Le modifiche al processo penale introdotte dal d.l. n. 90/2008: dal “rito vesuviano” al “rito venusiano”?
di Luigi LEVITA

ABSTRACT
Il decreto legge n. 90/2008, per come convertito dalla legge n. 123/2008, si caratterizza inter alia per la creazione di un vero e proprio microcosmo processuale penale partenopeo, dall’efficacia spaziale e temporale limitata, retto da regole sui generis rispetto al processo penale classico e con riguardo alle quali il dibattito degli studiosi, della magistratura e degli altri operatori è deflagrato con inusitata verve argomentativa. L’Autore evidenzia quindi alcune chiavi di lettura della nuova disciplina e segnala diverse incongruenze di quello che ha inteso ribattezzare, scherzosamente ma non troppo, “rito vesuviano”, proponendo ipotesi ricostruttive tese a ricercare il giusto equilibrio tra celerità e garanzie, sulla cui tenuta si misura l’efficienza di qualsiasi sistema processuale.

Le ragioni di opportunità sottese all’utilizzo della decretazione d’urgenza.

In un ordinamento giuridico tristemente abituato, negli ultimi decenni, ad un impiego frequente e spesso improvvido del decreto legge, l’operatore e la collettività non possono non concordare con la necessitata scelta governativa di imprimere una svolta all’emergenza rifiuti campana mediante la decretazione d’urgenza, che mai come in questo caso appare come opportuna risposta ai casi straordinari di necessità che il disposto dell’articolo 77 della Costituzione affida all’intervento dell’Esecutivo. Vero è che, solitamente, il fine studioso storce il naso allorché gli interventi di novellazione del sistema penale sostanziale e processuale avvengono nelle forme del decreto legge, per le ben note considerazioni di inopportunità che l’utilizzo di una poco ponderata evoluzione legislativa incida su profili sanzionatori, processuali e – in ultima analisi – sulle libertà dei consociati. Ma è facile replicare che la obiettiva insostenibilità dello status quo raggiunto in Campania nel corso del 2008 non possa prescindere da interventi celeri e radicali, irrinunciabili per conferire – tra l’altro – una “copertura” legislativa ad un nutrito bagaglio di disposizioni e procedure amministrative stratificatesi nei mesi appena trascorsi.

Nasce il rito vesuviano?

Sgombrato il campo da considerazioni attenenti il quomodo, l’attenzione del commentatore può quindi appuntarsi sul disposto dell’articolo 3 del decreto legge n. 90/2008, il quale è significativamente rubricato: “Competenza dell’autorità giudiziaria nei procedimenti penali relativi alla gestione dei rifiuti nella regione Campania” e che, ad avviso di chi scrive, sembra instaurare un vero e proprio rito vesuviano mediante la creazione di una Procura della Repubblica regionale, ossia quella partenopea, alla quale viene attribuita la competenza sui reati riferiti alla gestione dei rifiuti ed a quelli in materia ambientale, fatta ovviamente salva l’attività di coordinamento della Procura nazionale antimafia per i fatti delittuosi riconducibili all’azione della criminalità organizzata ex art. 371-bis c.p.p. (art. 3, comma 3, d.l. n. 90/2008).

            Nell’obiettivo – astrattamente condivisibile – di ampliare la competenza della Procura di Napoli, il Governo adotta in primis l’ampia dizione di reati che, a meno di voler giustificare un inammissibile lapsus calami, amplia lo spettro conoscitivo dell’ufficio inquirente partenopeo anche con riguardo alle ipotesi contravvenzionali, peraltro molto numerose nell’ambito dell’armamentario penalistico edificato dal Codice dell’Ambiente e dallo stesso articolo 2 del decreto legge in esame, il quale sanziona per la prima volta l’introduzione abusiva nelle aree di interesse strategico nazionale, l’azione di ostacolo alla corretta gestione dei rifiuti, la distruzione dei beni e degli impianti connessi al ciclo dei rifiuti. L’esplicita introduzione della punibilità anche per le fattispecie tentate, forse superflua ma egualmente operata dal legislatore della conversione, contribuisce a disvelare l’intento ampliativo di che trattasi.

