Cass. Sez. III n. 26805 del 21 giugno 2023 (UP 16 mar 2023)
Pres. Ramacci Rel. Reynaud Ric. Consorzio Trasporti
Rifiuti.Terre e rocce da scavo e nozione di sito
 
La nozione di “sito” come “area o porzione di territorio, geograficamente definita” e “determinata”, oppure “perimetrata”, è tipica del diritto penale dell’ambiente (v., nel primo senso, con riguardo cioè all’ulteriore specificazione della “determinazione”, l’art. 240, lett. a, d.lgs. 152/2006; nel secondo senso, con particolare riguardo alla “perimetrazione”, l’art. 2, lett. i, d.P.R. 120 del 2017). Essa, dunque, non si presta a ricomprendere distinte ed autonome porzioni di territorio che, benché ricadenti nel medesimo comune e non distanti tra loro, non siano contigue e abbiano addirittura diversa destinazione: ci si trova in tal caso di fronte a due distinte aree e non ad una sola area definita e determinata, in modo tale da poter essere circoscritta in un unico perimetro. Né può indurre in contrario avviso il fatto che i lavori nei due diversi siti siano in qualche modo sin dall’origine “collegati”: la certezza del riutilizzo del materiale è bensì requisito essenziale della disciplina derogatoria in parola – come, peraltro, di quella prevista dal d.P.R. 120/2017 – ma essa non è sufficiente, richiedendosi anche, appunto, che il materiale non fuoriesca dal medesimo sito inteso come unica area suscettibile di perimetrazione.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 16 dicembre 2021, la Corte di appello di Bologna, giudicando sul gravame proposto dal Consorzio Trasporti Riviera Soc. Coop. Spa, esclusa la ritenuta continuazione tra gli illeciti contestati ai capi A) e B), ne ha confermato la responsabilità per l’illecito amministrativo previsto dall’art. 25 undecies, comma 2, lett. b), d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, dipendente dal reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, contestato al presidente del consiglio di amministrazione del consorzio e già in primo grado dichiarato estinto per intervenuta prescrizione. La sentenza impugnata ha confermato la condanna dell’ente al pagamento di 60 quote nell’ammontare di 103 euro ciascuna, stabilito tenendo conto della riduzione di cui all’art. 12, comma 1, lett. a), d.lgs. 231/2001.

2. Avverso detta sentenza, a mezzo del difensore fiduciario, la società ha proposto ricorso per cassazione deducendo, con il primo motivo, l’inosservanza dell’art. 185, comma 1, lett. c) d.lgs. 152/2006 ed il vizio di motivazione nella parte in cui ha escluso che l’utilizzo di terre e rocce da scavo contestato come illecito fosse avvenuto nell’ambito dello stesso sito e ha conseguentemente ritenuto il fatto penalmente rilevante. Ci si duole, in particolare, della ritenuta sussistenza del reato presupposto per essere stata data alla nozione di “sito” prevista da tale disposizione – che esclude la natura di rifiuto con riguardo alle terre e rocce da scavo da riutilizzarsi, appunto, nello stesso sito – un significato ricostruito in base a disposizioni normative abrogate e comunque errato. Diversamente da quanto sostenuto dalla Corte territoriale, non potrebbe ritenersi che, ai fini di cui si discute, il “sito” individui uno spazio perimetrato, delineato e di dimensioni tali da implicare le sole attività di movimentazione e non anche quelle di trasporto.

