Cass. Sez. III n. 35172 del 18 luglio 2017 (Ud 7 apr 2017)
Presidente: Ramacci Estensore: Andreazza Imputato: Giolo ed altro
Rifiuti.Smaltimento di rifiuti diversi da quelli per i quali si è in possesso di autorizzazione
Lo smaltimento di rifiuti diversi da quelli per i quali si è in possesso di autorizzazione configura il reato contestato atteso che il trattamento di un rifiuto diverso da quello autorizzato equivale a trattamento di rifiuti senza autorizzazione
RITENUTO IN FATTO
1. Giolo Luca e Maffei Antonio hanno proposto ricorso avverso la sentenza del Tribunale di Venezia in data 23/10/2014 di condanna per il reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 152 del 2006 per avere, rispettivamente nelle qualità di legale rappresentante della Giolo Costruzioni S.r.l. e di amministratore della società Nea Nordestambiente S.r.l. (società di consulenza della prima), gestito illecitamente 1.792.360 kg. di rifiuti CER 170504 prodotti nel cantiere di Marghera avviandoli a recupero presso l'impianto di Legnago della Zai Inerti S.r.l. laddove tali rifiuti non potevano essere indirizzati essendo tale impianto abilitato solo al recupero di inerti non pericolosi.
2. Con un primo motivo Giolo Luca lamenta la violazione dell'art. 8 cod. proc. pen. essendo competente non il Tribunale di Venezia ma quello di Verona in relazione al luogo di consumazione del reato coincidente con quello di consegna dei rifiuti all'impianto di Legnago.
2.1. Con un secondo motivo lamenta la violazione dell'art. 649 cod. proc. pen. essendo egli stato assolto per il medesimo fatto materiale (rubricato sub art. 257, comma 1. del d. Igs. cit.) con sentenza del Tribunale di Verona del 05/04/2014.
2.2. Con un terzo motivo lamenta la violazione dell'art. 256, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 152 del 2006 posto che i rifiuti venivano avviati ad impianto di recupero in possesso di regolare autorizzazione rilasciata dalla Provincia di Verona il 15/09/2010, unico limite per rifiuti con analoghe caratteristiche di quelli conferiti essendo stato quello dell'impossibilità di avvalersi delle procedure semplificate. Deduce pertanto che erroneamente la sentenza impugnata ha affermato che il provvedimento autorizzativo impone tassativamente di accettare e recuperare il rifiuto solo se il test di cessione sia conforme all'allegato 3 del d.m. 05/02/1988 e all'art.8 dello stesso d.m., quando, invece, nel provvedimento, è solo stata indicata la "preferenza" per tali rifiuti. Aggiunge che il contenuto dei floruri nei rifiuti in oggetto è stato accertato come inferiore alle concentrazioni di soglia da contaminazione di cui alle colonne A e B tabella 1, all. 5 al titolo V della parte IV del d. Igs. n. 152 del 2006. Lamenta inoltre in proposito il fraintendimento operato dalla sentenza laddove si è ritenuta la sussistenza di un invio di rifiuti per lo smaltimento in discarica in luogo invece del trasporto per il recupero. Deduce inoltre la ascrivibilità del reato unicamente al produttore dei rifiuti, tale certamente non essendo Giolo giacché la società in oggetto venne costituita al solo fine di realizzare, non in proprio, ma da un appaltatore (nella specie la Fimart costruzione s.r.I.), un edificio residenziale, dunque essendo egli unicamente committente dei lavori e non potendo quindi rispondere dei rifiuti prodotti dall'appaltatore.
2.3. Con un quarto motivo lamenta infine la violazione dell'art. 188, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006 avendo Giolo conferito rifiuti alla Zai Inerti S.r.l. in possesso di valida autorizzazione ed avendo egli, quale condizione per l'esclusione da ogni responsabilità, ricevuto dalla Zai, nel termine di legge, i formulari di cui all'art. 193 del d.lgs. cit..
