Risulterebbe dal testo della sentenza, dunque, che le condotte sarebbero cessate nel luglio del 2009, mentre l’introduzione tra i reati presupposto della responsabilità dell’ente di quelli di criminalità organizzata è avvenuta con l’introduzione dell’art. 24-ter con la legge 15 luglio 2009 n.94, entrata in vigore il 8 agosto 2009, e dei reati ambientali con l’art. 25-undecies mediante l’art. 2 del d.lgs. 7 luglio 2011 n.121, entrato in vigore il 16 agosto 2011.
3.2. Con il secondo motivo si deducono, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’erronea applicazione dell’art. 183, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 152 del 2006, nei confronti della Palumbo s.p.a. e la mancanza di motivazione in relazione ai capi 1, 2, 5, 9 e 11.
La Corte di appello avrebbe erroneamente individuato nella società ricorrente il produttore del rifiuto; il rifiuto sarebbe stato, invece, prodotto dalle società sub appaltatrici, la Petrol Lavori e la Stabia Yachting.
Il richiamo alla giurisprudenza sarebbe erroneo.
La ricorrente non sarebbe stata la destinataria dell'obbligo di caratterizzazione e della corretta attribuzione del codice Cer, ritenuto determinante in sentenza per la sussistenza del delitto di traffico illecito di rifiuti perché, come risulterebbe anche dalla deposizione del teste Broccio (pag.29-31 del ricorso), in concreto, l’attività di sabbiatura era svolta dalle società sub appaltatrici.
La Corte di appello sarebbe giunta alla condanna operando un travisamento per omissione delle prove in quanto da esse sarebbe, invece, emerso:
- che i contratti di subappalto con le ditte che si occupavano della sabbiatura, la Petrol Lavori e la Stabia Yachting, prevedevano lo smaltimento con la corretta attribuzione del codice Cer, a carico delle ditte subappaltatrici e, solo per alcune lavorazioni commissionate alla Petrol Lavori, a spese della Palumbo s.p.a. ma sempre a carico della Petrol Lavori (testi Ciaramella e d.ssa Latino, pag. 31-33); 
- che i contratti, i documenti di sicurezza delle navi a firma di Fabio Tripoli della Petrol Lavori, i passaggi di attrezzature, i testi escussi (d.ssa Latino, pag.33, e Broccio pag. 34-36 del ricorso) avrebbero dimostrato che lo smaltimento del grit fosse a carico delle ditte subappaltatrici, fosse stato acquistato per l’attività svolta da queste ultime su cui gravava anche l’onere di redazione del formulario.
La Corte di appello avrebbe erroneamente applicato l’art. 183, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 152 del 2006, nel ritenere la ricorrente produttrice del rifiuto; alla società non sarebbe riferibile la produzione del rifiuto che è, invece, attribuibile alle sub appaltatrici. Si richiama la giurisprudenza che avrebbe sempre ritenuto che lo smaltimento a carico dell'appaltatore e subappaltatore, in relazione all'attività svolta e al ciclo produttivo autonomo rispetto all'attività principale e che escluderebbe qualsiasi obbligo giuridico di intervenire in capo all’appaltante.
Conseguentemente l'unico soggetto da cui poteva pretendersi la redazione del formulario dei rifiuti erano la Petrol Lavori e la Stabia Yachting quali ditte subappaltatrici. Si richiama anche la deposizione della d.ssa Saladino (pag.38-41).
L'attività di sabbiatura inciderebbe in maniera irrisoria sul volume della produzione della Palumbo s.p.a. la quale, pertanto, non avrebbe alcun vantaggio interesse a smaltire il regolarmente il grit. 
2.3. Con il terzo motivo si deduce la violazione degli artt. 24-ter d.lgs. n. 231 del 2001 e 416 cod. pen. La conferma della sussistenza del reato associativo sarebbe avvenuta con motivazione apodittica; erroneamente sarebbe stata attribuita la qualifica di organizzatore e promotore a Raffaele Palumbo perché l’attività di sabbiatura non rientrava nelle sue competenze; le società avrebbero operato ciascuna per i propri interessi, come risulterebbe in via documentale dallo scambio di minute dei contratti.
Si richiama la giurisprudenza sulla distinzione tra concorso di persone nel reato e reato associativo (pag.43-44); i giudici di merito avrebbero solo individuato un accordo per realizzare, in maniera articolata, il risparmio sui costi di smaltimento del grit; anche l’imputazione sub 1 farebbe esclusivo riferimento al solo smaltimento del grit quale programma criminoso.
3.4. Con il quarto motivo si deducono l’erronea applicazione dell’art. 5 d.lgs. n. 231 del 2001 in relazione alla mancanza di interesse o vantaggio per l’ente, e dell’art. 25-undecies d.lgs. n. 231 del 2001 in relazione all’elemento costitutivo dell’ingiusto profitto e la mancanza di motivazione in relazione ai capi 1,2,5.9 ed 11, in relazione all’art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001.
La motivazione sull’interesse o vantaggio della ricorrente e sull’ingiusto profitto, elemento costitutivo dell’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006, oggi art. 452-quaterdecies cod. pen., sarebbe mancante; l’affermazione sui lucrosi guadagni sarebbe apodittica non essendovi motivazione sulla differenza tra il costo sostenuto indicando il Cer 17.09.04 e quello ritenuto corretto 12.01.17 e non avendo la Corte territoriale risposto al motivo di appello su quanto emerso in dibattimento sulla indifferenza, quanto ai costi, dell’uso di un codice o di un altro e della marginalità dell’attività di sabbiatura da parte della società ricorrente. 
