Cass. Sez. III n. 687 del 9 gennaio 2024 (UP 14 dic 2023)
Pres. Ramacci Rel. Scarcella Ric. Abate
Alimenti.Immissione sul mercato di prodotti alimentari sfusi non regolamentari
Risponde del reato di cui all'art. 5 L. 30 aprile 1962, n. 283, il commerciante di prodotti alimentari sfusi non regolamentari, anche se estraneo al processo produttivo, che li immette sul mercato senza effettuare preventivamente controlli a campione, idonei ad evitarne la loro commercializzazione. La mera esistenza di un piano di autocontrollo HACCP non è sufficiente a escludere la colpa dell’operatore del settore alimentare. Ne consegue che l’omesso svolgimento di qualsivoglia accertamento analitico sul prodotto alimentare sfuso non regolamentare, previsto come facoltativo dal piano di autocontrollo, integra il reato di cui all'art. 5, L. 30 aprile 1962, n. 283, non valendo ad esonerare l’O.S.A. dalla sua responsabilità l’assolvimento dell’obbligo di tracciabilità, atteso che, scopo principale della predisposizione di un piano di autocontrollo è quello di prevenire il rischio di immettere sul mercato prodotti non sicuri igienicamente re-cando un conseguente e potenziale danno ai consumatori, cui consegue l’obbligo di garantire che la filiera alimentare si concluda con l’immissione in commercio di prodotti alimentari perfettamente igienici ed a norma.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 26 maggio 2023, il Tribunale di Catania dichiarava Abate Marcello e La Spina Biagio colpevoli del reato di cui all’art. 5, lett. h), l. n. 283 del 1962, per avere, in concorso tra loro, nelle qualità meglio evidenziate in imputazione, detenuto per la vendita, presso il punto vendita “Famila” di Catania, lattughe trocadero contenenti la sostanza “formetanate cloridrato” in quantità superiore ai limiti di legge, fatto accertato in data 13.08.2018.
2. Avverso la sentenza impugnata nel presente procedimento, i predetti hanno proposto congiunto ricorso per cassazione, a mezzo del difensore, deducendo due motivi, di seguito sommariamente indicati.
2.1. Deducono, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 110, cod. pen., 5, lett. h), l. n. 283 del 1962, in combinato disposto con I reg. CEE 178/02, 852/04, 882/04, 396/05, 1107/09, 625/17, art. 113-bis, par. 4 reg. 1234/07 e art. 9, par. 1, reg. comunitario 1148/01.
In sintesi, richiamata la normativa europea applicabile nel caso in esame, la difesa dei ricorrenti si duole per aver il giudice applicato una norma penale in bianco, qual è appunto l’art. 5 l. n. 283 del 1962, senza tuttavia tener conto della disciplina normativa sovranazionale che governa il settore della sicurezza ed igiene alimentare. Le norme richiamate in ricorso, di cui si assume la violazione, chiarirebbero inequivocabilmente, secondo la difesa, come tutta la responsabilità dei controlli sui residui di fitosanitari sui prodotti alimentari è deputata dagli Stati membri, con l’apposita istituzione dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare, istituita dal Reg. CEE 178/2002, ed agli organi competenti, in ultima analisi ai produttori agricoli come privati. Ove il giudice avesse compiuto un’operazione di interpretazione sistematica della norma penale con la disciplina sovranazionale extra-penale richiamata, sarebbe pervenuto a diversa soluzione, essendo invece il Tribunale limitato a citare una giurisprudenza superata dalla predetta normativa extra-penale, tanto da non indicare nemmeno i riferimenti giurisprudenziali. Laddove fosse stata condotta una ricerca giurisprudenziale più adeguata ed aggiornata rispetto alle novità introdotte dalla richiamata normativa europea, il giudice avrebbe dovuto concludere per l’esclusione della responsabilità penale dei due imputati, deducendo erroneamente invece l’esistenza a carico degli stessi di obblighi che non erano di loro pertinenza. Ed invero, sostiene la difesa, l’operatore del settore alimentare ha l’obbligo di garantire la tracciabilità dei prodotti, di accertarne la conformità alla legislazione alimentare, di rispettare i requisiti di igiene ed HACCP, di ritirare e/o richiamare i prodotti in caso di rischio e di cooperare con l’autorità di controllo. Obblighi, questi, che sarebbero stati tutti rispettati, tant’è che la selezione dei fornitori, secondo il metodo HACPP, permette di selezionare a monte la fornitura di prodotti idonei alla vendita, attraverso la richiesta delle autocertificazioni previste, delle relative schede tecniche e degli esiti analitici delle aziende produttrici, garantendo in tal modo la salubrità dei vegetali messi in vendita, grazie al concetto di “rintracciabilità di filiera”.