3. Con un primo motivo Maffei Antonio lamenta la violazione dell'art. 256, comma 1, lett. a), d. Igs. cit. giacché la sentenza ha affermato che i rifiuti non potevano essere conferiti alla Zai inerti s.r.l. in quanto superanti i limiti di legge per il parametro floruri quando invece l'autorizzazione n. 4752/10 del 15/9/2010 non aveva configurato l'esito positivo del test di cessione quale presupposto necessario per l'accettazione e ammissibilità del rifiuto (test necessario previsto solo per i rifiuti in uscita all'impianto di trattamento) ma solo quale criterio preferenziale della stessa. Era invece sufficiente accertare, per ritenere rispettata l'autorizzazione, che i rifiuti avevano lo stesso codice CER identificativo dei rifiuti ammissibili e che l'analisi di caratterizzazione ne aveva stabilito la non pericolosità.
3.1. Con un secondo motivo lamenta la violazione sempre dell'art.256, comma 1, lett. a), cit. laddove la sentenza, ritenendo che i rifiuti non sarebbero stati "inerti", ha fatto applicazione, in violazione del divieto di analogia in materia penale, ad un impianto di recupero, della normativa riguardante invece le discariche (art.2 comma 1 lett. e) del d.lgs. n. 36 del 2003), da essa traendo infatti la definizione di inerte. Del resto, se sono inerti i rifiuti solidi "che non subiscono alcuna trasformazione fisica chimica o biologica", tali non erano i rifiuti in oggetto essendo l'impianto della Zai destinato proprio a trattare i rifiuti attraverso un processo di trasformazione fisica.
3.2. Con un terzo motivo lamenta la mancanza e contraddittorietà di motivazione in relazione al contributo causale apportato dal concorrente al verificarsi dell'evento. Premesso che dalla stessa sentenza emerge che Maffei non ha partecipato alla gestione né come produttore né come detentore né come intermediario, cessionario trasportatore o destinatario (ovvero tutte le figure tipizzate dall'art. 183 del d.lgs. cit.), la sentenza non ha saputo individuare alcuna condotta esplicativa di un suo concreto contributo alla realizzazione della condotta avendo semplicemente affermato l'intervento nella predisposizione e trasmissione di documentazione tecnica essendo il conferimento stato deciso da Luca Coin, amministratore delegato della Geonova, come sempre affermato in sentenza.
3.3. Con un quarto motivo lamenta infine la contraddittorietà e manifesta illogicità di motivazione quanto alla condanna al risarcimento dei danni non patrimoniali in favore della Provincia di Venezia adottata pur a fronte del fatto che lo smaltimento dei rifiuti era di competenza della Regione e che il conferimento era avvenuto presso l'impianto della Zai in Legnago autorizzato dalla Provincia di Verona. Di qui l'assenza di alcun danno da sviamento di funzioni o all'immagine in capo alla Provincia di Venezia.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso proposto da Giolo Luca è inammissibile.
Quanto anzitutto al primo motivo, ripropositivo della doglianza in ordine alla incompetenza per territorio del Tribunale di Venezia, l'ordinanza in data 20/03/2013, nell'affermare la competenza dello stesso Tribunale, ha fatto corretta applicazione delle norme processuali. Infatti, deve ritenersi che la condotta di smaltimento, nella specie contestata e consistente, secondo la definizione data dall'art. 183, comma 1, lett. z), del d.lgs. n. 152 del 2006, in qualsiasi operazione diversa dal recupero, abbia avuto inizio nel momento e nel luogo in cui, assunta la decisione (comunicata, come risultante dalla sentenza, all'Arpav in data 16/09/2010) in ordine alle modalità di gestione dei rifiuti prodotti dal cantiere, è evidentemente iniziato, in guisa incompatibile con una condotta di recupero cui, secondo la stessa contestazione, l'impianto della Zai Inerti non poteva provvedere, il trasporto degli stessi e si sia conclusa allorquando detti rifiuti sono definitivamente pervenuti presso l'impianto di Legnago.
Ne consegue che, sotto tale profilo, il reato contestato ha assunto connotazioni di permanenza tali da rendere applicabile il disposto dell'art.8, comma 3, cod. proc. pen. con conseguente attribuzione, correttamente avvenuta, al Tribunale di Venezia quale luogo di inizio della consumazione.