Il costo sostanzialmente pari emergerebbe dall’esame del dottor Sprovieri (pag. 46 del ricorso), ferme restando le argomentazioni sul soggetto reale produttore del rifiuto.
La Corte territoriale avrebbe, poi, valorizzato l’attività di sabbiatura nell’attività della società ricorrente non tenendo conto del motivo di appello fondato sulle deposizioni dei testi dottor Ciaramella, direttore amministrativo, e della d.ssa Latino, amministratore unico (udienza del 28 febbraio 2017), avvenute mediante l’analisi della documentazione (pag.48-52) sulla marginalità dell’attività di sabbiatura sul complessivo volume di affari.
Il punto sarebbe rilevante perché dimostrerebbe l’assenza di interesse o vantaggio della ricorrente a lucrare sullo smaltimento del grit.
La Corte di appello avrebbe, poi, rigettato il motivo sull’insussistenza dell’ingiusto profitto, rilevante anche ai fini della confisca, facendo riferimento apoditticamente ai maggiori costi e senza rispondere alle argomentazioni in diritto dell’appello sul profitto confiscabile e sull’errore di calcolo del Tribunale.
3.5. Con il quinto motivo si deducono i vizi di erronea applicazione degli art. 5, comma 1, lett. a) e 6, comma 1, d.lgs. n. 231 del 2001 e l’assenza di motivazione sui modelli organizzativi adottati dalla società.
L’unico passaggio della responsabilità della società ricorrente sarebbe a pag. 40 della sentenza impugnata (riportato nel ricorso), ed opererebbe una inversione dell’onere della prova in capo all’ente incolpato; mancherebbe, invece, la valutazione degli elementi costitutivi della responsabilità dell’ente: la motivazione si fonderebbe sulla responsabilità di Raffaele Palumbo quale gestore di fatto del cantiere di Messina, senza l’indicazione degli elementi di responsabilità, l’interesse o il vantaggio dell’ente, erroneamente ritenuti esistenti per il dolo della persona fisica.
 La motivazione sul criterio di imputazione soggettiva, la colpa grave, sarebbe apodittica, frutto del travisamento della prova per omissione dei documenti prodotti dalla difesa, privo del giudizio di idoneità ed adeguatezza dei modelli organizzativi e della indicazione del comportamento alternativo lecito, della prevedibilità ed evitabilità dell’evento.
La sentenza sarebbe, poi, contraddittoria perché avrebbe ridotto la sanzione pecuniaria ed escluso la sanzione interdittiva perché la società ricorrente ha dimostrato di aver eliminato le carenze organizzative che avevano determinato reati, mediante l'adozione e l'attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire i reati e ha messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca (pag. 41 della sentenza impugnata). Orbene il Mog adottato dalla società ricorrente è unico, ed è intervenuto il 30 settembre 2008 ed è stato prodotto all’udienza del 28 febbraio 2017. Quello del 2011 è stato adottato perché in tale anno sono stati introdotti i reati ambientali nel catalogo del d.lgs. n. 231 del 2001. Tali dati risultano anche dalla testimonianza della d.ssa Latino (pag. 58 del ricorso).
3.6. Con il sesto motivo si deduce l’erronea applicazione degli artt. 5, 6 e 7 d.lgs. n. 231 del 2001. La Corte di appello avrebbe omesso di valutare le prove che escludono la qualità di soggetto apicale di Raffaele Palumbo. Dalle deposizioni dei testi dott. Ciaramella e d.ssa Latino, rispettivamente direttore amministrativo e amministratore unico della Palumbo s.p.a., emergerebbe che Raffaele Palumbo avrebbe avuto solo il compito di verificare il corretto funzionamento del cantiere di Messina ma non avrebbe avuto compiti relativi alla sabbiatura; avrebbe ricoperto solo la carica di direttore commerciale.
Inoltre, la Corte territoriale avrebbe ritenuto Raffaele Palumbo amministratore di fatto del cantiere di Messina per la presenza sui formulari della sua firma; non avrebbe valutato la consulenza tecnica grafologica che avrebbe dimostrato che sui formulari era stata apposta la firma apocrifa di Raffaele Palumbo il quale, peraltro, non era il rappresentante legale della società. Ciò emergerebbe anche dall'esame della d.ssa Latino.
Tenuto conto della qualifica soggettiva di Raffaele Palumbo quale soggetto sottoposto alla direzione e vigilanza dell’ente, la posizione ricoperta da quest’ultimo non può integrare il criterio di imputazione soggettivo ex art. 5, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 231 del 2001, bensì quello di cui alla lett. b), con conseguente maggior aggravio valutativo per il giudice per la dimostrazione del nesso di causalità tra l’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza e la commissione del reato da parte del dipendente.
La Corte di appello ha, invece, limitato la responsabilità dell’ente all’accertamento del reato da parte della persona fisica.
Quanto alla esigibilità della condotta, si richiama la testimonianza della d.ssa Latino sul possesso di tutte le certificazioni ambientali; anche tale prova non sarebbe stata valutata dalla Corte di appello.
