Il recepimento delle direttive comunitarie sulla tutela penale dell’ambiente: grandi novità per le persone giuridiche, poche per le persone fisiche

di Carlo Ruga Riva

 

 

 

1. Introduzione: dalle direttive comunitarie alla legge delega n. 96/2010. – 2. Lo schema di decreto legislativo. – 3. L’art. 727-bis c.p. – 3.1. L’art. 733-bis c.p. – 4. La responsabilità da reato ambientale degli enti. – 4.1. Eccesso di delega? – 4.2. Problemi e prospettive – 5. Il principio di legalità al tempo dell’integrazione europea.

 

1. La direttiva comunitaria 2008/99/CE[1] sulla tutela penale dell’ambiente ha rappresentato una svolta storica: per la prima volta un atto comunitario ha posto espliciti obblighi di incriminazione in capo agli Stati membri, anziché generici obblighi di approntare discipline adeguate agli scopi di tutela perseguiti[2]; successivamente è stata emanata la direttiva 2009/123/CE relativa all’inquinamento provocato dalle navi e all’introduzione di sanzioni (penali) per le relative violazioni[3].

La direttiva 2008/99/CE, sulla quale concentreremo la nostra attenzione, imponeva di sanzionare entro Natale 2010, con “sanzioni penali efficaci, proporzionate e dissuasive” (art. 5), una nutrita serie di condotte offensive dell’ambiente, distinte in 8 gruppi[4], in base alla tipologia di aggressione (es. sostanze o radiazioni ionizzanti, deposito di rifiuti), al suo oggetto (es. animali selvatici protetti, habitat naturali) e alle sue conseguenze (es. decessi, lesioni gravi, danni rilevanti alla qualità dell’aria).

L’attenzione dei commentatori si è specialmente appuntata sull’art. 3 lett. a) della direttiva 2008/99 CE, che impone l’incriminazione dello “scarico, emissione o immissione illeciti di un quantitativo di sostanze o radiazioni ionizzanti nell’aria, nel suolo o nelle acque che provochino o possano provocare il decesso o lesioni gravi alle persone o danni rilevanti alla qualità dell’aria, alla qualità del suolo o alla qualità delle acque, ovvero alla fauna o alla flora”.

La grande maggioranza della dottrina aveva desunto dall’obbligo citato la necessità di introdurre nel nostro ordinamento un nuovo assetto di tutela penale dell’ambiente imperniato su reati di danno o di pericolo concreto[5], con l’abbandono almeno parziale del tradizionale assetto di tutela imperniato sul modello del reato di pericolo astratto.

In secondo luogo, si sottolineava l’importanza della previsione della responsabilità da reato ambientale degli enti rispetto ai citati 8 gruppi di fattispecie (art. 6 direttiva 2008/99).

La legge delega n. 96/2010, dedicando due soli scarni articoli (2 e 19) al recepimento delle direttive in commento, non aveva sciolto i dubbi e gli interrogativi sulle concrete modalità di recepimento dei nuovi reati di matrice europea.

In particolare, l’art. 2 della legge delega, contenente “principi e criteri direttivi generali”, destinati a valere per tutte le decine di direttive da recepire, “salvi gli specifici principi e criteri direttivi stabiliti dalle disposizioni di cui ai capi II e III, e in aggiunta a quelli contenuti nelle direttive da attuare”, e ”al di fuori dei casi previsti dalle norme penali vigenti, ove necessario per assicurare l’osservanza delle disposizioni contenute nei decreti legislativi”, stabiliva sanzioni penali nei limiti dell’ammenda fino a 150.000 euro e dell’arresto fino a tre anni, in via alternativa o congiunta, in quest’ultimo caso in relazione a danni di particolare gravità per il bene protetto.

L’unica disposizione specificamente dedicata al recepimento delle direttive in commento era rappresentata dall’art. 19 della l. 96/2010, il quale imponeva al Governo di “introdurre tra i reati di cui alla sezione III del capo I del d.lgs. 8 giugno 2001, n, 231…le fattispecie criminose indicate nelle direttive di cui al comma 1”, assistendole “con sanzioni amministrative pecuniarie, di confisca, di pubblicazione della sentenza ed eventualmente anche interdittive”.