In secondo luogo, perviene al medesimo scopo estensivo l’aver discettato di reati riferiti alla gestione dei rifiuti e non – come sarebbe stato ad esempio possibile – di reati connessi o di reati concernenti la detta gestione: anche quest’opzione tecnica appare foriera di estensioni investigative che, aggravate dall’accentramento dell’intero settore in capo ad un unico ufficio regionale di Procura, potrebbero cagionare distonie e ritardi piuttosto che raggiungere gli ambiziosi obiettivi di efficienza ed immediatezza che il Governo ha elevato a stella polare della decretazione urgente. A riprova della bontà di tale assunto, va evidenziata sul versante processuale l’esplicita applicazione dell’articolo 12 c.p.p., che attrae in capo alla Procura di Napoli tutte le fattispecie delittuose connesse ai reati ambientali in senso ampio, connessione che cagionerà senza dubbio un ulteriore aumento dei carichi di lavoro; sul versante sistematico, rischia quindi di essere contraddetta la complessiva ratio del decreto in esame che, all’articolo 2, conferisce al competente Sottosegretario di Stato il potere di individuazione dei siti da destinare a discarica e di acquisizione dei beni mobili funzionali alle attività da compiersi, mediante l’ausilio della forza pubblica. Il tutto, conclusivamente, stride inoltre con l’autonomo ed incisivo potere di precettazione dei lavoratori impegnati nell’attività concernente la gestione dei rifiuti, che lo stesso articolo 2 affida al Sottosegretario sottraendolo all’impulso della Commissione di garanzia per l’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali (cfr. la legge n. 83/2000, di riforma dell’originaria legge n. 146/1990).

Simile rischio di vulnus all’efficienza investigativa risulta egualmente dietro l’angolo con riferimento all’attribuzione alla Procura di Napoli dei reati in materia ambientale commessi sul territorio regionale, per i quali l’esperienza giudiziaria recente ha testimoniato una correlazione statisticamente allarmante con le fattispecie delittuose di criminalità organizzata e con i delitti contro la Pubblica Amministrazione (e ferma ogni considerazione di opportunità, beninteso, sull’operata sottrazione di competenza ad uffici giudiziari – su tutti la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere – che hanno raggiunto negli ultimi anni una notevole specializzazione in materia).

Va quindi salutata con favore la circolare interpretativa che il Procuratore della Repubblica di Napoli, nell’immediatezza dell’entrata in vigore del decreto legge, ha inteso varare in ragione della straordinarietà dei poteri attribuitigli, con la quale ha operato un’opportuna actio finium regundorum: in particolare, secondo tale circolare, sono reati ambientali ai sensi dell’articolo 2 “gli illeciti intrinsecamente idonei ad assumere rilievo ai fini degli interventi e delle iniziative considerate necessarie per affrontare l’emergenza dei rifiuti in Campania, per essere riferiti, in conformità alle concorrenti indicazioni normative contenute nel cd. Codice ambientale, alla tutela penale degli interessi pubblici direttamente ed immediatamente connessi ai rischi ambientali individuati dalla vigente disciplina legale in tema di rifiuti”. La forte natura di suasion della circolare, in una con l’esigenza concreta di appuntare gli sforzi investigativi sui reati effettivamente pregiudicanti la risoluzione dell’emergenza rifiuti, può senz’altro valere a vincere le resistenze e le perplessità di alcuni primi commentatori, i quali hanno immediatamente posto l’accento sul carattere interpretativo e non vincolante della circolare, paventando l’emersione di non meglio specificate questioni esegetiche (questioni che, qualora dovessero effettivamente scaturire, troveranno terreno fertile nelle inevitabili approssimazioni dell’impianto normativo e certamente non nella circolare del Procuratore della Repubblica).

A tagliare la testa al toro, in una delle poche modifiche sostanziali dell’articolo 3 del decreto legge, è tuttavia fortunatamente intervenuta la legge di conversione, la quale ha puntualizzato che l’attrazione della competenza in capo alla Procura partenopea concerne i soli reati “attinenti alle attribuzioni del Sottosegretario di Stato, di cui all\'articolo 2 del presente decreto”, con ciò sopendo i riferiti attriti interpretativi.