3.7. Con il settimo motivo si deducono i vizi di erronea applicazione degli artt. 11 e 12 d.lgs. n. 231 del 2001 in relazione al capo 11 e la mancanza di motivazione sul trattamento sanzionatorio; si deduce la mancata applicazione dei criteri di proporzionalità, idoneità e gradualità e dell’art. 12 d.lgs. n. 231 del 2001, tenuto conto della sospensione delle attività di sabbiatura, della messa a disposizione della somma, sequestrata, ritenuta equivalente al profitto, dell’adozione del Mog nel 2008.
 
CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Sul ricorso di Raffaele Palumbo
1.1. Deve preliminarmente rilevarsi, tenuto conto che il ricorso per cassazione di Raffaele Palumbo non è inammissibile, che è fondata l’eccezione di estinzione del reato ex art. 416 cod. pen. per prescrizione, unico delitto per il quale è intervenuta la condanna.
Il termine ordinario di prescrizione è di 7 anni, tenuto conto della pena massima inflitta per il delitto di cui all’art. 416, comma 1, cod. pen.
Secondo l’imputazione, la condotta relativa al reato associativo è cessata il 15 aprile 2013, data di esecuzione della misura cautelare. 
Il termine ordinario di prescrizione deve essere aumentato di un quarto, di un anno e 9 mesi; al termine massimo di prescrizione di 8 anni e 9 mesi devono essere aggiunti i periodi di sospensione della prescrizione, pari a 240 giorni in primo grado e 161 giorni nel giudizio di appello, come calcolati dalla Corte di appello nella sentenza impugnata (cfr. pag. 39). Si giunge al 20 febbraio 2023.
La sentenza impugnata deve, di conseguenza, essere annullata senza rinvio perché estinto il reato per prescrizione con assorbimento del motivo relativo al trattamento sanzionatorio.
I motivi dovranno essere esaminati ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen., tenuto conto della presenza delle parti civili.
1.2. Il primo motivo, con cui si deduce il vizio di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, è infondato.
Tale motivo, per quanto formalmente riferito ai capi 1, 2, 3, 5 e 9, si riferisce esclusivamente alla gestione del grit esausto, oggetto dell’imputazione sub capo 2, anche quale reato fine dell’associazione per delinquere di cui al capo 1.
Per i reati di cui ai capi 5 e 9, che riguardano il trasporto e l’illecita miscelazione dei rifiuti, l’unica contestazione concerne il dedotto assorbimento nel delitto di cui al capo 2, non la sussistenza del fatto.
1.2.1. Dal testo della sentenza impugnata, riportato nello stesso ricorso, risulta che la questione della consegna del grit presso il cantiere di Messina o altro cantiere è stata esplicitamente esaminata dalla Corte di appello che fa anche riferimento alla consulenza tecnica del dottor Sprovieri. Dunque, il motivo di impugnazione risulta esaminato.
1.2.2. La motivazione della sentenza non può dirsi manifestamente illogica perché, oltre ai passi citati nel ricorso, si fonda anche sulla valutazione del sopralluogo svolto il 22 maggio 2012 presso il cantiere navale di Messina della Palumbo s.p.a., sulle dichiarazioni dei testi Placido Broccio, Luciano Musarra e Francesco Foti, sulla documentazione sequestrata presso la Palumbo s.p.a., sulla valutazione delle prove indicate dalla difesa (il consulente tecnico dottor Sprovieri e la consulente della Palumbo s.p.a. Flora Cirelli), sull’analisi dei rapporti di prova e dei formulari acquisiti, sulle dichiarazioni dei testi Daniele Cardile, Andrea Parisi, Antonino Russo, Giuseppe Egitto, Irene Regalbuto, Alessandra Latino, sull’interrogatorio di Raffaele Palumbo (cfr. pag.23-24), sull’esame dell’imputato Mario Fierro, sulle dichiarazioni dei testi Giacomo Altieri, Giuseppe Miduri, Letterio Cubbeta.
Con il motivo, pertanto, il ricorrente ha effettuato un confronto parziale con la motivazione della sentenza, posto che la Corte di appello ha ritenuto esistente un accordo illecito, complessivo, tra tutti i soggetti impegnati nello smaltimento del grit esausto.
1.2.3. Per altro, la sussistenza del reato sub capo 2 è stata ritenuta dalla Corte territoriale in base all’accertato uso di un codice Cer, volutamente errato, il 170904 – relativo al «materiale misto da demolizione» - anziché di quello corretto 120116 (materiale abrasivo di scarto, contenente sostanze pericolose) o 120117 (materiale abrasivo di scarto diverso da quello di cui alla voce 120116) proprio per il grit esausto detenuto presso il cantiere di Messina della Palumbo s.p.a. e per l’illecita miscelazione dei rifiuti.
Le prove acquisite (cfr. pag. 23) hanno escluso che dopo il 2007 siano stati eseguiti nel cantiere lavori edili di demolizione.
Tali formulari risultano essere stati redatti solo per un periodo di tempo, pur essendo proseguite le attività di gestione del rifiuto, come risulta dalla ricostruzione dei fatti operata nelle pagine 25 e ss. della sentenza impugnata.
Gli elementi di prova sul punto sono stati indicati dalla Corte territoriale proprio rispondendo ai motivi di appello (cfr. da pag.21) ed indicando tra le fonti di prova anche l’esame dell’imputato che ha ammesso, pur disconoscendo la firma, che i formulari relativi ai trasporti si riferiscano in realtà al grit esausto.
