Consiglio di Stato, Sez. V, n. 3449, del 9 luglio 2015  
Rifiuti.Legittimità provvedimento di decadenza della «certificazione di bonifica»

L’azione di monitoraggio richiesta dalla certificazione non è stata compiuta (né, del resto, dalle società parti in causa è stata fornita una puntuale prova contraria). L’inadempimento della relativa «prescrizione» è già sufficiente, tanto più se si tiene conto della gravità degli sviluppi in seguito accertati, a giustificare la declaratoria di decadenza c.d. sanzionatoria della certificazione. La misura decadenziale vieppiù si imponeva, inoltre, se si considera che, essendosi riscontrato un peggioramento della situazione, che aveva visto la contaminazione propagarsi e aggravarsi (e investire, almeno potenzialmente, l’intero sito), tutto questo poneva in risalto l’inefficacia degli interventi del cui compimento la certificazione aveva dato atto. Le risultanze emerse, nell’esposizione fattane nella relazione del consulente tecnico posta a base del provvedimento impugnato, comprovavano, invero, il superamento della certificazione stessa, smentendo drasticamente l’asserto che l’inquinamento del sito fosse davvero «in via di esaurimento», e comprovando l’inidoneità delle iniziative di bonifica da essa attestate. La permanente efficacia della certificazione non assolveva dunque più ad alcuna funzione d’interesse pubblico, essendosi inverati i presupposti della sua stessa «prescrizione» per cui in caso di accertato peggioramento dello stato del sito si sarebbe dovuto presentare un nuovo progetto di bonifica. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

N. 03449/2015REG.PROV.COLL.

N. 08261/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8261 del 2014, proposto dalla Provincia di Pavia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Giovanbattista Bernardo e Alfredo Codacci Pisanelli, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Alfredo Codacci Pisanelli in Roma, via Claudio Monteverdi, n. 20; 

contro

La s.p.a. Impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Antonella Capria e Antonio Lirosi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Antonio Lirosi in Roma, via delle Quattro Fontane, n. 20; 

nei confronti di

Il Comune di Pavia, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Bassano Baroni e Lidia Sgotto Ciabattini, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Lidia Sgotto Ciabattni in Roma, piazzale Clodio, n. 32; 
l’Agenzia Regionale Protezione Ambiente (Arpa) - Lombardia, Regione Lombardia; 
la s.p.a. Sogef in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Antonio Belvedere, Andrea Manzi e Walter Fumagalli, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Andrea Manzi in Roma, via Federico Confalonieri, n. 5; 

per la riforma

della sentenza del T.A.R. Lombardia – Milano, Sez. IV, n. 1373/2014, resa tra le parti, concernente la decadenza della certificazione di bonifica dell'area dismessa denominata «ex Chatillon».

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio della s.p.a. Impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro, della s.p.a. Sogef in liquidazione e del Comune di Pavia, quest’ultimo notificato alle altre parti del giudizio;

Visto l’appello incidentale della s.p.a. Impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 aprile 2015 il Cons. Nicola Gaviano e uditi per le parti gli avvocati Giovanbattista Bernardo, Alfredo Codacci Pisanelli, Antonella Capria, Antonio Lirosi, Andrea Manzi e Lidia Sgotto Ciabattini;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO e DIRITTO

1 La s.p.a. Impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro (di seguito, la soc. Maltauro) impugnava con ricorso al T.A.R. per la Lombardia il provvedimento del dirigente del Settore Tutela Ambientale della Provincia di Pavia n. 39746 del 18 giugno 2012, con il quale:

- è stata disposta la decadenza della «certificazione di bonifica», rilasciata il 21 ottobre 2004, dell’area dismessa denominata «ex Chatillon», di circa 62.000 mq, sita nel comune di Pavia - località Motta San Damiano, della quale la ricorrente è proprietaria dal 1996, con la conseguente cessazione degli effetti della certificazione stessa;

- la ricorrente, unitamente alla precedente proprietaria s.p.a. Sogef (ex s.r.l. SO.G.IM.: di seguito, la SOGEF), ai sensi dell’art. 244, comma 2, del d.lgs. n. 152/2006 è stata diffidata a presentare il «piano di caratterizzazione» entro 30 giorni dalla notifica del provvedimento.