3. Con il secondo motivo di ricorso si lamentano il vizio di motivazione e l’erronea applicazione dell’art. 5 d.lgs. 231/2001 per essere stato ritenuto il presupposto dell’illecito amministrativo dipendente da reato, perché commesso nell’interesse dell’ente o a suo vantaggio, individuati nel risparmio di spesa e nell’accelerazione dell’attività d’impresa.
In particolare, da un lato si lamenta la contraddittorietà dell’affermazione rispetto all’esclusione del medesimo presupposto, avvenuta già nel giudizio di primo grado, con riguardo alle materie prime secondarie provenienti dalla Rovereta Srl.
D’altro lato, ci si duole dell’omessa disamina della consulenza tecnica della difesa nella parte in cui questa aveva evidenziato l’insussistenza di un apprezzabile vantaggio in capo all’ente rispetto al riutilizzo del materiale in questione quand’anche si fosse seguito il procedimento di gestione del rifiuto ritenuto corretto dalla sentenza impugnata. Si allega che il consulente aveva evidenziato come il materiale si sarebbe potuto avviare a riutilizzo con una semplice autocertificazione, previe analisi con un costo assai modesto, e come, in alternativa, il consorzio avrebbe potuto prelevare la materia prima secondaria necessaria senza sostenere alcun costo – diverso da quello, irrisorio, del trasporto – presso la società controllata Eco Frantumazioni.

4. Con il terzo motivo di ricorso si lamentano violazione di legge e vizio di motivazione sul rilievo che, pur essendo stata esclusa la continuazione ritenuta in primo grado, la Corte territoriale avesse mantenuto la sanzione di 60 quote inflitta dal primo giudice, senza procedere alla sua riduzione.

CONSIDERATO IN DIRITTO
    
1. Il primo motivo di ricorso non è fondato.
Va premesso che la società ricorrente non invoca la disciplina speciale che sottrae le terre e rocce da scavo alla nozione di rifiuto, essendo evidentemente consapevole che nella specie non ne ricorrono gli stringenti presupposti previsti nel d.P.R. 13 giugno 2017, n. 120, con cui si è approvato il Regolamento recante la disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce da scavo, che oggi governa la materia (cfr. Sez. 3, n. 4781 del 26/01/2021, Lunari, Rv. 281003; Sez.  3, n. 8026 del 27/09/2017, dep. 2018, Masciotta e a., Rv. 272355).
Diversamente da quanto allegato in ricorso, ove si allude all’art. 31, comma 1, d.P.R. n. 120 del 2017, abrogativo del d.m. 10 agosto 2012, n. 161 – che sarebbe stato erroneamente richiamato dal giudice di primo grado – osserva il Collegio che la sentenza impugnata non ha fatto applicazione di tale abrogata normativa, mai evocata, ma ha correttamente interpretato la nozione di “sito” prevista dall’art. 185, comma 1, lett. c), d.lgs. 152 del 2006, dandone una lettura certamente conforme al sistema.
1.1. Com’è noto, per quanto qui rileva, la citata disposizione esclude dall’ambito di applicazione della disciplina sulla gestione dei rifiuti prevista dalla Parte quarta del d.lgs. 152 del 2006 «il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato escavato». Indefettibile presupposto dell’applicabilità di tale previsione, dunque, è quello relativo al fatto che le terre e rocce da scavo debbano riutilizzarsi a fini  costruttivi – e poi effettivamente lo siano – nel medesimo sito nel quale sono state estratte.
1.2. La sentenza impugnata dà atto che tale presupposto non poteva nella specie dirsi verificato poiché – e la circostanza non forma oggetto di contestazione – le terre e rocce da scavo estratte nel cantiere ove la società stava svolgendo opere assunte in appalto dal Comune di San Clemente (si trattava di “opere per arredi, pavimentazione e verde di accesso alla Casina dell’acqua e al teatro di Sant’Andrea in Casale”) furono trasportate con l’utilizzo di automezzi, e quindi utilizzate, in un diverso sito comunale, ubicato a circa 500 m. di distanza, ove la società si era impegnata a realizzare a proprie spese lavori di livellamento di terreno con riporto di materiale vegetale in un’area destinata a boschi ed orti urbani. Si osserva, in particolare, che «nel caso in esame deve escludersi che lo spostamento della terra e della roccia da scavo sia consistita in una mera movimentazione di terreno all’interno della “medesima area”: si è trattato, al contrario, di un vero e proprio trasporto di materiale da una zona ad un’altra (se pure poste a distanza di solo 500 mt) nelle quali erano in corso opere diverse».
1.3. La conclusione non è censurabile in diritto e non è manifestamente illogica, né in ricorso vengono argomentate specifiche ragioni che dovrebbero indurre ad una diversa interpretazione o conclusione. Ad avviso del Collegio, in particolare, essa è conforme alla lettera della legge ed alla sua ratio quali delineabili alla luce dell’interpretazione sistematica.
Quanto al primo profilo,  deve osservarsi che la nozione di “sito” come “area o porzione di territorio, geograficamente definita” e “determinata”, oppure “perimetrata”, è tipica del diritto penale dell’ambiente (v., nel primo senso, con riguardo cioè all’ulteriore specificazione della “determinazione”, l’art. 240, lett. a, d.lgs. 152/2006; nel secondo senso, con particolare riguardo alla “perimetrazione”, l’art. 2, lett. i, d.P.R. 120 del 2017). Essa, dunque, non si presta a ricomprendere distinte ed autonome porzioni di territorio che, benché ricadenti nel medesimo comune e non distanti tra loro, non siano contigue e abbiano addirittura diversa destinazione: ci si trova in tal caso di fronte a due distinte aree e non ad una sola area definita e determinata, in modo tale da poter essere circoscritta in un unico perimetro. Né può indurre in contrario avviso il fatto che i lavori nei due diversi siti siano in qualche modo sin dall’origine “collegati”, come sarebbe avvenuto nel caso di specie secondo la prospettazione di parte ricorrente: la certezza del riutilizzo del materiale è bensì requisito essenziale della disciplina derogatoria in parola – come, peraltro, di quella prevista dal d.P.R. 120/2017 – ma essa non è sufficiente, richiedendosi