1.2.4. Come correttamente rilevato dalla Corte di appello, secondo la giurisprudenza (Sez. 3, n. 47288 del 09/10/2019, Verlezza, Rv. 277898 – 01, in motivazione) anche in base alla sentenza del 29 marzo 2019 della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, il detentore del rifiuto (e non soltanto il produttore), quando la composizione del rifiuto potenzialmente pericoloso non sia immediatamente nota, ha l'onere di raccogliere le informazioni idonee a consentirgli di acquisire una conoscenza sufficiente di detta composizione e, in tal modo, di attribuire a tale rifiuto il codice appropriato.
Per la giurisprudenza, va esclusa radicalmente la possibilità di arbitrarie scelte da parte del detentore del rifiuto circa le modalità di qualificazione del rifiuto ed accertamento della pericolosità.
I rifiuti indicati nei formulari con il codice Cer errato risultano trasportati dalla La Futura s.r.l. di Scopelliti Santi ed effettivamente giunti a destinazione; sono stati sversati nella discarica di inerti della ditta Croce Salvatore in Vallone Guidara.
Pertanto, è del tutto irrilevante che la discarica Vallone Guidara fosse autorizzata a ricevere le tipologie di rifiuti con codice cer 17 2 12, perché ciò che rileva, ai fini della sussistenza del reato, è l’avvenuta gestione dei rifiuti con modalità dolosamente volte a rappresentare una diversa natura del rifiuto e la prosecuzione degli sversamenti, direttamente nella vallata, trasportati con formulari mai rinvenuti (cfr. pag. 26-27 della sentenza).
Dalla sentenza risulta, altresì, l’avvenuta illecita miscelazione dei rifiuti (cfr. pag. 20-21).
1.2.5. Il primo motivo, al punto 1.2 del ricorso, è manifestamente infondato perché, contrariamente a quanto si rappresenta, la Corte di appello ha esplicitamente valutato la questione relativa all’analisi comparativa (a partire da pag.28), rigettando il motivo di appello in base alle fonti di prova ivi indicate, alle modalità dello sversamento, descritte nelle pag. 29 e 30, mentre il ricorso si limita a riproporre la tesi difensiva senza indicare perché la motivazione sarebbe manifestamente illogica, tale essendo il vizio dedotto.
La consulenza del dottor Sprovieri risulta essere stata analizzata in più punti della sentenza, con motivazione espressa di rigetto delle tesi proposte, sicché il dedotto vizio di omessa motivazione (pag. 9 del ricorso) è manifestamente infondato.
1.2.6. In ogni caso, deve rilevarsi che i capi di imputazione ascritti al ricorrente non fanno alcun riferimento alla discarica di Mili San Marco, ma solo a quella di Contrada Vallone Guidara, sicché la questione dedotta nelle pagine 7-10 del ricorso è priva di concreta rilevanza ai fini della decisione.
1.3. Il secondo motivo, con cui si deduce il vizio di manifesta illogicità della motivazione sul ruolo di promotore ed organizzatore attribuito a Raffaele Palumbo è infondato.
1.3.1. Ed invero, la sentenza di primo grado ha richiamato l’interrogatorio dell’imputato il quale ha riferito che egli si occupava delle attività dei cantieri di Messina: quindi, anche di quelle relative al grit esausto, posto che nell’interrogatorio del 29 giugno 2012 il ricorrente ha affermato «… di sapere che il materiale che usciva dal cantiere e che veniva trasportato con la dicitura "materiale da demolizione" era grit esausto, pur trincerandosi dietro l 'inaccettabile giustificazione, inaccettabile in considerazione dell'attività professionale svolta da tempo e diffusamente dai Palumbo, di essere convinto che il grit esausto fosse un materiale assimilabile a materiale da demolizione, circostanza, peraltro, quest'ultima, smentita, anche solo sotto il profilo visivo, da numerosi testi…» (così la sentenza di primo grado a pag.17).
1.3.2. Anche la Corte di appello ha richiamato tali dichiarazioni nonché (cfr. pag. 24) quelle relative alle modalità di smaltimento del grit esausto.
Ha, altresì, richiamato le dichiarazioni di Giuseppe Egitto, in cui vi sono espliciti riferimenti alle modalità di gestione del grit esausto ed alle istruzioni fornite da Raffaele Palumbo al teste ed a Diego De Domenico, che risulta essere stato condannato in via definitiva per i reati di cui agli art. 416, cod. pen. e 110 cod. pen. e 260 d.lgs. n. 152 del 2006.
Il ruolo attivo nella gestione del cantiere – indicato quale responsabile del cantiere - e dei rifiuti relativi al grit esausto è stato ritenuto provato anche in base alle dichiarazioni di Mario Fierro, nei confronti del quale la condanna inflitta per i reati di cui ai capi 1,2,3 e 5 con la sentenza di primo grado è divenuta irrevocabile il 1 giugno 2019 (cfr. pag. 25 e 26).
La Corte territoriale ha fondato la decisione anche sulle dichiarazioni di Irene Ragalbuto, che ha specificamente indicato che il cantiere di Messina era di fatto amministrato da Raffaele Palumbo.
1.3.3. Secondo il ricorrente la motivazione sarebbe manifestamente illogica perché non risulterebbe che Raffaele Palumbo abbia dato istruzioni ai dipendenti delle altre ditte incaricate dei lavori di smaltimento. 