2.2. Deducono, con il secondo motivo, il vizio di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sotto il profilo del travisamento probatorio.
In sintesi, la difesa si duole per aver il giudice attribuito un significato diverso alle dichiarazioni rese da due testi assunti in dibattimento (teste Maragliano, tecnico accertatore del servizio di igiene, alimenti e nutrizione dell’ASL di Catania; teste Mangiameli, dottore in scienze alimentari e dottore di ricerca in biotecnologia degli alimenti) i quali avrebbero fornito indicazioni chiare che conducevano ad una soluzione opposta a quella cui è giunto il giudice, ossia l’assenza di qualsiasi obbligo di controllo, al di là dell’autocontrollo previsto e rispettato dall’azienda Roberto Abate S.p.A., e per essa al suo consigliere, Marcello Abate, nonché al direttore responsabile del punto vendita “Famila” sito in Catania.
In sostanza, i due testi avrebbero chiaramente precisato che non vi è alcun obbligo giuridico circa il controllo, nella specie, della presenza di sostanza pesticida qual è il “formetanate cloridrato” in prodotti vegetali sfusi in capo al punto vendita. Richiamava, anzitutto, quanto dichiarato dalla teste Manganaro che aveva riferito di come l’azienda si fosse prodigata ad individuare immediatamente il distributore e fornitore dell’alimento vegetale sfuso dal quale aveva acquistato il lotto in questione da altri fornitori, nel rispetto di quelle che sono le normative settoriali e le garanzie di autenticità e conformità del prodotto. Peraltro, proprio su specifica domanda del PM, la teste avrebbe precisato che l’esercizio di analisi a campione, ove previsto dal piano di autocontrollo, è facoltativo, sottolineando che si tratta di una procedura di controllo a campione non obbligatoria. L’unico obbligo esistente in capo alla società, quello di rintracciabilità di filiera, sarebbe stato invece rispettato attraverso la puntuale individuazione del fornitore dell’alimento, aggiungendo, peraltro, che quand’anche il controllo a campione fosse stato esercitato, tale controllo dispendioso per le spese ad esso connesse, non avrebbe escluso la possibilità della presenza di una sola e limitata parte del lotto contaminata oltre i limiti rispetto a quella nella norma. Convergenti risulterebbero sul punto, peraltro, le dichiarazioni dell’altro teste, Mangiameli, che avrebbe ribadito la natura facoltativa dei controlli di natura chimica, e l’assolvimento da parte della società degli obblighi della normativa in tema di autocontrollo HACPP. Ne discenderebbe, pertanto, un evidente travisamento delle deposizioni quanto agli obblighi imposti al venditore che chiude la filiera.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, con requisitoria scritta in data 22 novembre 2023, ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
In particolare, secondo il PG, premesso il disposto dell’art. 5, l. 283/1962, il commerciante risponde a titolo di colpa nel caso di non rispondenza del prodotto posto in vendita alle norme igieniche essendo tenuto ad usare ogni cautela al fine di garantire che il prodotto distribuito sia conforme alle norme stesse (in tal senso v. Cass. Sez. 3, n. 7193 del 1998 Rv 211199). Ciò perché fra le varie condotte previste dal citato art. 5 c'è anche quella del detenere per vendere o distribuire per il consumo le sostanze alimentari oggetto della protezione della norma. Se, ovviamente, compete al giudice di merito stabilire se, avuto riguardo alla naturale conservazione del prodotto ed alla sua normale commercializzazione, sia possibile al venditore un accertamento idoneo a garantire l'inesistenza in esso di sostanze nocive alla salute del consumatore (in tal senso, fra altre Cass. Sez. 6, n. 11759 del 1990, Cervellati), il Tribunale ha osservato che non solo non è stato effettuato alcun controllo a campione da parte degli imputati sul prodotto in vendita, come confermato dai testi a difesa, ma tale prova non è stata neanche richiesta al produttore, essendosi limitati gli imputati a fornire la prova della tracciabilità del prodotto, prova questa da sola non idonea ad escludere la responsabilità. Non risultano invero allegazioni degli imputati tali da far ritenere che la messa in vendita del prodotto sia stata preceduta dai necessari controlli, i quali peraltro, data la materia, non possono non essere particolarmente rigorosi e penetranti.