anche, appunto, che il materiale non fuoriesca dal medesimo sito inteso come unica area suscettibile di perimetrazione.
Proprio con riguardo a questo secondo profilo si rinviene la ratio che sorregge la disposizione in esame, dovendosi ritenere che l’esclusione  dell’applicabilità della generale regolamentazione sulla gestione dei rifiuti da essa prevista – da ritenersi, peraltro, di stretta interpretazione – trovi giustificazione nel fatto che ciò che oggettivamente costituirebbe un rifiuto speciale non è tale, e non deve essere assoggettato alla relativa disciplina, quando sia destinato alla temporanea conservazione nello stesso luogo di produzione per essere ivi riutilizzato come sottoprodotto senza necessità di trattamento o di attività di gestione. Posto che una tipica attività di gestione del rifiuto che necessita di autorizzazione  e di controllo è quella del trasporto, già il solo fatto che il materiale debba essere spostato da un luogo all’altro con utilizzo di automezzi come nella specie avvenuto (sia pure per breve distanza) rivela come ci si trovi fuori dall’eccezionale ipotesi derogatoria prevista dall’art. 185, comma 1, lett. c),  d.lgs. 152/2006. Più in particolare, alla luce delle definizioni contenute nell’art. 183 d.lgs. 152/2006, l’attività nella specie svolta dalla società ricorrente è riconducibile a plurime condotte integranti tipiche forme di gestione del rifiuto previste dalla legge e quindi sottoposte a controllo (la raccolta, il trasporto, il recupero), che eccezionalmente vengono escluse dall’applicazione del relativo regime normativo solo quando i materiali costituenti oggettivamente “rifiuto” siano destinati al riutilizzo nel medesimo sito nel quale sono stati prodotti ovvero quando siano altrove utilizzati in conformità alla disciplina di cui al citato d.P.R. 120/2017. Ed invero, laddove, come nella specie, il riutilizzo si faccia in un sito diverso da quello di produzione – sulle definizioni  di «sito di produzione» delle terre e rocce da scavo e «sito di destinazione» per il loro successivo riutilizzo v., rispettivamente, art. 2, lett. l) e m) d.P.R. 120/2017 – la possibilità di trattare le rocce e terre da scavo come sottoprodotto e non come rifiuto soggiace al rispetto della richiamata  disciplina regolamentare delegata, che in tal caso prevede, tra l’altro, la redazione ed il rispetto del piano di utilizzo di cui all’art. 9 d.p.r. 120/2017 o, nel caso di cantieri di piccole dimensioni, della dichiarazione di cui al successivo art. 21. La lata interpretazione dell’art. 185, comma 1, lett. c), d.lgs. 152/2006 propugnata da parte ricorrente porterebbe, a ben vedere, ad una correlativa interpretatio abrogans di tale ultima disciplina.