L’assunto difensivo, oltre a non confrontarsi con le prove testimoniali riportate nella sentenza, ed in particolare con il passo della motivazione sul rapporto del ricorrente con Diego De Domenico e la Futura sud s.r.l., non dimostra in alcun modo che la motivazione sia manifestamente illogica, perché la tesi difensiva presuppone che ogni promotore o organizzatore debba impartire istruzioni a ciascun partecipe, mentre proprio la condotta di gestione del cantiere e delle attività illecite relative ai rifiuti dimostra l’esistenza di quella attività di coordinamento degli associati, con i caratteri di essenzialità e infungibilità che, anche secondo il ricorso, concretizza la fattispecie ascritta al ricorrente. 
È, invece, manifestamente infondato il ricorso nella parte in cui attribuisce alla motivazione della sentenza che a Raffaele Palumbo sia addebitata l’erronea compilazione dei formulari, mentre la sentenza sul punto ha richiamato il contenuto dell’interrogatorio del ricorrente il quale ha collegato i formulari alla gestione del grit esausto, come prima indicato.
1.4. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
1.4.1. Con tale motivo si deduce il vizio di violazione di legge perché la Corte territoriale avrebbe, in estrema sintesi, sovrapposto gli elementi costitutivi del reato ex art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 con quelli di cui all’art. 416 cod. pen.
Poiché con tale motivo si deduce il vizio di violazione di legge, non si contesta la ricostruzione del fatto operata dalla Corte di appello. 
La sussistenza dei reati ex art. 416 cod. pen., 260 d.lgs. n. 152 del 2006 e 434 cod. pen., è stata già accertata in via definitiva a seguito della sentenza di Sez. 3, n. 39952 del 16/04/2019, Radin, Rv. 278531, nonché a seguito della dichiarazione di inammissibilità il 22 giugno 2018 del ricorso per cassazione proposto da Diego De Domenico avverso la condanna inflitta dalla Corte di appello di Messina il 18 aprile 2017.
1.4.2. In punto di diritto, il reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti era contemplato nell'articolo 260 d.lgs. n. 152 del 2006 che sanzionava la condotta di «chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti …». 
La stessa condotta è oggi prevista dall'art. 452-quaterdecies cod. pen.
Si è affermato che il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti è reato abituale, che si perfeziona soltanto attraverso la realizzazione di più comportamenti non occasionali della stessa specie, finalizzati al conseguimento di un ingiusto profitto, con la necessaria predisposizione di una, pur rudimentale, organizzazione professionale di mezzi e capitali, che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo (Sez. 3, n.16036 del 28/02/2019, Zoccoli, Rv.275395).
La condotta deve concretizzarsi in una pluralità di operazioni con allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, ovvero attività di intermediazione e commercio (cfr. Sez. 3, n. 40827 del 6/10/2005, Carretta, Rv. 232348; Sez. 3, n. 28685 del 04/05/2006, Buttone, Rv. 234931), e tale attività deve essere «abusiva», ossia effettuata o senza le autorizzazioni necessarie (ovvero con autorizzazioni illegittime o scadute), o violando le prescrizioni e/o i limiti delle autorizzazioni stesse (cfr. Sez. 3, n. 40828 del 6/10/2005, Fradella, Rv. 232350; Sez. 4, n. 28158 del 02/07/2007, Costa, Rv. 236906). 
1.4.3. Quanto al concorso tra il reato ex art. 452-quaterdecies cod. pen. e quello ex art. 416 cod. pen. il ricorso non tiene conto, a differenza della sentenza impugnata, che il reato ex art. 452-quaterdecies cod. pen. non richiede, per la sua configurazione, una pluralità di soggetti agenti, trattandosi di fattispecie mono-soggettiva, sebbene sia richiesta una pluralità di operazioni, in continuità temporale, relative ad una o più delle diverse fasi in cui si concretizza ordinariamente la gestione dei rifiuti. 
È configurabile il concorso tra i reati di associazione per delinquere (di cui all'art. 416 cod. pen.) e di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (di cui all'art. 260 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), non sussistendo tra gli stessi rapporto di specialità, trattandosi di reati che presentano oggettività giuridiche ed elementi costitutivi diversi, atteso che il primo si connota per un'organizzazione, anche minima, di uomini e mezzi funzionale alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti in modo da turbare l'ordine pubblico, mentre il secondo si caratterizza per l'allestimento di mezzi e attività continuative e per il compimento di più operazioni finalizzate alla gestione abusiva di rifiuti, così da esporre a pericolo la pubblica incolumità e la tutela dell'ambiente (Sez. 3, n. 19665 del 27/04/2022, Romanello, Rv. 283172 – 01).
La giurisprudenza ha effettivamente affermato che sussiste il concorso tra i reati quando vi è la necessaria presenza degli elementi costitutivi di entrambe le fattispecie, con la conseguente impossibilità di ricavare la sussistenza del reato associativo dalla mera sovrapposizione della condotta con quella richiesta per l'associazione per delinquere, prevedendo tale ultimo reato la predisposizione di un'organizzazione strutturale, sia pure minima, di uomini e mezzi, funzionale alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti, nella consapevolezza, da parte dei singoli associati, di far parte di un sodalizio durevole e di essere disponibili ad operare nel tempo per l'attuazione del programma criminoso comune, che non può certo essere individuata nel mero allestimento di mezzi ed attività continuative organizzate e nel compimento di più operazioni finalizzate alla gestione abusiva di rifiuti indicate dall'art. 260 d.lgs. 152\06, richiedendosi, evidentemente, un'attiva e stabile partecipazione ad un sodalizio criminale per la realizzazione di un progetto criminoso.