2. Lo schema di decreto legislativo, reso pubblico pochi giorni orsono su www.lexambiente.it, deludendo forse coloro che si aspettavano un cambio di paradigma nella tutela penale dell’ambiente, ha compiuto, rispetto all’incriminazione delle persone fisiche, una non scontata scelta di conservazione dell’esistente.

Si prevede infatti l’introduzione, nel codice penale, di due soli nuovi reati (uccisione/possesso di specie animali selvatiche/vegetali protette, art. 727-bis; danneggiamento di habitat, art. 733-bis; cfr. infra, 3 e 3.1.).

A dispetto di molte previsioni, il legislatore delegato non introduce nuove fattispecie di inquinamento con danni rilevanti per le matrici ambientali o causative di decessi o lesioni gravi, o del loro pericolo, sul modello della fattispecie europea delineata nell’art. 3 lett. a) della direttiva[6].

Tale omissione costituisce inadempimento della direttiva?

A mio avviso i fatti di inquinamento qualificato che la direttiva 2008/99/CE impone di incriminare sono bene o male già punibili in base al diritto vivente (avvelenamento delle acque, danneggiamento “idrico”, getto pericolo di cose, disastro ambientale, omicidio o lesioni, eventualmente in concorso con singole fattispecie contravvenzionali “settoriali”), in modo sicuramente più adeguato di quanto non consentirebbe la legge delega n. 96/2010, i cui criteri sanzionatori sono invero… scriteriati: la causazione volontaria di inquinamenti da cui derivino morti o lesioni gravi, o danni rilevanti alle acque, all’aria o al suolo meriterebbe, ex art. 2, una pena massima di tre anni di arresto e/o di 150.000 euro di ammenda.

La scelta della pena, che contrassegna i reati introducibili dal legislatore delegato come contravvenzioni, comporta poi note conseguenze di disciplina processuale (precludendo intercettazioni) e sostanziali (prescrizione più breve, oblazione salvo pena congiunta dell’arresto e dell’ammenda), che contribuiscono alla loro mancata applicazione o alla loro scarsa afflittività in concreto.

Insomma, il difetto sta nel manico: la legge delega, probabilmente per pigrizia, ripetendo stanche formulette di rito[7] (tipiche delle c.d. leggi comunitaria), ha previsto cornici edittali inidonee a garantire la ratio stessa della direttiva 2008/99, che, piaccia o meno, muove dall’esigenza di sanzioni più severe, segnatamente penali, tese a soddisfare i canoni dell’adeguatezza, della proporzione e della dissuasività.

E’ vero che tali canoni non sono quantificati nell’atto comunitario, ma è altrettanto vero che, quanto meno a livello orientativo[8], possono prendersi le cornici edittali contenute nella proposta di direttiva COM/2007/51, la quale conteneva tre livelli sanzionatori, riferiti alla pena edittale massima (da 1 a 3, da 2 a 5 e da 5 a 10 anni di reclusione) per fatti analoghi a quelli indicati nella direttiva infine adottata[9].

Del pari, la tipologia e il quantum di pena previsti nella legge delega non armonizzano affatto con le sanzioni penali oggi previste per reati comparabili (delitti contro l’incolumità e la salute pubblica, puniti con pene medio-alte nella scala sanzionatoria del codice).

Un recepimento più puntuale della direttiva avrebbe dunque comportato, paradossalmente, a causa della legge delega, una sua sicura violazione dal punto di vista dell’effettività della tutela, sub specie adeguatezza sanzionatoria.

Bastino due esempi.

L’imprenditore che gestisce una discarica abusiva di rifiuti pericolosi, cagionando un disastro ambientale, risponde fino ad oggi della contravvenzione di cui all’art. 256, co. 3 D.lgs. n. 152/2006 (arresto da uno a tre anni e ammenda da 5.200 a 52.000 euro) in concorso con la fattispecie delittuosa di disastro innominato (art. 449 c.p., pena della reclusione da uno a  cinque anni); un domani, dando attuazione “letterale” alla direttiva, e rispettando la legge delega n. 96/2010, risponderebbe di un unico reato di inquinamento qualificato (figura complessa), punibile al massimo con tre anni di arresto e/o ammenda fino a 150.000 euro.