Parallelamente, sempre dal punto di vista organizzativo risulta in primo luogo opportuna la deroga esplicita al regime della delega investigativa di cui all’articolo 2 del d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106 (“Il procuratore della Repubblica, quale titolare esclusivo dell’azione penale, la esercita personalmente o mediante assegnazione a uno o più magistrati dell’ufficio. L’assegnazione può riguardare la trattazione di uno o più procedimenti ovvero il compimento di singoli atti di essi. Sono fatte salve le disposizioni di cui all’art. 70-bis dell’ordinamento giudiziario, di cui al r.d. 30 gennaio 1941, n. 12. Con l’atto di assegnazione per la trattazione di un procedimento, il procuratore della Repubblica può stabilire i criteri ai quali il magistrato deve attenersi nell’esercizio della relativa attività. Se il magistrato non si attiene ai principi e criteri definiti in via generale o con l’assegnazione, ovvero insorge tra il magistrato ed il procuratore della Repubblica un contrasto circa le modalità di esercizio, il procuratore della Repubblica può, con provvedimento motivato, revocare l’assegnazione; entro dieci giorni dalla comunicazione della revoca, il magistrato può presentare osservazioni scritte al procuratore della Repubblica”). Sul punto va nondimeno evidenziato che i sostituti procuratori presso il Tribunale di Napoli hanno manifestato notevoli perplessità nel rivolgersi al Consiglio Superiore della Magistratura, argomentando che la sostituzione dell’istituto della delega con un più agile schema di assegnazione finirebbe per estendere oltre misura il potere discrezionale del Procuratore della Repubblica, minando l’autonomia e l’indipendenza dei singoli sostituti e quindi dell’ufficio nel suo complesso. E difatti l’organo di autogoverno, nel rendere osservazioni al d.l. n. 90/2008 lo scorso 9 giugno, ha puntualmente evidenziato che “l\'attribuzione della possibilità di derogare, con riferimento ai reati in esame, alle previsioni dell\'art. 2 del decreto legislativo n. 106/2006 legittima il Procuratore della Repubblica di Napoli ad apportare idonee correzioni al progetto organizzativo dell\'ufficio in ragione dei nuovi carichi di lavoro (comprensive della possibilità di assegnazioni anche in deroga alle competenze della Direzione distrettuale antimafia) e ad esercitare il potere di revoca delle assegnazioni senza le formalità previste in via ordinaria ma pur sempre con provvedimento debitamente motivato. Una ulteriore dilatazione dei poteri del procuratore della Repubblica non sembra consentita dal tenore della norma. Le nuove attribuzioni del procuratore, stante il disposto dell\'art. 3, comma 5, del decreto, operano anche con riferimento ai procedimenti già assegnati e nei quali sono in corso le indagini preliminari. Ciò rappresenta un\'indubbia limitazione dell\'autonomia dei magistrati della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli e difficilmente produrrà una crescita di efficienza complessiva nell\'esercizio dell\'azione penale”, di fatto sposando la linea argomentativa caldeggiata dai sostituti della Procura napoletana.

In secondo luogo, quasi a voler contemperare il deficit di efficienza teorizzato ma non realizzato, l’esigenza di conservare in capo al singolo magistrato del pubblico ministero il proprio bagaglio investigativo ha consigliato al Governo di consentire al Procuratore generale presso la Corte d’Appello di disporre, per giustificati motivi, che a seguito di richiesta del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli (precisazione operata in conversione, ndr) il dibattimento sia seguito da un pubblico ministero presso il giudice competente (cfr. il comma 4 dell’art. 3 d.l. 90/2008 citato): ma se l’operatività temporale delle disposizioni qui commentate è destinata a concludersi – come si dirà fra poco – a fine 2009, la concreta possibilità di applicare un pubblico ministero al dibattimento pare davvero destinata a rimanere sulla carta.

Sebbene il decreto in esame abbia quindi prefigurato e tentato di porre rimedio ad alcuni presumibili inconvenienti futuri scaturenti dalla nuova disciplina, appare nondimeno difficilmente superabile, se non dopo una lunga fase di gestazione e di rodaggio, il gap informativo che senz’altro caratterizzerà i primi mesi di interlocuzione tra gli uffici della Procura della Repubblica e la polizia giudiziaria, dislocata e sparpagliata in tutto l’ambito territoriale campano, il che potrebbe frustrare proprio quelle direttrici di celerità ed efficienza che il Governo si ripromette di perseguire nell’intero settore.

Le modifiche concernenti il settore giudicante.

Venendo all’applicazione delle misure cautelari per i reati di cui sopra, essa è demandata, ai sensi del comma secondo dell’articolo 3, ai giudici del Tribunale partenopeo i quali, per espressa previsione normativa, operano in composizione collegiale, onde garantire maggiore ponderazione per decisioni d’indubbia delicatezza (secondo la medesima ratio di espressa esclusione del sequestro preventivo d’urgenza ad opera della polizia giudiziaria ex art. 321, comma 3-bis c.p.p., come stabilita dall’ultimo periodo del secondo comma dell’articolo 3 d.l. citato: esclusione vieppiù giustificata dall’esigenza, ritenuta somma dal Governo, di centralizzare l’azione investigativa e di scongiurare pertanto scoordinate e solitarie iniziative della polizia giudiziaria).