La Provincia aveva emanato tali misure in considerazione dell’inadempimento da parte della SOGEF al contenuto dell’atto di certificazione, nonché dei comportamenti omissivi rilevati a carico di entrambe le società, che avrebbero contribuito alla diffusione della contaminazione delle acque di falda e allo stato di potenziale contaminazione dell’intero sito (come evidenziato nella relazione del CT dott. Giampaolo Sommaruga nell’ambito del procedimento penale instaurato nel 2010, per la relativa vicenda, davanti alla Procura della Repubblica di Pavia).

A sostegno del ricorso, veniva dedotta la violazione dell’allegato V al d.m. n. 471/1999, degli artt. 239, 240, 242, 244, 245, 247, 250 e 253 del d.lgs. n. 152/2006, degli artt. 1, 3 e 7 della legge n. 241/1990 e dell’art. 5 della legge della Regione Lombardia n. 30/2006, oltre che l’eccesso di potere per contraddittorietà e perplessità, illogicità, difetto di istruttoria, travisamento dei fatti, violazione dei principi di proporzionalità, di leale collaborazione e «chi inquina paga», sviamento di potere, e infine incompetenza.

In particolare, la ricorrente deduceva l’impossibilità di addossarle qualsiasi obbligo di messa in sicurezza e di bonifica del sito, in considerazione della propria estraneità alle responsabilità dell’inquinamento del medesimo, da attribuire semmai ai soggetti che vi avevano esercitato a suo tempo l’attività produttiva nel settore delle tecnofibre, ivi producendo solfuro di carbonio, sin dal 1920 (prima Chatillon, poi Montefibre); in subordine, nel caso di mancata individuazione dell’inquinatore, la ricorrente deduceva la sussistenza del dovere dell’Amministrazione di attivarsi in sua sostituzione, salvo le conseguenti facoltà di rivalsa sulla proprietà.

Si costituivano in giudizio in resistenza al ricorso la Provincia e il Comune di Pavia, che ne domandavano la reiezione in ragione della sua infondatezza nel merito.

Si costituiva, altresì, la SOGEF, che allegava la propria estraneità all’inquinamento del sito.

La ricorrente con successivo atto di motivi aggiunti impugnava il provvedimento del Comune di Pavia, Settore Ambiente e territorio, Servizio Ecologia, n. 28472 del 23 luglio 2013, con cui è stato approvato il piano di caratterizzazione nel frattempo da essa presentato, nella parte in cui tale provvedimento la qualificava quale proprietaria dell’area di interesse, sottendendo una sua esclusiva responsabilità nella vicenda; venivano altresì impugnati i verbali della conferenza di servizi tenutasi nel 2013 e le relazioni dell’ARPA, contestando che dai medesimi potesse evincersi la prova di una qualsiasi sua responsabilità per la contaminazione del sito.

Il Comune di Pavia eccepiva l’inammissibilità dei motivi aggiunti per carenza di interesse, in considerazione della natura meramente autorizzativa e ricognitiva dell’atto impugnato, dal quale non sarebbe potuto derivare alcun effetto lesivo per la ricorrente.

L’individuazione della responsabilità della soc. Maltauro sarebbe stata riconducibile esclusivamente all’ordinanza della Provincia impugnata con il ricorso principale.

2 All’esito del giudizio di primo grado il Tribunale adìto, con la sentenza n. 1373/2014 in epigrafe, accoglieva il ricorso, reputando che non emergessero responsabilità della ricorrente per la situazione di inquinamento accertata. Il TAR ha inoltre ritenuto che dall’annullamento dell’ordinanza provinciale impugnata in via principale discendesse la caducazione automatica del provvedimento comunale, siccome direttamente consequenziale alla prima, con conseguente declaratoria di improcedibilità dei motivi aggiunti per sopravvenuta carenza di interesse.

3 Con l’appello in esame, la Provincia di Pavia ha impugnato la sentenza del TAR ed ha chiesto che in sua riforma sia respinto il ricorso di primo grado, criticando gli argomenti in base ai quali questo era stato favorevolmente scrutinato dal primo Giudice.