Ancora più marcata la differenza di pena per gli (improbabili) reati dolosi.

L’imprenditore che volontariamente inquinasse acque, causando la morte di alcune persone, verrebbe punito oggi con l’ergastolo (art. 439 co. 2 c.p.), un domani, prescrizione permettendo, con l’anzidetta fattispecie… contravvenzionale.

Bene ha fatto dunque il legislatore delegato a non introdurre nuovi reati di inquinamento qualificato[10], condannati dalle cornici edittali della legge delega a sicura ineffettività e al certo indebolimento della già fragile attuale tutela penale dell’ambiente.

D’altra parte occorre ricordare che la direttiva 2008/99/CE rappresenta il minimum standard di tutela penale imposto da Bruxelles (cfr. Considerando n. 12).

L’odierna disciplina penale ambientale italiana rappresenta per altri versi un – peraltro problematico - maximum standard, sia rispetto al grado di anticipazione della tutela (pericolo astratto vs pericolo concreto/danno), sia rispetto all’imputazione soggettiva (colpa tout court vs. dolo o colpa grave previsti nella direttiva).

Tuttavia, la scelta conservatrice legittimamente compiuta dal nostro legislatore delegato rispetto alla responsabilità delle persone fisiche, circoscritta di regola a reati di pericolo astratto puniti blandamente (id est in modo proporzionato alla relativa distanza dall’offesa in concreto o dal danno), si è risolta, forse all’insaputa dello stesso legislatore nostrano, in una scelta potenzialmente “rivoluzionaria” rispetto alla responsabilità da reato degli enti.

Come vedremo oltre (cfr. infra, 4), infatti, la responsabilità degli enti scatta in presenza di reati di pericolo astratto, spesso costituiti da violazioni formali, con due differenze di disciplina fondamentali:

a) gli illeciti amministrativi degli enti, a differenza dei reati presupposto, non sono oblabili (art. 8 lett. b) D.lgs. n. 231/2001) e sono sottoposti a più lunghi termini di prescrizione (art. 22 D.lgs. n. 231/2001, il quale adotta una disciplina “civilistica” degli atti interruttivi);

b) le sanzioni amministrative pecuniarie previste per gli enti (di regola da 100 a 250 quote, ovvero da un minimo di 25.800 ad un massimo di 387.250 euro) sono decisamente più onerose delle ammende previste per gli autori dei reati presupposto.

Breve: carota per gli autori di reati ambientali, ma bastone per gli enti nel cui interesse o a vantaggio dei quali siano realizzati.

 

3. Due le fattispecie di nuovo conio.

All’art. 727-bis del codice penale viene introdotta la contravvenzione di “Uccisione, distruzione, cattura, prelievo o possesso di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette”), punita, “se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto da uno a sei mesi o con l’ammenda fino a 4.000 euro”: come dire che l’uccisione di un’aquila o di un orso sarebbe oblabile con la modica somma di 2.000 euro.

L’art. 733-bis, co. 2 c.p., precisa che “ai fini dell’applicazione dell’articolo 727-bis c.p. per specie animali o vegetali protette si intendono quelle indicate nell’allegato IV della direttiva 92/43/CE e nell’allegato I della direttiva 2009/147/CE”.

La clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisce un più grave reato”, fortunatamente, rende inapplicabile la fattispecie in esame a favore di altre punite più severamente: in primo luogo, dall’art. 544-bis c.p., che punisce l’uccisione di qualsiasi animale, dunque anche selvatico e protetto; in secondo luogo, da talune fattispecie venatorie (es. art. 30, co. 1 lett. b), c) ed l) l.  n. 157/1992), che incriminano l’abbattimento, la detenzione, la cattura di mammiferi o uccelli protetti, o di particolari animali (orso, stambecco, camoscio d’Abruzzo, muflone sardo), così come il loro commercio o la loro detenzione a fine di commercio.