Con apposita proposta di variazione tabellare, il Presidente del Tribunale ha inteso interpretare la norma di cui al citato secondo comma dando vita a dieci collegi di GIP che, a rotazione e con durata settimanale, si occupano delle misure cautelari da emettere ovvero da convalidare su tutto il territorio regionale. Trattasi di una decisione apprezzabile quanto all’intento di scongiurare una certa personalizzazione del momento decisorio, che va comprensibilmente in direzione opposta rispetto a quanto manifestato dal Governo in fase inquirente, ma che mette certamente a dura prova la capacità di tenuta dell’ufficio GIP di Napoli, già storicamente gravato da operosissimi carichi di lavoro e che si vede costretto ad impegnare le poche residue energie nella trattazione di ulteriori e complicati processi, sia in veste di giudice della cautela (non solo sopravvenuta, ma anche preesistente: cfr. il comma 6 dell’articolo 3, che richiama analogo istituto di cui all’articolo 27 c.p.p.) che di giudice del riesame e dell’appello. Non sembra infatti a tal proposito condivisibile l’opinione secondo cui, in assenza di un’esplicita disposizione derogatoria rispetto alla disciplina generale e per mere ragioni di opportunità, sarebbe stato preferibile attribuire la competenza sulle impugnazioni delle misure cautelari alla Corte d’Appello.

Ed è proprio sulla scorta di queste considerazioni che il Consiglio Giudiziario partenopeo, lamentando un’assenza di interlocuzione da parte del Presidente del Tribunale e la mancata proposizione di adeguati meccanismi volti a compensare l’aggravio di lavoro prossimo venturo, ha ritenuto di esprimere un parere contrario alla proposta di variazione tabellare.

Nel deliberare in tal senso, il Consiglio Giudiziario ha altresì colto l’occasione per sgombrare il campo dalla difforme interpretazione patrocinata dai magistrati dell’ufficio GIP, i quali avevano sostenuto che il riferimento normativo al “tribunale in composizione collegiale” andasse attagliato al settore dibattimentale e non ai giudici per le indagini preliminari: l’organo di autogoverno locale ha infatti avallato un’esegesi in chiave discrezionale del disposto dell’articolo 3 del decreto legge, il quale conferisce al Presidente del Tribunale i più lati poteri per l’individuazione del giudice chiamato a pronunciarsi sulle richieste cautelari. Su questo specifico aspetto, nondimeno, il recente plenum del CSM ha ritenuto di dover elegantemente glissare, limitandosi ad evidenziare che “le misure cautelari, personali e reali, siano disposte, anziché dal giudice per le indagini preliminari, dal tribunale in composizione collegiale”, senza però fornire un valido contributo interpretativo (certamente non dovuto ma quantomeno opportuno, in ragione dell’autorevolezza della fonte).

Pertanto, in considerazione dell’indiscutibile aggravio che di qui ai prossimi mesi andrà ad interessare sia l’ufficio di Procura della Repubblica che l’ufficio GIP del Tribunale di Napoli, appare imprescindibile un celere e fattivo potenziamento degli uffici giudiziari coinvolti, laddove il comma 7 dell’articolo in commento a tal fine consente al Ministro della Giustizia, sentito per quanto di competenza il Consiglio Superiore della Magistratura, di adottare le necessarie misure di redistribuzione dei magistrati in servizio e di riallocazione del personale amministrativo, ivi compreso quello in servizio presso i tribunali militari e la corte militare d\'appello, d’intesa con il Ministro della difesa (anche se, molto più probabilmente, chi scrive teme sia avviato quel meccanismo a costo zero di applicazioni e supplenze che estenderebbe i problemi in altri uffici giudiziari piuttosto che risolverli).

Profili di incostituzionalità della disciplina. Tanto tuonò, che piovve.

Non sono mancate nell’ambito della magistratura napoletana e dei primi commentatori pertinenti critiche sulla complessiva costituzionalità del rito vesuviano così partorito dal Governo, soprattutto con riguardo al divieto di istituzione di giudici speciali o straordinari per come scolpito dall’articolo 102 della Carta Fondamentale: in tal senso suscita più di una perplessità non solo la limitata efficacia spaziale e temporale del Tribunale collegiale escogitato dal Governo, ma soprattutto il dictum del quinto comma dell’articolo 3 d.l. 90/2008, il quale stabilisce l’applicabilità delle norme dei commi 1 e 2 anche ai procedimenti in corso prima della data di entrata in vigore delle disposizioni medesime, per i quali non sia stata esercitata l’azione penale.