Il Comune si costituiva in giudizio in adesione ai motivi di appello.

Esso svolgeva peraltro anche un’autonoma doglianza avverso la sentenza in epigrafe, notificando la propria memoria di costituzione alle altre parti del giudizio.

L’originaria ricorrente resisteva all’appello e proponeva anche un appello incidentale avverso la statuizione con cui la stessa sentenza ha dichiarato l’improcedibilità dei suoi motivi aggiunti.

Si costituiva, infine, la SOGEF, ribadendo la tesi della propria estraneità all’inquinamento del sito e opponendo di non avere avuto alcun obbligo di bonificarlo (ciò cui sarebbe stata tenuta, a suo dire, la società Chatillon, poi divenuta Montefibre).

Le parti costituite sviluppavano le rispettive tesi, controdeducendo ai reciproci argomenti con molteplici memorie e scritti di replica.

Alla pubblica udienza del 28 aprile 2015, la causa è stata trattenuta in decisione.

4 L’appello della Provincia è suscettibile d’accoglimento solo in parte, ossia nei limiti in cui con esso è contestata la statuizione con cui il TAR ha annullato la clausola dell’ordinanza impugnata recante la decadenza della certificazione di bonifica rilasciata nel 2004.

Tale misura decadenziale risulta, infatti, immune da vizi.

Sotto ogni altro profilo l’appello principale deve però essere disatteso, con la conseguente conferma dell’annullamento della diffida provinciale a presentare la «caratterizzazione».

5a All’esame della materia del contendere conviene premettere che, poiché il ricorso di prime cure è stato proposto dalla soc. Maltauro, è la posizione della medesima che richiede di essere qui esaminata ex professo.

Dal thema decidendum esula, invece, una disamina della specifica posizione della SOGEF, la sua dante causa, che non risulta avere proposto a suo tempo analogo ricorso.

E tanto più esorbita dai confini della presente controversia, come si vedrà anche più avanti (cfr. infra il paragr. 7d), l’esame delle diffuse deduzioni incrociate con cui le difese delle due società si sono scambiate addebiti di responsabilità nella complessiva vicenda, traendo spunto dai contenuti dei propri rapporti negoziali.

5b Occorre altresì premettere che la verifica dell’applicabilità a carico della ricorrente delle misure previste dagli artt. 242 e segg. del d.lgs. n. 152/2006 non può che procedere alla stregua dei profili di responsabilità che alla medesima società sono stati ascritti dall’ordinanza impugnata, la cui motivazione non può essere integrata dagli scritti difensivi delle Amministrazioni che sono parti in controversia.

Non possono quindi essere presi in considerazione titoli di imputazione della responsabilità diversi da quelli posti a base del provvedimento impugnato, la cui configurabilità sia stata affermata dalle Amministrazioni nei loro scritti difensivi ma non nella sede propria, cioè dal provvedimento previsto dalla normativa di settore.

Risultano perciò non pertinenti, in particolare, le deduzioni di cui a pp. 28 ss dell’atto di appello, per le quali la destinataria dell‘ordinanza dovrebbe essere considerata responsabile, in quanto subentrata negli obblighi della propria dante causa, sulla base del contratto di vendita di data 4 ottobre 1996.

La legittimità dell’atto impugnato in primo grado va difatti esaminata tenendo conto del suo specifico contenuto e supporto motivazionale, e non anche di circostanze e titoli di imputazione prospettati solo per saltum in sede processuale.

5c Ulteriore (e connessa) premessa d’obbligo, più schiettamente di merito, è quella che il provvedimento provinciale impugnato non imputa alcuna responsabilità all’originaria ricorrente per l’inquinamento c.d. storico del sito, com’è stato già rilevato dal primo Giudice (cfr. le pagg. 11-12 della sentenza in appello).

Le determinazioni emesse dalla Provincia a carico della soc. Maltauro sono state giustificate esclusivamente con la presunta responsabilità della società per la dilagazione recente della contaminazione (cfr. la sentenza in epigrafe alle pagg. 7 e 12).