2. Il secondo motivo è inammissibile.
La sentenza impugnata ha posto in rilievo che la sentenza di assoluzione del Tribunale di Verona del 05/04/2014 è intervenuta con riguardo alla ipotesi contravvenzionale, diversa da quella contestata, di cui all'art. 257, comma 1, del d.lgs. cit., di mancata effettuazione di bonifica; e tale affermazione non è stata confutata dal ricorrente che, pur dando, anzi, atto del fatto che la norma contestata per la quale è intervenuta assoluzione è stata appunto quella dell'art. 257, comma 1, ha ciononostante dedotto che l'attività materiale sarebbe stata in realtà quella di conferimento senza rispetto delle prescrizioni imposte all'impianto di Legnago, senza argomentare, come avrebbe dovuto per rendere specifico il motivo, sulle ragioni di una tale, peraltro apparentemente contraddittoria, conclusione.
3. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
La sentenza impugnata ha affermato, quanto alla condotta materiale posta in essere, che, poiché il cumulo di rifiuti in oggetto, derivati dal cantiere edilizio di Marghera della Giolo Costruzioni, conteneva, come accertato in particolare a seguito delle analisi sull'eluato effettuate dalla Chemilab S.r.I., una percentuale assai rilevante di floruri pari a mg/I 45,15, ciò ne imponeva, atteso il superamento del limite proprio dei rifiuti non pericolosi di cui al d.m. 03/08/2005, e la conseguente esclusione della natura di inerti, la automatica e necessaria destinazione a discarica di rifiuti pericolosi.
Di qui, dunque, la certamente non illogica conclusione, che, evidentemente, questi stessi rifiuti non potevano essere conferiti all'impianto di trattamento della Zai Inerti, essendo quest'ultimo munito di autorizzazione (n. 4752/10 del 15/09/2010) che, tenuto conto, così come contestato in imputazione, anche della determinazione n. 2794/06 del 17/05/2006 della Provincia di Verona, relativa alla modifica con integrazione delle prescrizioni dei provvedimenti di autorizzazione di tutti gli impianti di frantumazione per il recupero di rifiuti inerti non pericolosi (e che fa obbligo al gestore dell'impianto di sottoporre i rifiuti al momento dell'ingresso al test di cessione secondo quanto appunto stabilito dall'art. 3 del d.m. 05/02/1998) poteva evidentemente consentire l'accettazione e il recupero dei rifiuti, in ogni caso solo inerti, unicamente in presenza di test di cessione conforme all'allegato 3 del d.m. 05/02/1998.
Ciò, tanto, più, avendo la stessa sentenza ricordato che l'impianto aveva attrezzatura idonea al solo trattamento dei materiali destinati poi ad essere utilizzati come materiale di sottofondo di strade, edifici e quant'altro.
Ora, incontestata dal ricorrente detta motivazione quanto all'intervenuto superamento del limite proprio dei rifiuti non pericolosi in conseguenza dell'elevato contenuto dei floruri, la prima sostanziale doglianza mossa col motivo contesta che ciò impedisse alla Zai Inerti di ricevere inerti pericolosi giacché la conformità dei rifiuti ai requisiti del d.m. 05/02/1998 avrebbe unicamente rappresentato, nell'autorizzazione della Provincia di Verona n.4752/10 del 15/9/2010, un criterio non già di preclusione ad accettare quelli aventi valori superiori bensì solo volto a far preferire quelli posti "nei limiti"; di qui, dunque, secondo il ricorrente, la conclusione che i rifiuti in oggetto ben potevano essere accettati e lavorati dalla Zai.
E tuttavia una tale doglianza, anche a volere prendere atto del criterio unicamente "preferenziale" per l'accettazione dei rifiuti che l'autorizzazione n. 4752/10 avrebbe presentato, non appare appunto confrontarsi, da un lato, con la pregiudiziale impossibilità di qualificare i rifiuti di specie come inerti (tale per cui, a ben vedere, lo stesso codice CER 170504, quale criterio, non discusso dal ricorrente, di sicura delimitazione di quanto poteva legittimamente entrare nell'impianto, risulterebbe in definitiva non corrispondente alla effettiva natura dei rifiuti) e, dall'altro, con la necessità in ogni caso di leggere il provvedimento autorizzativo alla luce appunto della determinazione n. 2794 del 2006.