Siffatta retroattività può cagionare, ad avviso di chi scrive, due ordini di problemi.

In primo luogo, essa pare fondatamente idonea a sconvolgere il normale assetto delle competenze, di fatto scaricando sulla magistratura (non preparata nei mezzi, allo stato) le colpevoli inefficienze dell’apparato amministrativo ed ingenerando nell’opinione comune il pericoloso sentimento che la situazione emergenziale giustifichi addirittura il sacrificio dei canoni costituzionali, ai quali invece qualsiasi intervento normativo rimane sempre e doverosamente subordinato.

In secondo luogo, non può non evidenziarsi come la trasmissione degli atti relativi ad indagini già aperte sul territorio campano, che per retroattivo comando legale divengono di competenza della Procura di Napoli, appaia foriera di ritardi e disfunzioni piuttosto che di tangibili miglioramenti organizzativi e di serie compressioni dei margini temporali, se non altro perché il nuovo magistrato del pubblico ministero individuato presso la Procura partenopea dovrà ripartire ex novo nello studio del fascicolo, con un dispendio di tempo e di energie difficilmente comprensibile.

Su tutte queste frizioni del sistema con gli articoli 3, 25 e 102 della Carta Fondamentale si è – da ultimo – espresso il GIP presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere il quale, con ordinanza dello scorso 30 maggio, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3, commi primo, secondo e nono, oltre che dell’art. 19 del d.l. 90/2008, nella parte in cui attribuiscono in via esclusiva al Procuratore della Repubblica di Napoli le funzioni di cui al comma 1, lettera a), dell’art. 51 c.p.p., ai magistrati del Tribunale di Napoli le funzioni di Giudice delle indagini preliminari e di Giudice della Udienza Preliminare, ai magistrati del Tribunale di Napoli in composizione collegiale le funzioni di Giudice delle richieste cautelari reali e personali  nei procedimenti relativi ai reati riferiti alla gestione dei rifiuti ed ai reati in materia ambientale (commessi) nella Regione Campania. Il GIP sammaritano, chiamato infatti a convalidare un sequestro preventivo operato dalla polizia giudiziaria prima dell’entrata in vigore del decreto legge, ha difatti ritenuto di non poter emettere il successivo decreto di sequestro, trovandosi in una posizione di incompetenza funzionale sopravvenuta, ed ha pertanto dubitato della conformità a Costituzione delle norme di cui all’esaminato art. 3 che istituirebbero un giudice straordinario e non precostituito per legge.

La spada di Damocle della Corte Costituzionale ha quindi iniziato a penzolare pericolosamente sulla testa del legislatore, il quale non ha voluto cogliere l’occasione per parare il colpo agendo in sede di conversione.

Conclusioni. Dal “rito vesuviano” al “rito venusiano”?

            Sia consentita un’ultima notazione, stranamente sfuggita ai primi commentatori del decreto legge n. 90/2008 e che, congiuntamente alle riflessioni sin qui esposte, legittima il dubbio che il legislatore, più che costruire un rito processuale “vesuviano”, abbia partorito un vero e proprio “rito venusiano”: ai sensi del comma 9 dell’articolo 3 (“Le disposizioni del presente articolo cessano di avere efficacia al termine dello stato emergenziale in relazione al quale è emanato il presente decreto, salvo che per i fatti commessi durante lo stato emergenziale stesso”), letto in combinato disposto con l’articolo 19 (“Lo stato di emergenza dichiarato nella regione Campania, ai sensi dell’articolo 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, cessa il 31 dicembre 2009”), il nuovo processo penale edificato dal legislatore del 2008 dovrebbe avere un’efficacia temporalmente limitata. Ma il condizionale è d’obbligo, giacché recenti notizie di stampa lasciano prefigurare, nella più ottimistica delle ipotesi, un ritorno alla quasi normalità non prima di trenta o trentasei mesi, termine minimo perché il sistema della termovalorizzazione dei rifiuti divenga assolutamente operativo. L’auspicio – non solo giuridico – da farsi è che stavolta possa essere smentito il noto aforisma di Ennio Flaiano, secondo cui l’Italia è il Paese in cui niente è più definitivo del provvisorio.

 
 

* Magistrato, dottore di ricerca, Direttore Scientifico di “Strumentario Avvocati. Rivista di Diritto e Procedura Penale”. Il presente contributo è altresì pubblicato in Strumentario Avvocati, n. 9, 2007.