4. In data 5.12.2023 l’Avv. Francesco Ruggeri, nell’interesse dei ricorrenti, ha fatto pervenire memoria di replica alla requisitoria scritta del PG, con cui ha sostenuto l’infondatezza delle conclusioni dell’Accusa sia in relazione al primo motivo (che implicherebbe il riconoscere in capo al soggetto imputato una responsabilità oggettiva che la normativa comunitaria vigente non gli addebita in alcun modo), sia in relazione al secondo profilo di doglianza (ribadendo che la censura difensiva aveva ad oggetto il travisamento del contenuto delle dichiarazioni circa il tenore legislativo esplicato in udienza dagli accertatori del settore proprio in materia di potestà ed obblighi sui controlli di prodotti fitosanitari).
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi, trattati cartolarmente ai sensi dell’art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020 e successive modifiche ed integrazioni, sono inammissibili.
2. I due motivi, attesa l’omogeneità e l’intima connessione dei profili di doglianza svolti, possono essere trattati congiuntamente.
2.1. Quanto al merito della vicenda, non vi è contestazione da parte dei ricorrenti, i quali contestano invece di essere destinatari degli obblighi di legge incombenti sull’azienda che ha immesso in commercio il prodotto e lo ha distribuito, atteso che, nella prospettazione difensiva, l’esecuzione di controlli, seppure a campione, sui prodotti alimentari sfusi venduti nel punto vendita di Catania sarebbe stato oggetto di una mera facoltà – ove peraltro contemplata nella procedura di autocontrollo interna HACPP – e non di un obbligo giuridico, incombente invece al produttore dell’alimento vegetale, nella specie alla ditta salernitana che era il fornitore della lattuga “incriminata”. L’unico obbligo, nella specie assolto, era stato infatti quello di assicurare la c.d. rintracciabilità di filiera, come confermato dalle dichiarazioni dei due testi che, a dire della difesa, sarebbero state oggetto di travisamento probatorio, e che il giudice avrebbe quindi erroneamente posto a base dell’affermazione di responsabilità, peraltro facendo applicazione di una giurisprudenza desueta in quanto superata dalla normativa sovranazionale integratrice del precetto penale in bianco di cui all’art. 5, l. n. 283 del 1962.
2.2. La tesi difensiva, pur suggestiva, non ha pregio.
Deve anzitutto evidenziarsi l’esatta individuazione da parte dell’accusa degli attuali ricorrenti quali destinatari della normativa in materia, non avendo peraltro nessuno dei due ricorrenti contestato l’individuazione uti singuli quali soggetti responsabili. Ed infatti, va innanzitutto ribadito che, secondo l'orientamento di questa Corte, in tema di disciplina degli alimenti, la responsabilità per i reati commessi nell'esercizio di un'attività d'impresa svolta da una società articolata in plurime unità territoriali autonome, ciascuna affidata ad un soggetto qualificato ed investito di mansioni direttive, va individuata all'interno della singola struttura aziendale, senza che sia necessariamente richiesta la prova dell'esistenza di una apposita delega in forma scritta (Sez. 3, n. 9406 del 09/02/2021, Arena, Rv. 281149). Con riguardo, poi, alla vendita di sostanze alimentari all'interno di un ipermercato - e la sentenza dà atto che si trattava del punto vendita “Famila” - si è più volte chiarito che destinatario delle disposizioni relative al controllo e alla vigilanza preliminari alla messa in vendita del prodotto è il responsabile del relativo reparto, su cui grava anche l'obbligo di sorvegliare i sottoposti circa l'osservanza delle disposizioni medesime (Sez. 3, n. 3107 del 02/10/2013, dep. 2014, Caruso, Rv. 259090; Sez. 3, n. 17084 del 09/09/2015, dep. 2016, Simonetti, Rv. 266578; Sez. 3, n. 22112 del 08/04/2008, Melidei, Rv. 240045).