L’Amministrazione ha riscontrato difatti, a partire dal 2010, un peggioramento delle condizioni di contaminazione originate dal risalente inquinamento storico, che ha ritenuto di poter ascrivere a comportamenti omissivi delle due società in quanto, in sintesi:

- la soc. SOGEF non aveva condotto i monitoraggi imposti dalla certificazione del 2004;

- la soc. Maltauro non aveva ottemperato ai propri impegni assunti nel 2010 mettendo in sicurezza la sottostante falda idrica.

5d Il primo Giudice, tuttavia, ha escluso (cfr. le pagg. 12-13 e 19 della sua sentenza) che l’originaria ricorrente potesse essere reputata responsabile dell’aggravamento delle condizioni di contaminazione dell’area.

Il Tribunale ha osservato che non risultava dimostrato il nesso causale tra condotta ed evento, ossia il fatto che la condotta omissiva della società ricorrente avesse contribuito ad aggravare le criticità dell’inquinamento.

L’unica certezza, ha rilevato il T.A.R., «è che la società ricorrente ha acquistato nel 1996 un sito sul quale erano in atto opere di bonifica alle quali si era impegnato il precedente proprietario e per il quale è stata rilasciata allo stesso la certificazione di avvenuta bonifica nel 2004».

In seguito, una volta accertata la perdurante situazione di contaminazione, se è vero che la soc. Maltauro aveva ricevuto l’autorizzazione a porre in essere delle misure di sicurezza, ritardandone peraltro poi l’esecuzione, al Tribunale è però apparsa dirimente la notazione che la società al compimento di tali misure non fosse obbligata, non essendo il soggetto responsabile dell’inquinamento.

6 Orbene, la Sezione deve subito rilevare la centralità di quest’ultimo passaggio logico e la sua conformità al quadro normativo vigente, punto che per sé già comporta l’infondatezza di buona parte delle deduzioni proposte con il presente appello (da valutare, come già osservato, nei soli limiti dei titoli di responsabilità effettivamente ascritti dal provvedimento impugnato).

6a Il primo Giudice ha rilevato che le norme di cui agli artt. 242 e segg. del d.lgs. n. 152/2006 vanno interpretate nel senso che l'obbligo di adottare le misure dirette a fronteggiare la situazione di inquinamento incombe su colui che di tale situazione sia responsabile per avervi dato causa.

La fonte dell'obbligo di procedere alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito inquinato si identifica, cioè, nella responsabilità dell'autore dell'inquinamento, sicché al proprietario non responsabile di quest’ultimo - e in questo senso «incolpevole»- non è addossabile alcun obbligo di bonificare o di mettere in sicurezza.

6b La Sezione condivide questa impostazione, attesa la sua conformità agli orientamenti della Adunanza plenaria di questo Consiglio, che con la decisione del 25 settembre 2013, n. 21, ha enunciato, invero, i seguenti principi.

Gli art. 244, 245 e 253 d.lg. n. 152 del 2006 vanno interpretati nel senso che, in caso di accertata contaminazione di un sito, e di impossibilità di individuarne il soggetto responsabile o di ottenere da quest'ultimo interventi di riparazione, l’Amministrazione non può imporre al proprietario non responsabile, che ha solo una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo il compimento degli interventi di bonifica, l'esecuzione delle misure di sicurezza d'emergenza e di bonifica.

Ai sensi dell'art. 242 del d.lg. n. 152/2006, infatti, è il responsabile dell'inquinamento il soggetto sul quale gravano gli obblighi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale in presenza di uno stato di contaminazione.

Il proprietario non responsabile è gravato di una specifica obbligazione di «facere», che riguarda l'adozione delle misure di prevenzione ex art. 242, comma 1 (che sono quelle da intraprendere «entro ventiquattro ore», al verificarsi di un evento potenzialmente in grado di contaminare il sito). A carico del proprietario dell'area che non sia altresì qualificabile come responsabile dell'inquinamento, non incombe alcun ulteriore obbligo di «facere»; in particolare, egli non è tenuto a porre in essere gli interventi di messa in sicurezza d'emergenza e di bonifica, ma ha solo la facoltà di eseguirli, per mantenere l'area libera da pesi (art. 245).