Sicché, in definitiva, e precisato che lo smaltimento di rifiuti diversi da quelli per i quali si è in possesso di autorizzazione configura il reato contestato atteso che il trattamento di un rifiuto diverso da quello autorizzato equivale a trattamento di rifiuti senza autorizzazione (cfr., in generale, tra le altre, Sez. 3, n. 43849 del 06/11/2007, dep. 26/11/2007, De Pascalis, Rv. 238074; Sez. 3, n. 12349 del 09/02/2005, dep. 01/04/2005, Renna, Rv. 231068), la doglianza in oggetto deve essere disattesa.
3.1. Quanto al secondo profilo affrontato dal terzo motivo, ovvero l'invocata esclusione di ogni responsabilità in capo a Giolo per non avere egli prodotto i rifiuti in oggetto, anch'esso è manifestamente infondato alla luce dei dati fattuali esposti dal provvedimento impugnato.
Va ribadito che, se è vero che l' appaltatore, per la natura del rapporto contrattuale che lo vincola al compimento di un'opera o alla prestazione di un servizio, con organizzazione dei mezzi necessari e gestione a proprio rischio dell'intera attività, riveste generalmente la qualità di produttore del rifiuto e su di lui gravano dunque gli obblighi di corretto smaltimento, è altrettanto vero che detti doveri si estendono anche al committente nei casi di ingerenza o controllo diretto del committente sull'attività svolta (Sez. 3, n.11029 del 05/02/2015, dep. 16/03/2015, D'Andrea e altro, Rv. 263754).
Ora, nella specie, preso atto della natura non propria del reato di cui all'art. 256, comma 1, non può non sottolinearsi, che, ben al di là anche solo di un mero controllo dell'attività svolta dall'appaltante, il committente ebbe a concorrere direttamente nell'assunzione delle decisioni circa le modalità di gestione dei rifiuti giacché fu la Giolo S.r.l. (consapevole di ciò l'imputato : v. pag.11 della sentenza) a comunicare all'Arpav l'intenzione di indirizzare il cumulo di rifiuti all'impianto della Zai inerti, cumulo che, poi fu effettivamente trasportato, tanto da far sì che nei 56 formulari indicanti il codice CER 170504 quale produttore dei rifiuti fu indicato appunto Giolo (vedi pag. 3 della sentenza impugnata).
3.2. Il ricorso di Giolo Luca va dunque dichiarato inammissibile, ciò precludendo, inoltre, il rilievo della prescrizione del reato maturata successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata (Sez. U., n. 32 del 22/11/2000, dep. 21/12/2000, D. L., Rv. 217266).
4. Quanto al ricorso di Maffei Antonio, è manifestamente infondato il primo motivo per le ragioni già ricordate sopra sub § 3. e che vanno qui reiterate sottolineandosi come l'assunto difensivo secondo cui il giudice avrebbe erroneamente ritenuto sussistere un obbligo per i rifiuti in ingresso di superare il test di cui all'allegato 3 del d.m. 05/02/1988 non coglie il punto dirimente in realtà rappresentato dalla necessaria individuazione, nei rifiuti recapitati, quale necessario presupposto per la loro accettazione nell'impianto della Zai Inerti, della caratteristica di inerti e della assenza di concentrazioni tali da imporre invece il loro recapito in una discarica per rifiuti pericolosi.
4.1. E' parimenti manifestamente infondato il secondo motivo. Il giudice della sentenza impugnata, nell'escludere che i rifiuti in oggetto avessero la caratteristica di "inerti", ha evidentemente fatto riferimento, per la individuazione del concetto di "inerte", alla definizione che di tale tipologia di rifiuti è data dall'art. 2, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 36 del 2003 non già per assimilare gli impianti di recupero dei rifiuti alle discariche bensì unicamente per confermare, dal punto di vista logico, la non compatibilità dei rifiuti prodotti nella specie con i requisiti per la loro accettazione da parte della Zai inerti come desunti da una lettura del provvedimento autorizzativo che tenesse, come già detto, necessariamente conto della delibera di carattere generale del 2006.