Dunque, anzitutto è da identificarsi come soggetto responsabile, il La Spina, quale direttore responsabile del punto vendita “Famila”. Ciò posto, non può essere ovviamente esclusa una (eventualmente concorrente, come nel caso di specie) responsabilità dei soggetti apicali responsabili dell'unità aziendale con riguardo agli obblighi di garanzia sui medesimi gravanti, riconducibili alla figura dell'operatore sanitario alimentare, come nel caso di specie il ricorrente Abate Marcello, quale consigliere della società Roberto Abate S.p.A.
Al proposito va osservato che, in forza dell'art. 3, comma 1, n. 3 Reg. (CE) n. 178/2002 del 28 gennaio 2002, adottato dal Parlamento europeo e del Consiglio - che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l'Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare - l'operatore sanitario alimentare è la «persona fisica o giuridica responsabile di garantire il rispetto delle disposizioni della legislazione alimentare nell'impresa alimentare posta sotto il suo controllo». A norma del successivo art. 17, comma 1, tra l'altro, «spetta agli operatori del settore alimentare e dei mangimi garantire che nelle imprese da essi controllate gli alimenti o i mangimi soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare inerenti alle loro attività in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione e verificare che tali disposizioni siano soddisfatte».
2.3. Nel nostro ordinamento, il D.lgs. n. 155/1997 (ormai abrogato dall'art. 3, D.lgs. 6 novembre 2007, n. 193, attuativo della direttiva 2004/41/CE relativa ai controlli in materia di sicurezza alimentare e applicazione dei regolamenti comunitari nel medesimo settore) aveva a suo tempo attuato le direttive n. 93/43/CEE e 96/3/CE in materia di igiene degli alimenti e introdotto, allo stesso tempo, nel sistema il così detto autocontrollo HACPP.
L’autocontrollo consiste nell’obbligo imposto al responsabile dell’impresa alimentare di predisporre un piano a tutela della salute pubblica per prevenire tutti i rischi connessi al consumo degli alimenti e all’impresa stessa. Quindi l’autocontrollo da parte dell’imprenditore all’interno della propria azienda è obbligatorio per legge.
In quest’ottica, soprattutto al fine di meglio chiarire quanto, erroneamente, sostenuto dalla difesa, occorre a questo punto chiedersi come il piano di autocontrollo possa incidere sulla responsabilità penale dell’imprenditore che lo adotta. A tal fine, precisa il Collegio, la mera esistenza formale di un piano di autocontrollo di per sé non garantisce all’imprenditore in alcun modo un esonero della responsabilità penale. Questa Corte ha già avuto modo di occuparsi della questione, chiarendo (Sez. 3, n. 25122 del 02/04/2008, Patti, non massimata), che la mera esistenza di un piano HACCP ai sensi del D.lgs. n. 155/97 non è sufficiente a escludere la colpa del responsabile dell’impresa alimentare, affermando che proprio l’avere rinvenuto alimenti in cattivo stato di conservazione ovvero insudiciati o comunque in precarie condizioni igieniche è comprovante una cattiva osservanza del medesimo piano di autocontrollo facendo incorrere l’imprenditore la colpa e quindi la responsabilità penale ex art. 5 lett. D) L. n. 283/62. Infatti, scopo principale della predisposizione di un piano di autocontrollo è quello di prevenire il rischio di immettere sul mercato prodotti non sicuri igienicamente recando un conseguente e potenziale danno ai consumatori. L’imprenditore ha l’obbligo di garantire che la filiera alimentare si concluda con l’immissione in commercio di prodotti alimentari perfettamente igienici. Il piano di autocontrollo esiste se funziona e previene tempestivamente ed in concreto i rischi alimentari, altrimenti resta solo lettera morta.