Pertanto, nell'ipotesi di mancata individuazione del responsabile, o di mancata esecuzione degli interventi in esame da parte sua – e sempreché non provvedano spontaneamente né il proprietario del sito, né altri soggetti interessati –, le opere di recupero ambientale devono essere eseguite dall'Amministrazione competente (art. 250), che potrà poi rivalersi sul proprietario del sito, nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei medesimi interventi (art. 253).

L’Adunanza plenaria, infine, con la stessa pronuncia ha rimesso alla Corte di giustizia dell'Unione europea la questione pregiudiziale tesa a stabilire se ostassero alla normativa nazionale così delineata i principi dell'Unione europea in materia ambientale sanciti dall'art. 191, par. 2, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e dalla direttiva 2004/35/Ce del 21 aprile 2004 (in particolare, il principio «chi inquina paga», il principio di precauzione, il principio dell'azione preventiva, il principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all'ambiente).

La Corte di Giustizia, con la sentenza della Sez. III 4 marzo 2015, n. 534, si è pronunciata in senso negativo, rilevando che la disciplina comunitaria non osta ad una normativa nazionale dai contenuti sopra sintetizzati.

6c La Corte di Giustizia nell’occasione ha puntualizzato che il principio «chi inquina paga», con il corollario dell’immunità del proprietario incolpevole, varrebbe solo a partire dall’aprile del 2007, dovendo farsi riferimento per il periodo anteriore ai contenuti del diritto nazionale.

Da ciò le Amministrazioni parti in causa hanno tratto allora l’illazione che la soc. Maltauro potrebbe ben essere reputata responsabile per i fatti anteriori al 2007.

A tanto l’originaria ricorrente ha però stato esattamente obiettato che:

- il rilievo avrebbe richiesto la proposizione di un rituale motivo d’appello avverso la sentenza in epigrafe, condizione che non è stata soddisfatta;

- il provvedimento amministrativo impugnato (e, di riflesso, la presente controversia) riguarda, in ogni caso, solo la determinazione dell’aggravamento del cd «inquinamento storico», che è stato accertato solo in epoca posteriore (a partire dal 2010).

E’ pertanto irrilevante verificare se il diritto nazionale, anche prima dell’entrata in vigore del d.lg. n. 152/2006, abbia richiesto per l’imposizione degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale l’esistenza di un nesso causale con la condotta del destinatario.

7 Tanto premesso, passando all’esame del contenuto obiettivo dell’atto impugnato in primo grado il Collegio osserva che i principi enunciati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio e dalla Corte di giustizia europea impongono di disattendere le difformi ricostruzioni poste a base dell’appello principale, con la conseguente conferma dell’impianto della sentenza impugnata.

7a Alla stregua dei principi esposti va esclusa, infatti, la configurabilità, quale concorso nel determinare -l’aggravamento di- una contaminazione, del comportamento omissivo del proprietario rispetto a condotte positive cui esso non era tenuto, non essendo responsabile del relativo inquinamento originario, ma che avrebbero potuto costituire a norma di legge solo delle sue mere iniziative volontarie.

La posizione di proprietario c.d. incolpevole, in altre parole, non viene meno per il solo fatto che il proprietario avrebbe potuto, in ipotesi, attivarsi efficacemente, ma solo quando la relativa omissione abbia comportato la violazione di un preciso obbligo giuridico di azione positiva, obbligo in difetto del quale è la stessa causalità giuridica a fare difetto (arg. ex art. 40 cpv. cod. pen.).

7b Ciò posto, con specifico riferimento all’addebito mosso alla soc. Maltauro, dal provvedimento impugnato, di non avere ottemperato ai propri impegni mettendo in sicurezza la falda idrica, va sottolineato che siffatto intervento è stato qualificato dallo stesso provvedimento impugnato come un’iniziativa volontaria, consentita dall’art. 245 del d.lgs. cit..