Secondo il ricorrente, poi, la stessa definizione di inerte tratta dalla suddetta norma, ove compare il requisito negativo di non essere lo stesso soggetto ad alcuna trasformazione fisica, chimica o biologica, ne comproverebbe palesemente la sua inutilizzabilità allorquando si versi in fattispecie di destinazione ad impianto di recupero (ove invece, ciò che accade è, appunto, un processo di trasformazione); sennonché la non trasformabilità, quale qualità e caratteristica identificativa inerente il tipo di rifiuto (di cui infatti si specifica sempre nell'art. 2 cit., che non si dissolve, non brucia né è soggetto ad altre reazioni fisiche o chimiche), non va certo intesa anche come divieto di trattamento, giacché, a così ragionare, gli inerti non sarebbero mai suscettibili di invio neppure ad impianto di recupero e non avrebbero avuto senso nemmeno, ancor prima, il provvedimento autorizzativo in questione e la stessa attività della Zai Inerti srl.
4.2. Con riguardo poi al terzo motivo, volto ad escludere qualunque contributo causale di sorta del ricorrente nella gestione dei rifiuti in oggetto, la sentenza impugnata ha indicato come fu la Nea Nordestambiente S.r.l., di cui Maffei era amministratore, ad inviare, per conto di Giolo, ad Arpav e Comune di Venezia la comunicazione circa l'esito delle analisi svolte e la decisione di indirizzare il rifiuto all'impianto della Zai Inerti tanto che sempre la stessa sentenza ha ricordato la deposizione del teste Federico Giolo nel senso che era stato "Maffei a occuparsi delle relative operazioni" (pag.12). Ogni affermazione di estraneità appare dunque confliggere con le risultanze poste in rilievo dalla sentenza impugnata e non censurabili in fatto, tali da sorreggere la logica conclusione in ordine ad una condotta sicuramente rilevante ex art. 110 cod. pen.
4.3. E' invece fondato l'ultimo motivo attinente alla statuizione di condanna al risarcimento in favore della Provincia di Venezia del danno non patrimoniale. Questa Corte ha ormai ripetutamente affermato che la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali spetta, a seguito della abrogazione dell'art. 18, comma 3, della I. n. 349 del 1986 derivante dall'entrata in vigore dell'art. 318, comma 2, lett. a), del D.Lgs. n. 152 del 2006, in via esclusiva allo Stato per il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, inteso come lesione dell'interesse pubblico alla integrità e salubrità dell'ambiente, mentre tutti gli altri soggetti, singoli o associati, comprese le Regioni e gli altri enti pubblici territoriali, possono esercitare l'azione civile in sede penale ai sensi dell'art. 2043 cod. civ. solo per ottenere il risarcimento di un danno patrimoniale e non patrimoniale, ulteriore e concreto, conseguente alla lesione di altri loro diritti particolari diversi dall'interesse pubblico alla tutela dell'ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale, pur se derivante dalla stessa condotta lesiva (tra le tante, da ultimo, Sez. 3, n. 24677 del 09/07/2014, dep. 11/06/2015, Busolin e altri, Rv. 264114; Sez. 4, n. 24619 del 27705/2014, dep. 11/06/2014, Salute, Rv. 259153).
Ne consegue come, sul versante della pronuncia di condanna al risarcimento del danno conseguente a reato ambientale in favore di ente territoriale, sia onere del giudice quello di individuare specificamente l'oggetto della lesione concretamente arrecata e tale, per le sue caratteristiche, da far fuoriuscire il danno patito dall'area della salvaguardia del mero profilo ambientale, la cui tutela, come detto, spetta al solo Stato.