Ritiene il Collegio di dover dare continuità al predetto principio, applicabile evidentemente anche ai casi, come quello sub iudice, in cui la contestazione mossa all’operatore del settore alimentare è quella di aver detenuto per la vendita alimenti “che contengano residui di prodotti, usati in agricoltura per la protezione delle piante e a difesa delle sostanze alimentari immagazzinate, tossici per l'uomo” (art. 5, lett. l), l. 283 del 1962). Anzi, proprio lo stesso tenore del ricorso, rende evidente che l’esistenza del piano di autocontrollo - la cui osservanza, a detta della difesa, avrebbe esentato da responsabilità penale i due ricorrenti, avendo assolto all’obbligo di rintracciabilità di filiera – non si è dimostrata sufficiente ad escludere il rischio di immissione in commercio di prodotti alimentari non a norma, come avvenuto nella vicenda in esame, in cui presso il supermercato in questione era stato eseguito un campionamento sulla lattuga Trocadero, esposta per la vendita, emergendo dalle analisi la presenza di formetanate cloridrato in misura superiore ai limiti di legge, segnatamente 1.02, oscillazione 0,6.
Nella specie, si osserva, la linea difensiva, imperniata sull’inesistenza di alcun obbligo di controllo in capo alla società ed al responsabile del punto vendita del prodotto alimentare sfuso, salva la “possibilità” di eseguire controlli a campione ove previsti dal piano di autocontrollo, residuando a carico della società e del titolare del punto vendita solo l’obbligo di assicurare la rintracciabilità del prodotto così da consentire l’identificazione del produttore dell’alimento, non tiene conto della circostanza, ben evidenziata dalla citata giurisprudenza di questa Corte, che proprio l’avere rinvenuto alimenti contenenti “residui di prodotti, usati in agricoltura per la protezione delle piante e a difesa delle sostanze alimentari immagazzinate, tossici per l'uomo” è comprovante una cattiva osservanza del medesimo piano di autocontrollo facendo incorrere l’imprenditore la colpa e quindi la responsabilità penale ex art. 5 lett. h) l. n. 283/62.
2.4. Ciò, del resto, consegue all’applicazione del generale principio dell’affidamento che, implicitamente, nell’ottica difensiva troverebbe applicazione nel sistema della sicurezza della catena alimentare, nel senso che essendo obbligo della società che immette in commercio il prodotto sfuso solo quello di assicurare la rintracciabilità di filiera, la responsabilità sostanzialmente retroagirebbe in capo al produttore dell’alimento, non essendovi un obbligo, ma solo una facoltà per l’imprenditore a valle, di eseguire controlli a campione sull’alimento fornitogli.
Pacifico è, infatti, nella giurisprudenza di questa Corte che il principio di affidamento, nel caso di ripartizione degli obblighi tra più soggetti, se da un lato implica che colui il quale si affida non possa essere automaticamente ritenuto responsabile delle autonome condotte del soggetto cui si è affidato, dall'altro lato comporta anche che - qualora l'affidante ponga in essere una condotta causalmente rilevante - la condotta colposa dell'affidato non vale di per sé ad escludere la responsabilità dell'affidante medesimo (Sez. 4, n. 25310 del 07/04/2004, Rv. 228954 – 01).
Dunque, facendo coerente applicazione di tale principio anche nel campo della sicurezza alimentare, poiché, per legge (art. 17, comma 1, Reg. CE n. 178/2002) «spetta agli operatori del settore alimentare e dei mangimi garantire che nelle imprese da essi controllate gli alimenti o i mangimi soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare inerenti alle loro attività in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione e verificare che tali disposizioni siano soddisfatte», è evidente che quella facoltà di eseguire i controlli a campione sugli alimenti sfusi lungi dall’essere interpretata come esercizio di un potere discrezionale ove prevista dal piano di autocontrollo, costituisce, in sé, la regola cautelare da osservarsi al fine di evitare di incorrere in responsabilità penale del tipo di quella ascritta ai due ricorrenti.