Né l’iniziativa avrebbe potuto perdere la propria natura per il solo fatto di essere stata in seguito autorizzata dalla P.A., circostanza che in nulla modificava la mancata constatazione della responsabilità, a monte, del suo proponente, e, di riflesso, la conseguente assenza di obblighi a suo carico, e pertanto non sarebbe potuta valere a trasformarne l’intervento in obbligatorio.

7c Quanto all’addebito relativo alla mancata effettuazione dei monitoraggi (ma un discorso del tutto analogo vale per le «prescrizioni» imposte dalla certificazione del 2004, al punto II del suo dispositivo, per l’eventualità di un peggioramento delle condizioni del sito), il Collegio osserva che i relativi adempimenti vincolavano i privati interessati solo a guisa di oneri, ai fini della conservazione della efficacia della certificazione che aveva imposto il loro espletamento.

Di conseguenza, il loro inadempimento non poteva rilevare al di là dei limiti correlati alla sopravvivenza del provvedimento cui gli oneri stessi accedevano, né quindi pervenire a giustificare l’imposizione da parte dell’Amministrazione di misure che la legge permette, invece, solo a carico del responsabile dell’inquinamento.

7d Alla luce di quanto precede si deve confermare, dunque, la conclusione del T.A.R. circa l’impossibilità di imputare alla soc. Maltauro – in sede processuale e in ragione del contenuto dell’atto impugnato - la responsabilità tanto dell’inquinamento c.d. storico del sito, quanto della sua più recente dilagazione, pur restando salva –come già rilevato dallo stesso Tribunale- la possibilità di una sua spontanea collaborazione anche nel caso in cui manchi una legittima contestazione di responsabilità, sia pure allo scopo di evitare le conseguenze di cui all’art. 253 del decreto legislativo n. 152 del 2006.

Per quanto la società potesse avere (come del resto tutte le parti della controversia) una piena consapevolezza delle condizioni di inquinamento del sito, il suo contegno omissivo, pur non privo di conseguenze sul piano fattuale, nei termini considerati dal provvedimento amministrativo impugnato, non rileva come fattore causale tale da renderla soggetto “responsabile” dello stesso inquinamento, e perciò un possibile destinatario delle misure previste dalla legge.

Per quanto precede, i motivi a base dell’appello della Provincia nei limiti in cui sindacabili –in quanto corrispondenti alla motivazione dell’atto di base impugnato- risultano infondati.

8 L’appello va accolto con riferimento alle sole sorti della clausola del provvedimento impugnato che ha pronunciato la decadenza della «certificazione di bonifica» rilasciata il 21 ottobre 2004 (cfr. le pagg. 50-53 dell’appello).

La clausola, anch’essa annullata dalla sentenza impugnata, risulta infatti immune da vizi.

8a Occorre ricordare che tale certificazione, come indicato sin dalla sua significativa denominazione («certificazione di completamento degli interventi di bonifica con misure di sicurezza»), non attestava senz’altro l’avvenuta bonifica dell’area in rilievo, ma soltanto il fatto che le operazioni effettuate fossero conformi al progetto di bonifica approvato, onde solo in questo senso essi potevano dirsi «completate».

Essa dava, tra l’altro, espressamente atto della presenza di un inquinamento residuo, pur definendolo come fenomeno «in via di esaurimento».

Infine, essa prevedeva, in coerenza con i propri contenuti, per un verso, lo svolgimento di operazioni di monitoraggio nel tempo; per altro verso, che in caso di accertato peggioramento delle condizioni del sito si sarebbe dovuto presentare un nuovo progetto di bonifica (sull’evidente presupposto del superamento per ciò stesso del progetto precedente), rinnovando quindi il procedimento già svolto.

L’atto non constatava perciò una bonifica definitivamente conclusa, bensì una bonifica subordinata a piani di monitoraggio e controlli tesi a verificarne la reale efficacia e stabilità nel tempo.

8b Tanto premesso, le vicende successivamente emerse e le risultanze acquisite denotano che l’azione di monitoraggio richiesta dalla certificazione non sia stata compiuta (né, del resto, dalle società parti in causa è stata fornita una puntuale prova contraria).