1.4.4. Con la sentenza impugnata, la Corte territoriale ha ritenuto che le prove acquisite, già prima indicate e riportate nella prima parte della motivazione, dimostrano che a partire dal 2018 è stata costituita tra gli imputati un'associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito dei rifiuti, mediante la stabile predisposizione di un'organizzazione strutturale di uomini e mezzi, funzionale alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti, costituita dalle società di cui all'imputazione che operavano in sinergia avvalendosi delle stesse persone, nella consapevolezza, da parte dei singoli associati, di far parte di un sodalizio durevole e di essere disponibili ad operare nel tempo per l'attuazione del programma criminoso comune.
In particolare, la Corte di appello ha rilevato che la sussistenza del quid pluris rispetto alla sola ipotesi ex art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 per l’esistenza di una organizzazione più complessa, in cui vi era una divisione dei ruoli, con la messa a disposizione da parte dei sodali delle strutture imprenditoriali, dei propri mezzi, del personale o della propria attività personale: una struttura, quindi, volta alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti relativi al traffico di rifiuti e dimostrata anche dalla reiterazione dei reati fine.
1.5. Il terzo ed il quarto motivo, nella parte in cui fanno riferimento al vizio di violazione di legge in relazione all’elemento soggettivo del reato, sono infondati. Ed invero, i motivi non colgono la ratio del passaggio di pag. 32 della sentenza impugnata: la Corte di appello non ha ritenuto che il dolo del reato ex art. 416 cod. pen. sia specifico e consista nel conseguimento di un ingiusto profitto ma ha fatto riferimento al fine comune dei partecipanti all’associazione per delinquere che è quello di compiere attività relative alla illecita gestione dei rifiuti, mentre il riferimento al lucro è il motivo che ha spinto i soggetti all’adesione al sodalizio, oltre a costituire il dolo specifico del delitto ex art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006.
1.6. Il quinto motivo, con cui si deduce il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 434 cod. pen., è manifestamente infondato in quanto parte dal presupposto che la sentenza impugnata avrebbe ritenuto integrato il disastro ambientale in base ad una valutazione astratta di pericolosità del grit.
Invece, la Corte di appello ha fondato la motivazione (cfr. pag. 34) in base al dato di fatto, risultante anche dalla sentenza, esplicitamente richiamata, di Sez. 3, n. 39952 del 16/04/2019, Radin, Rv. 278531, che il materiale di scarto era stato sversato con continuità e per diversi anni in prossimità di falde acquifere e, conseguentemente, aveva comportato una potenziale contaminazione diffusa, con gravissimo pericolo di inquinamento e lesione della pubblica incolumità. 
La Corte territoriale ha richiamato il principio di diritto secondo cui integra il c.d. «disastro innominato» di cui all'art. 434 cod. pen., non soltanto il macroevento di immediata manifestazione esteriore che si verifica in un arco di tempo ristretto, ma anche l'evento, non visivamente ed immediatamente percepibile, che si realizza in un periodo pluriennale (ex plurimis, Sez. 3, n. 2209 del 10/01/2018; Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014).
Il motivo è, pertanto, inammissibile per il difetto del requisito della specificità estrinseca, poiché non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata.
1.7. Il sesto motivo è manifestamente infondato perché i delitti di cui ai capi 5) - ex artt. 110 cod. pen., 6, comma 1, lett. a), b), d) del d.l. n.172 del 2008, convertito dalla legge n.210 del 2008 - e 9) - ex artt. 110 cod. pen., 6, comma 1, lett. g) del d.l. n.172 del 2008, convertito dalla legge n.210 del 2008 – hanno una diversa oggettività giuridica rispetto al reato ex art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 in quanto volti a tutelare i territori in cui vige lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti.
1.8. Il settimo motivo, con cui si deduce il vizio di violazione di legge, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., in relazione agli artt. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 e 43 cod. pen. nella parte in cui è stato ritenuto sussistente il dolo specifico, è inammissibile.
Con l’appello la contestazione relativa all’elemento soggettivo era limitata alla mancanza di consapevolezza sull’illecito smaltimento del grit esausto e sulla insussistenza dell’ingiusto profitto in relazione ai costi.
La Corte di appello ha ritenuto che il profitto ingiusto si sia concretizzato anche nel vantaggio conseguito nello smaltire il rifiuto con modalità diverse e semplificate, mediante la erronea classificazione del rifiuto.
Con il ricorso per cassazione si deduce il vizio di violazione di legge, con riferimento al dolo specifico, in relazione all’aver agito al fine di conseguire un profitto, ma poi il motivo si incentra sulla valutazione di una prova, l’esame del dottor Sprovieri in relazione al risparmio dei costi.
Dunque, il motivo, da un lato non è correlato alla motivazione della sentenza impugnata, che si fonda su una diversa ratio, dall’altro è perplesso, perché il richiamo alla prova implica la deduzione di un vizio della motivazione che non è stato specificamente dedotto.

2. Sul ricorso della Palumbo s.p.a.
2.1. La sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nei confronti della Palumbo spa limitatamente all'illecito amministrativo di cui al capo 11 in relazione ai soli reati di cui ai capi 5 e 9 perché il fatto non sussiste.