L’omesso svolgimento, dunque, di qualsivoglia accertamento analitico, pur facoltativo, dimostra, dunque, come evidenziato dalla citata giurisprudenza, che la mera esistenza del piano HACCP non si è dimostrata sufficiente a escludere la colpa del responsabile dell’impresa alimentare, dovendosi ribadire, infatti, che scopo principale della predisposizione di un piano di autocontrollo è quello di prevenire il rischio di immettere sul mercato prodotti non sicuri igienicamente recando un conseguente e potenziale danno ai consumatori: l’imprenditore ha dunque l’obbligo di garantire che la filiera alimentare si concluda con l’immissione in commercio di prodotti alimentari perfettamente igienici ed a norma. Il piano di autocontrollo esiste se funziona e previene tempestivamente ed in concreto i rischi alimentari, altrimenti – come testimonia quanto avvenuto nel caso di specie - resta solo lettera morta.
2.5. Conserva, pertanto, ancora attualità il principio, già affermato da questa Corte – pur contestato impropriamente dalla difesa dei ricorrenti, ma che deve essere ribadito – secondo cui risponde del reato di cui all'art. 5 L. 30 aprile 1962, n. 283, il commerciante di prodotti alimentari sfusi non regolamentari, anche se estraneo al processo produttivo, che li immette sul mercato senza effettuare preventivamente controlli a campione, idonei ad evitarne la loro commercializzazione (Sez. 3, n. 44016 del 06/10/2009, Rv. 245264 – 01; conformi, Sez. 3, n. 43829 del 16/10/2007, Rv. 238263 – 01; Sez. 3, n. 37835 del 19/09/2001, Rv. 220347 – 01), principio che deve essere ulteriormente precisato nei seguenti termini:
«La mera esistenza di un piano di autocontrollo HACCP non è sufficiente a escludere la colpa dell’operatore del settore alimentare. Ne consegue che l’omesso svolgimento di qualsivoglia accertamento analitico sul prodotto alimentare sfuso non regolamentare, previsto come facoltativo dal piano di autocontrollo, integra il reato di cui all'art. 5, L. 30 aprile 1962, n. 283, non valendo ad esonerare l’O.S.A. dalla sua responsabilità l’assolvimento dell’obbligo di tracciabilità, atteso che, scopo principale della predisposizione di un piano di autocontrollo è quello di prevenire il rischio di immettere sul mercato prodotti non sicuri igienicamente re-cando un conseguente e potenziale danno ai consumatori, cui consegue l’obbligo di garantire che la filiera alimentare si concluda con l’immissione in commercio di prodotti alimentari perfettamente igienici ed a norma».
3. Quanto al dedotto travisamento probatorio, lo stesso si appalesa assolutamente inammissibile. Ciò che in realtà contestano i ricorrenti è l’interpretazione giuridica che del narrato dei verbalizzanti è stata operata, in base all’assunto che se il Tribunale avesse bene inteso quanto da essi riferito (a proposito dell’assolvimento dell’unico onere che, in base alla respinta deduzione difensiva, si riteneva su di essi incombere, ossia quello di garantire la tracciabilità di filiera), avrebbe dovuto mandarli assolti. Si tratta, all’evidenza, di un tentativo di introdurre nel giudizio di legittimità l’asserito vizio di contraddittorietà della sentenza impugnata sotto il profilo del travisamento della prova dichiarativa che non può essere ritenuto ammissibile. Deve, inveri, sul punto essere ribadito che in tema di motivi di ricorso per cassazione, il vizio di "contraddittorietà processuale" (o "travisamento della prova") vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell'esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, per evidenziarne l'eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di "fotografia", neutra e a-valutativa, del "significante", ma non del "significato", atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione nel merito dell'elemento di prova (da ultimo: Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Rv. 283370 – 01). A ciò, peraltro, va aggiunto, tenuto conto del tenore del motivo di ricorso proposto, che non dà luogo al vizio di travisamento della prova la scelta, ad opera del giudice, di un'interpretazione delle dichiarazioni testimoniali, giustificata peraltro da massime di esperienza, in luogo di altra e diversa interpretazione (Sez. 3, n. 46451 del 07/10/2009, Rv. 245611 – 01).
4. I ricorsi devono essere pertanto dichiarati inammissibili, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende, non potendosi escludere profili di colpa nella proposizione.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso, il 14 dicembre 2023