Profili di interferenza si pongono anche con la legge 150/1992 sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione, la quale prevede pene più severe di quelle previste dall’introducendo art. 727-bis.

Tale ultima fattispecie sembra dunque destinata a soccombere a vantaggio di altre più severamente sanzionate, quanto meno in relazione alle condotte offensive di specie animali selvatiche protette, finendo con il trovare più verosimile applicazione rispetto alle condotte aventi ad oggetto specie vegetali protette al fuori dei casi sanzionati dalla l. 150/1992.

Si noti come il nuovo reato non rappresenti il calco perfetto della fattispecie europea, che fa salvi “i casi in cui l’azione riguardi una quantità trascurabile di tali esemplari e abbia un impatto trascurabile sullo stato di conservazione della specie”.

Il legislatore nostrano ha dunque escluso dal tipo qualunque cenno alla offensività in concreto per la specie, incentrando la tutela sul singolo esemplare animale o vegetale appartenete alla specie protetta.

Scelta legittima, ancora una volta integrante un maximum standard rispetto allo standard minimo europeo.

 

3.1. Lo schema di decreto legislativo prevede l’introduzione, all’art. 733-bis c.p., del reato di danneggiamento di habitat.

La collocazione nel titolo II del libro III del codice penale, dedicato alle “contravvenzioni concernenti l’attività sociale della pubblica amministrazione” non appare delle più felici.

Non si punisce infatti una violazione formale, né si tutelano le funzioni di pianificazione e controllo della pubblica amministrazione; al contrario si introduce un reato di danno avente un oggetto materiale di tutela particolarmente delicato (l’habitat all’interno di un sito protetto).

Volendo inserire la fattispecie menzionata nel codice penale, e non volendo inserirla in un nuovo titolo dedicato ai reati ambientali, la collocazione forse più idonea sarebbe stata in calce ad uno dei tanti reati di danneggiamento gemmati sul tronco dell’art. 635 c.p.

Al secondo comma dell’art. 733-bis c.p. si definisce “habitat all’interno di un sito protetto” “qualsiasi habitat di specie per le quali una zona sia classificata come zona a tutela speciale a norma dell’art. 4, paragrafi 1 o 2 della direttiva 79/409/CE, o qualsiasi habitat naturale o un habitat di specie per cui un sito sia designato come zona speciale di conservazione a norma dell’articolo 4, paragrafo 4, della direttiva 92/43/CE”.

Il concetto di habitat ha doppia natura: per così dire normativa in relazione alle due direttive comunitarie citate; “naturalistica” rispetto alla formula “qualsiasi habitat naturale”, che parrebbe rimandare alla valutazione in concreto del giudice, anche a prescindere da atti amministrativi o definizioni/classificazioni legislative.

Il reato di danneggiamento di habitat sembra poter concorrere con quello di distruzione o deturpamento di bellezze naturali (art. 734 c.p.), avente diverso bene tutelato: quest’ultimo protegge le bellezze naturali dal punto di vista estetico dell’uomo, e non gli habitat naturali intesi come luoghi in sé (o per le specie che vi dimorano) meritevoli di tutela.

La fattispecie abbraccia sia le condotte di distruzione (per es. di un bosco, di una palude), sia di deterioramento: in quest’ultimo caso occorre che la condotta produca un significativo depauperamento dell’habitat.

Il concetto sembra da intendersi in senso funzionale più che quantitativo: occorre valutare l’incidenza del deterioramento sulla funzione ecologica rappresentata dall’habitat in questione.

A titolo esemplificativo potrà dirsi significativo il deterioramento di un bosco ove nidificano uccelli appartenenti a specie protette laddove l’abbattimento di molti ma non di tutti gli alberi comporti il venir meno anche solo parziale di quel sito come luogo di sosta e di riproduzione della specie.

La nuova fattispecie interferisce con le fattispecie penali previste dall’art. 30 della legge n. 394/1991 (legge quadro sulle aree protette), poste a tutela dei parchi nazionali, delle riserve naturali, sia nazionali che regionali, delle aree marine protette e, secondo la giurisprudenza, anche delle zone umide, delle zone di protezione speciale, delle zone speciali di conservazione e delle altre aree naturali protette”[11].