Ora, l’inadempimento della relativa «prescrizione» è già sufficiente –tanto più se si tiene conto della gravità degli sviluppi in seguito accertati- a giustificare la declaratoria di decadenza c.d. sanzionatoria della certificazione.

8c La misura decadenziale vieppiù si imponeva, inoltre, se si considera che, essendosi riscontrato un peggioramento della situazione, che aveva visto la contaminazione propagarsi e aggravarsi (e investire, almeno potenzialmente, l’intero sito), tutto questo poneva in risalto l’inefficacia degli interventi del cui compimento la certificazione aveva dato atto.

Le risultanze emerse, nell’esposizione fattane nella relazione del consulente tecnico posta a base del provvedimento impugnato, comprovavano, invero, il superamento della certificazione stessa, smentendo drasticamente l’asserto che l’inquinamento del sito fosse davvero «in via diesaurimento», e comprovando l’inidoneità delle iniziative di bonifica da essa attestate (inidoneità che nemmeno la soc. Maltauro ha disconosciuto).

8d La permanente efficacia della certificazione non assolveva dunque più ad alcuna funzione d’interesse pubblico, essendosi inverati i presupposti della sua stessa «prescrizione» per cui in caso di accertato peggioramento dello stato del sito si sarebbe dovuto presentare un nuovo progetto di bonifica.

Ciò evidenzia l’infondatezza della tesi della soc. Maltauro che la certificazione, benché ormai superata (ma, ancor prima, smentita) dai fatti, potesse rimanere nondimeno efficace.

Una eventuale conferma dei suoi effetti giuridici potrebbe scaturire, invero, solo da una effettiva bonifica dell’area interessata.

8e La clausola del provvedimento impugnato recante la decadenza della «certificazione di bonifica» merita, pertanto, di essere sottratta all’annullamento, tenuto conto anche della circostanza che la misura è stata preceduta da un contraddittorio sostanziale tra le parti che ha riguardato anche le sorti della certificazione stessa.

Sicché la sentenza in epigrafe deve essere riformata in parte qua.

9 Occorre ora passare a occuparsi dei due appelli incidentali, a partire da quello proposto dalla soc. Maltauro.

Si è anticipato in narrativa che tale gravame investe la sentenza in epigrafe nella parte in cui ha dichiarato l’improcedibilità dei motivi aggiunti proposti dalla medesima società (che contestavano essenzialmente il provvedimento con cui il Comune aveva approvato il piano di caratterizzazione da essa presentato in esecuzione dell’ordinanza provinciale).

Ora, l’appello incidentale in esame, che si sostanzia nella riproposizione dei pregressi motivi aggiunti, è stato espressamente condizionato all’eventualità di un accoglimento dell’appello esperito dalla Provincia sul punto.

Poiché pertanto, per converso, la sentenza di primo grado, nella parte in cui annullava la «prescrizione» dell’ordinanza impositiva del piano di caratterizzazione, è stata qui confermata, non vi è luogo a esaminare il detto gravame incidentale, e questo in aderenza alla volontà espressa dalla parte che lo ha esperito (constatazione che per la sua evidenza merita la precedenza sull’esame delle eccezioni avversarie di tardività dello stesso appello incidentale, e di non lesività dell’atto oggetto dei corrispondenti motivi aggiunti di primo grado).

10 Rimane a questo punto da esaminare l’appello incidentale proposto dal Comune, anch’esso vertente sul capo della sentenza di primo grado recante la declaratoria d’improcedibilità dei medesimi motivi aggiunti.

Il Comune infatti, come si è detto, oltre ad aderire all’appello della Provincia e sostenerne diffusamente le ragioni, ha dedotto anche (cfr. le sue pagg. 46-49) un’autonoma doglianza avverso la sentenza in epigrafe nella parte indicata, e notificato la propria memoria di costituzione, il 7 novembre 2014, alle altre parti del giudizio.

Tale appello risulta però tardivo, giusta l’eccezione delle società Maltauro e SOGEF.

La sentenza del T.A.R. è stata notificata al Comune sin dal 16-18 giugno 2014. Né l’appello comunale del 7 novembre 2014 può trarre giustificazione dall’appello principale esperito nel frattempo dalla Provincia ai fini di una qualificazione quale appello tardivo, ai sensi dell’art. 96, comma 4, CPA e dell’art. 334 cod. proc. civ.