2. Anche il secondo motivo è infondato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, di recente riaffermata (nella specie, in tema di responsabilità degli enti derivante da reati di lesioni personali colpose in violazione della disciplina antinfortunistica), il criterio di imputazione oggettiva del vantaggio di cui all'art. 5 d.lgs. n. 231 del 2001 è integrato anche da un esiguo, ma oggettivamente apprezzabile, risparmio di spesa, collegato a condotte illecite anche non sistematiche (Sez. 4, n. 33976 del 30/06/2022, Cantina Sociale Bartolomeo da Breganze, Rv. 283556), come pure può consistere soltanto nella riduzione dei tempi di lavorazione (Sez. 4, n. n. 16598 del 24/01/2019, Tecchio, Rv. 275570).
In sostanza, il vantaggio che costituisce presupposto della responsabilità amministrativa degli enti dipendente da reato dev’essere apprezzabile, ma può anche essere minimo, come si ricava – a contrario – dal fatto che, ove ciò accada, la sanzione applicabile dev’essere diminuita ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. a), d.lgs. 231/2001, come in effetti avvenuto nel caso di specie. Del resto, la responsabilità dell’ente non presuppone che la condotta illecita consista nella sistematica commissione di reati, ben potendo sussistere anche in caso di occasionale violazione della legge penale (cfr., in motivazione, la citata sent. 33976/2022).
Nel caso di specie, con valutazione di merito adeguata, non illogicamente argomentata e qui non ulteriormente scrutinabile, la sentenza impugnata ha ritenuto sussistente il vantaggio e l’interesse dell’ente connessi alla condotta illecita ritenuta (pagg. 6-7), sia con riguardo all’indubbio contenimento dei tempi che la soluzione prescelta ha assicurato rispetto a ciò che si sarebbe altrimenti dovuto fare, sia con riguardo ai maggiori costi che si sarebbero dovuti sopportare, e ciò tanto con riguardo alla gestione come rifiuto del quantitativamente non modesto materiale prodotto nel primo cantiere – 66,88 mc., indica il capo d’imputazione – quanto in relazione all’acquisizione di altrettanto materiale da utilizzare per i lavori di livellamento nel secondo e distinto cantiere. Le diverse valutazioni circa la modesta rilevanza di entrambi i parametri considerati, contenute nella relazione del consulente tecnico di parte che la Corte territoriale non ha condiviso, attengono a profili di merito insindacabili in questa sede in assenza di censure che facciano ritenere manifestamente illogiche le argomentazioni spese a sostegno della decisione assunta. È semmai illogico, per contro, affermare che entrambe le operazioni sarebbero state sostanzialmente prive di costi potendo la ricorrente avvalersi gratuitamente della società controllata Eco-Frantumazioni Srl, posto che, a tacer d’altro, la sentenza attesta come detta società fosse partecipata soltanto al 48,33% da Consorzio Trasporti Riviera Soc. coop. Spa.

3. Il terzo motivo è inammissibile per difetto d’interesse e manifesta infondatezza.
La sentenza attesta che già la pronuncia di primo grado, in motivazione, aveva dato atto dell’errore materiale commesso nel dispositivo laddove era stato affermato il riconoscimento del vincolo della continuazione, essendo peraltro evidente che lo stesso non poteva certo ritenersi con riguardo al reato presupposto (capo A) e all’illecito amministrativo da esso dipendente (capo B).
Nel rettificare anche formalmente quell’errore, la sentenza impugnata non doveva dunque trarne conseguenze di sorta in termini di riduzione della sanzione applicata, non essendo stato determinato alcun aumento, a titolo di continuazione, ai sensi dell’art. 21 d.lgs. 231/2001, come si ricava dalla sentenza impugnata (pagg. 3-4), senza che la ricorrente abbia al proposito mosso alcuna specifica contestazione.

4. Il ricorso, nel complesso infondato, va pertanto rigettato con condanna della società ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 16 marzo 2023.