Come già affermato dalla Sez. 3, con la sentenza n. 39952 del 16 aprile 2019 nel separato processo nei confronti della Petrol Lavori s.r.l., per altro citata dalla Corte di appello (pag. 33) anche nella parte in cui ha pronunciato la sentenza di insussistenza dell’illecito amministrativo, la fattispecie di cui all'art. 6 del d.l. n. 172 del 2008 non rientra, a differenza delle altre fattispecie contestate, tra i reati-presupposto previsti dagli artt. 24 e ss. del d.lgs. n. 231 del 2001 e, conseguentemente, non può fondare la responsabilità amministrativa della ricorrente.
Cfr. nello stesso senso Sez. 3,  n. 2234 del 09/07/2021, Casa, Rv. 282694 – 02, secondo cui la responsabilità amministrativa dell'ente derivante da reati ambientali non è configurabile in relazione al delitto di gestione dei rifiuti nei territori nazionali dichiarati in stato di emergenza, di cui all'art. 6, lett. a) e d), n. 2, d.l. 6 novembre 2008, n. 172, convertivo con modificazioni nella legge 30 dicembre 2008, n. 210, non essendo tale disposizione inclusa nell'elenco dei reati-presupposto della responsabilità amministrativa di cui all'art. 25-undecies, comma 2, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
L’annullamento senza rinvio assorbe l’analisi dei motivi relativi a tali ipotesi di illecito amministrativo.
2.2. Il ricorso è fondato anche quanto ai residui illeciti amministrativi di cui al capo 11, in relazione ai reati di cui ai capi 1 e 2, per le ragioni che seguono, con assorbimento degli altri motivi e ferme restando le considerazioni già espresse sulla sussistenza dei reati di cui ai capi 1 e 2 e sulla condotta posta in essere da Raffaele Palumbo.
2.2.1. Occorre chiarire l’ambito applicativo degli art. 24-ter e 25-undecies d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 perché l'impostazione della sentenza impugnata è inficiata da un vizio di fondo.
La Corte di appello ha valorizzato, ai fini della responsabilità amministrativa della società ricorrente, fattispecie di reato estranee al tassativo catalogo dei reati-presupposto dell'illecito dell'ente collettivo e come tali oggettivamente inidonee, ex d.lgs. n. 231 del 2001 a fondarne la stessa imputazione di responsabilità, come nel caso dei reati di cui ai capi 5 e 9.
Tale delimitazione, per altro, vale anche per l’analisi dei motivi di ricorso, che sono fondati solo nei limiti di cui alla motivazione che segue.
2.2.2. La legge n. 94 del 2009 ha inserito nel corpo del d.lgs. n. 231 del 2001 l'art. 24-ter, ampliando l'elenco dei reati-presupposto ai delitti di criminalità organizzata; tale norma è in vigore il 8 agosto 2009. Con la stessa legge, però, non sono stati inseriti i reati-fine dell’associazione per delinquere di cui al capo 1): l’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 è stato inserito tra i reati presupposto della responsabilità degli enti solo a far data dal 16 agosto 2011.
Ne consegue che per ritenere sussistente la responsabilità dell’ente in base agli elementi indicati nell’art. 5 d.lgs. n. 231 del 2001, ai fini della sussistenza dell’illecito ex art. 24-ter d.lgs. n. 231 del 2001, il reato che deve essere stato commesso – prima del 16 agosto 2011 – nell’interesse o a vantaggio dell’ente è solo quello ex art. 416 cod. pen.: se, infatti, l’interesse o il vantaggio fosse valutato rispetto ai reati fine dell’associazione per delinquere, non ricompresi nel catalogo del d.lgs. n. 231 del 2001, si violerebbe il principio di tassatività.
Cfr. in tal senso Sez. 3, n. 8785 del 29/11/2019, dep. 2020, Palmieri, Rv. 278256, che in motivazione distingue gli elementi costitutivi della responsabilità dell’ente dalla determinazione del profitto.
2.2.3. Analogamente, per la sussistenza dell’illecito ex art. 25-undecies, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, le condotte che possono essere valutate sono solo quelle successive al 16 agosto 2011 e con riferimento ad esse deve essere specificamente motivato l’interesse o il vantaggio dell’ente.
2.2.4. Va, poi, ricordato che secondo la giurisprudenza per la responsabilità per gli illeciti previsti dal d.lgs. n. 231 del 2001 non è sufficiente dimostrare la commissione del reato presupposto da parte del soggetto organico alla società, ma occorre anche dimostrare l’assenza dei modelli di organizzazione e la cd. colpa di organizzazione.
Per Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261113 – 01, «In tema di responsabilità da reato degli enti, la colpa di organizzazione, da intendersi in senso normativo, è fondata sul rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli».
Recentemente, Sez. 4, n. 21704 del 28/03/2023, SASIL SRL., Rv. 284641 – 01, ha affermato il principio per cui ai fini della configurabilità della responsabilità da reato degli enti, non sono ex se sufficienti la mancanza o l'inidoneità degli specifici modelli di organizzazione ovvero la loro inefficace attuazione, essendo necessaria la dimostrazione della «colpa di organizzazione», che caratterizza la tipicità dell'illecito amministrativo ed è distinta dalla colpa degli autori del reato.