Il motivo d’appello proposto dal Comune è stato invero espressamente condizionato (cfr. la sua pag. 47) all’eventualità di un rigetto dell’appello della Provincia, e perciò di una conferma dell’annullamento giurisdizionale dell’ordinanza provinciale. L’appello incidentale comunale è stato proposto, cioè, per l’eventualità che quello principale venisse respinto, e non già per il caso in cui venisse accolto.

Dal che si desume che l’interesse comunale sottostante all’appello incidentale non può ritenersi sorto in occasione e in dipendenza della presentazione dell’appello provinciale, iniziativa che risulta invece ininfluente sulla valutazione che ha portato il Comune al suo esperimento.

Deve ritenersi, pertanto, che in concreto non ricorra la ratio giustificativa dell’istituto dell’appello incidentale tardivo.

Questo presuppone (cfr. Ad. Pl., 16 dicembre 2011, n. 24) che una parte, che sarebbe disposta ad accettare la sentenza di primo grado ove l’accettassero anche le altre parti, si determini ad impugnarla solo in conseguenza dell’impugnativa altrui, che rimette in discussione l’assetto sul quale la parte avrebbe potuto essere disposta a prestare acquiescenza. Ed è questo che giustifica la possibilità di proporre un’impugnazione incidentale tardiva dopo la notifica di quella principale, in via subordinata all’accoglimento di quest’ultima ovvero in chiave autonoma.

Nella fattispecie, per converso, l’appellante incidentale domanda che il proprio appello venga esaminato solo nell’eventualità che quello principale finisca respinto, e venga così confermato l’assetto creato dalla sentenza di primo grado.

L’appello incidentale comunale è destinato, cioè, ad assumere rilievo solo ove l’appello principale esca preventivamente di scena, vedendosi negata con il proprio rigetto qualsiasi possibilità di effetto.

Sicché non si giustifica alcuna rimessione in termini a favore del Comune, correlata alla proposizione dell’altrui appello principale.

Se è indubbio, infatti, che un appello incidentale tardivo possa investire anche capi autonomi di una sentenza, la sua proposizione non può però essere ammessa quando sia in concreto inequivocabilmente esclusa la sussistenza dellaratio che dovrebbe giustificarlo (ratio che si dimostra carente anche per il fatto che non ricorre alcun conflitto tra gli interessi di Comune e Provincia, di cui i rispettivi appelli sono espressione).

In definitiva l’appello incidentale del Comune, non rinvenendo la propria giustificazione in quello della Provincia, doveva essere proposto nel rispetto del termine breve decorrente dalla notificazione della sentenza. Da qui la sua tardività.

11 In conclusione, mentre l’appello principale può essere accolto nella parte concernente la decadenza della certificazione di bonifica del 2004, ma deve essere respinto sotto i rimanenti profili, con salvezza di atti ulteriori, gli appelli incidentali della soc. Maltauro e del Comune di Pavia devono essere dichiarati, rispettivamente, inammissibile e irricevibile.

Le spese processuali del doppio grado di giudizio, stante la complessità della controversia e l’esito del giudizio, possono essere equitativamente compensate tra tutte le parti in causa.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) definitivamente pronunciando sull'appello in epigrafe n. 8261 del 2014, lo accoglie in parte, e per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado nella parte proposta contro il capo del provvedimento impugnato recante la decadenza dalla certificazione menzionata in atti.

Respinge l’appello principale sotto i rimanenti profili.

Dichiara inammissibile l’appello incidentale della soc. Maltauro e irricevibile quello proposto dal Comune di Pavia.

Compensa integralmente tra tutte le parti in causa le spese del doppio grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 28 aprile 2015 con l'intervento dei magistrati:

Luigi Maruotti, Presidente

Vito Poli, Consigliere

Antonio Amicuzzi, Consigliere

Nicola Gaviano, Consigliere, Estensore

Raffaele Prosperi, Consigliere

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 09/07/2015

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)