Ciò posto, nella specie la sentenza impugnata, da un lato facendo riferimento alla previsione dell'art. 19, lett. a), del d. Igs. n. 267 del 2000, e in particolare alle funzioni attribuite alla Provincia nel settore in particolare della difesa del suolo, della tutela e valorizzazione dell'ambiente e della prevenzione delle calamità, ha finito per identificare il danno semplicemente in una condotta per definizione perturbatrice di dette funzioni, ancora una volta però, in tal modo, venendo a sostituire all'unico ente legittimato a vantare, secondo i principi sopra richiamati, la lesione alla integrità dell'ambiente, ovvero lo Stato, un ente territoriale, e, dall'altro, laddove ha fatto leva sulla violazione delle prescrizioni imposte in particolare nei provvedimenti autorizzativi della provincia di Verona, non ha chiarito, anche a prescindere sempre dalla necessità di individuazione della lesione di un diritto particolare diverso dall'interesse pubblico alla tutela dell'ambiente, perché una tale violazione dovrebbe ripercuotersi in capo alla Provincia di Venezia.
Ne consegue l'annullamento della sentenza impugnata relativamente a tale specifica statuizione con riguardo al solo Maffei posto che, come già chiarito da questa Corte, l'effetto estensivo dell'impugnazione concerne i soli casi in cui l'impugnazione investa, sia pure con eventuali ricadute civilistiche, il profilo della responsabilità penale e non anche quelli in cui la stessa attiene ad aspetti relativi ad interessi assunti come disponibili dall'ordinamento, sicché esso non opera in favore dell'imputato, coobbligato in solido, che non impugna il capo della sentenza che riguarda la sua condanna risarcitoria quando altro imputato coobbligato abbia invece scelto di censurare tale parte della decisione (Sez. 5, n. 32352 del 07/03/2014, dep. 22/07/2014, Tanzi e altri, Rv. 261939).
Va solo aggiunto che la fondatezza del ricorso attinente al capo delle statuizioni civili non è idonea a rendere lo stesso ricorso ammissibile quanto ai restanti motivi e quindi, in tal modo, a consentire a questa Corte il rilievo della maturazione, intervenuta successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata,del termine di prescrizione.
Infatti, premesso che le Sezioni Unite di questa Corte hanno nel tempo riconosciuto l'autonomia dei capi della sentenza che non hanno una connessione essenziale con le «parti della sentenza» annullate, definendo «capi autonomi» di una sentenza «le decisioni che concludono l'esercizio dell'azione penale in relazione ad un reato» e aggiungendo che non è «certo contestabile l'autonomia delle azioni penali confluenti nel processo cumulativo, sia in relazione al loro esercizio che alla loro consunzione» (tra le altre, Sez. U. n. 10251 del 17/10/2006, dep. 09/03/2007, Michaeler, Rv. 235699 e Sez. U., n. U, n. 1 del 19/01/2000, dep. 28/06/2000, Tuzzolino, Rv. 216239), va qui ribadito che costituisce capo della sentenza, passibile di passare in giudicato in conseguenza di omessa impugnazione, la statuizione con la quale il giudice, in caso di esercizio della azione civile nel processo penale, decide circa le restituzioni ed il risarcimento del danno derivante dal reato (Sez. 4, n. 12489 del 29/09/2000, dep. 01/12/2000, Scaglione ed altro, Rv. 219234).
Sicché, inammissibile il ricorso quanto alla affermata responsabilità penale, resta preclusa, in forza dell'annullamento riguardante il solo e diverso capo del risarcimento del danno, la possibilità di rilevare appunto la prescrizione maturata dopo la sentenza impugnata (Sez. Un., n. 6903 del 27/05/2016, dep. 14/02/2017, Aiello, Rv. 268966).
In definitiva, la sentenza impugnata va annullata con rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. algiudice civile competente per valore in grado d'appello limitatamente alle statuizioni civili riguardanti Maffei Antonio, dovendo invece i ricorsi essere (quello di Maffei nella parte residuale) dichiarati inammissibili con conseguente condanna di Giolo Luca al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000 in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata in relazione a Maffei Antonio limitatamente alle statuizioni civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d'appello; dichiara inammissibile nel resto il ricorso di Maffei Antonio. Dichiara inammissibile il ricorso di Giolo Luca che condanna al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 7 aprile 2017