In motivazione tale sentenza afferma, richiamando Sez. 4, n. 18413 del 15/2/2022, Cartotecnica Grafica Vicentina, Rv. 283247, «… che la struttura dell'illecito addebitato all'ente è incentrata sul reato presupposto, rispetto al quale la relazione funzionale tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente hanno funzione di rafforzare il rapporto di immedesimazione organica, escludendo che possa essere attribuito a quest'ultimo un reato commesso sì da soggetto incardinato nell'organizzazione, ma per fini estranei agli scopi di questa … Ciò consente di dire, dunque, che l'ente risponde per fatto proprio e che - per scongiurare addebiti di responsabilità oggettiva - deve essere verificata una "colpa di organizzazione" dell'ente, dimostrandosi che non sono stati predisposti accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato. È il riscontro di un tale deficit organizzativo a consentire l'imputazione all'ente dell'illecito penale realizzato nel suo ambito operativo e spetta all'accusa, pertanto, dimostrare l'esistenza dell'illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa dell'ente e l'avere essa agito nell'interesse del secondo, previa individuazione di precisi canali che colleghino teleologicamente l'azione dell'uno all'interesse dell'altro (in motivazione, sez. 6, n. 27735 del 18/2/2010, Scarafià, Rv. 247666). Si tratta di un'interpretazione che, in sostanza, attribuisce al requisito della "colpa di organizzazione" dell'ente la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, di elemento costitutivo cioè del fatto tipico, integrato dalla violazione "colpevole" (ovvero rimproverabile) della regola cautelare. Essa va dimostrata dall'accusa e l'ente può dimostrarne l'assenza, gli elementi costitutivi dell'illecito essendo rappresentati dalla sopra descritta immedesimazione organica "rafforzata", ma anche da tale colpa di organizzazione, oltre che dal reato presupposto e dal nesso causale tra i due …».
2.2.5. La gran parte del ricorso (cfr. motivi 1,2) è volta a contestare i reati fine relativi alla gestione dei rifiuti per i quali non è ipotizzabile la responsabilità dell’ente.
2.2.6. Tanto premesso, la Corte di appello ha ritenuto sussistente la responsabilità dell’ente in base alla circostanza, fondata, che Raffaele Palumbo sia stata la persona a cui era attribuita la gestione di fatto del cantiere di Messina e sulla commissione dei reati di cui ai capi 1) e 2) ma, quanto agli altri presupposti della responsabilità ex d.lgs. n. 231 del 2001, ha affermato apoditticamente la sussistenza dell’interesse o del vantaggio senza neanche specificamente rapportarli alle condotte relative al reato associativo ed a quello ex art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006, nei limiti prima indicati.
2.2.7. In particolare, la sentenza impugnata ha indicato a pag. 41 un solo episodio che sarebbe rilevante, per la responsabilità dell’ente, ex art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006, con riferimento all’ultimo smaltimento del grit in data successiva al 8 settembre 2011. La rilevanza penale di tale episodio è stata esplicitamente contestata con il ricorso (cfr. pag. 22). Non risulta data risposta al motivo di appello sulla insussistenza dell’interesse o del vantaggio, ferme restando le considerazioni svolte sugli episodi concretamente ascrivibili all’ente, fondato sugli elementi di prova indicati nelle pag. 77 e ss. dell’appello. È dunque fondato il 4 motivo di ricorso.
2.2.8. Per altro, come indicato, la motivazione, già di per sé generica, si riferisce a reati esclusi dal catalogo, contestati ai capi 5 e 9, per i quali è necessario pronunciare la sentenza di insussistenza del fatto.
2.2.9. Quanto alla colpa di organizzazione, oltre a non motivare sul punto, la Corte territoriale non ha preso in esame il motivo di appello (pag. 75) sull’esistenza dei Modelli di Organizzazione e Gestione richiesti dal d.lgs. n. 231 del 2001, redatti nel 2008 e nel 2011; il motivo, per altro, era specifico, con l’indicazione delle fonti di prova da cui dedurre l’esistenza dei modelli. È fondato anche il quinto motivo di ricorso. La sentenza è anche contraddittoria perché nella parte relativa alla pena dà atto dell’esistenza di tali Modelli, senza però trarne le dovute conseguenze sulla valutazione della responsabilità dell’ente. 
Il ricorso è dunque fondato, nei limiti prima indicati, quanto ai reati di cui ai capi 1 e 2 indicati nel capo 11), con assorbimento degli altri motivi.

3. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nei confronti di Raffaele Palumbo perché il residuo reato di cui al capo 1 è estinto per prescrizione. Tenuto conto del rigetto degli altri motivi relativi alla sussistenza delle condotte contestate, devono essere confermate le statuizioni civili e l'imputato Raffaele Palumbo deve essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile WWF ITALIA che si liquidano nel valore medio pari ad euro 3.686, oltre accessori di legge. La sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nei confronti della Palumbo spa, limitatamente all'illecito amministrativo di cui al capo 11 in relazione ai soli reati di cui ai capi 5 e 9, perché il fatto non sussiste; deve, invece, essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Messina per nuovo giudizio relativamente ai residui illeciti amministrativi di cui al capo 11, in relazione ai reati di cui ai capi 1 e 2.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Palumbo Raffaele perchè il residuo reato di cui al capo 1 è estinto per prescrizione. 
Conferma le statuizioni civili. 
Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile WWF ITALIA che liquida in complessivi euro 3.686, oltre accessori di legge. 
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti della Palumbo spa limitatamente all'illecito amministrativo di cui al capo 11 in relazione ai soli reati di cui ai capi 5 e 9 perché il fatto non sussiste e con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Messina per nuovo giudizio relativamente ai residui illeciti amministrativi di cui al capo 11, in relazione ai reati di cui ai capi 1 e 2.
Così deciso il 24/01/2024.