L’art. 30 l. 394/1991, al co. 1, prevede la sanzione penale dell’arresto fino a dodici mesi e dell’ammenda da 103 a 25.822 euro per le violazioni delle misure di salvaguardia e del preventivo rilascio del nulla osta per la realizzazione di interventi nelle aree protette; al co. 2 prevede la sanzione dell’arresto fino a sei mesi o dell’ammenda da 103 a 12.911 euro per la violazione del divieto a svolgere determinate attività potenzialmente offensive del patrimonio protetto.

Tali fattispecie soccombono rispetto al nuovo reato di cui all’art. 727-ter c.p., il quale costituisce figura speciale, riferita a fatti dannosi e più specifici (distruzione e deterioramento significativo) rispetto a violazioni più generiche (delle misure di salvaguardia ecc.), attestanti pericoli.

Anche dal punto di vista sanzionatorio la nuova fattispecie codicistica è punita più severamente rispetto alle fattispecie dell’art. 30 l. 394/1991.

Ambedue i nuovi reati in commento rientrano nel catalogo dei reati per i quali è prevista la responsabilità amministrativa degli enti (art. 2, co. 1 schema decreto legislativo; sulla responsabilità da reato degli enti cfr. infra, 4).

4. Lo schema di decreto legislativo prevede l’introduzione della responsabilità degli enti per taluni reati ambientali commessi a loro vantaggio o interesse[12].

Si è così “ripresa” una disposizione, contenuta ormai undici anni fa nella legge delega (n. 300/2000) al d.lgs. n. 231/2001.

Più precisamente, la legge delega n. 96/2010, all’art. 19, co. 2 lett. a), ha delegato il Governo ad introdurre tra i reati di cui alla sezione III del capo I del d.lgs. n. 231/2001 “le fattispecie criminose indicate nelle direttive di cui al comma 1”.

Il rinvio alle fattispecie contenute nelle direttive non è dei più felici, posto che parallelamente la legge delega non prevede espressamente l’introduzione di tali reati come reati presupposto destinati alle persone fisiche ; prima dell’emanazione dello schema di decreto legislativo si dibatteva, in dottrina, circa il significato da attribuire al rinvio alle fattispecie indicate nelle direttive.

Si ipotizzava un rinvio implicito a reati presupposto da inserire ex novo sul modello delle fattispecie descritte nelle direttive[13]; oppure si immaginava che taluni reati già esistenti nel nostro ordinamento fossero sufficienti ad integrare il minimum standard preteso dal legislatore europeo[14].

Il legislatore delegato, “in bozza”, sembra avere optato in larga parte per la seconda soluzione, richiamando numerosi reati già contenuti nel d.lgs. n. 152/2006[15] (reati in materia di autorizzazione integrata ambientale; inquinamento idrico, inquinamento atmosferico, gestione abusiva di rifiuti, omessa bonifica, spedizione illecita di rifiuti, attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, commercio di specie animali e vegetali protette e correlati reati di falso; reati in materia di ozono; inquinamento da navi), aggiungendovi solo i due nuovi reati codicistici  sopra esaminati;

4.1. L’assenza nella legge delega di qualsiasi riferimento espresso all’introduzione, a monte della responsabilità degli enti, dei correlati reati presupposto, lascia il dubbio circa un eccesso di delega laddove lo schema di decreto legislativo, anziché richiamare i reati di danno e di pericolo concreto indicati nella direttiva 2008/99/CE all’art. 3 lett. a), o gli equivalenti reati già presenti nel nostro ordinamento, ha viceversa ritenuto di menzionare i citati reati di pericolo astratto (art. 137, 256, 279 d.lgs. n. 152/2006 ecc.), di diverso contenuto.

A nostro parere non vi è eccesso di delega.

In base alle citate direttive[16], costituenti esse stesse criteri direttivi per il legislatore delegato (art. 2 legge delega n. 96/2010), i legislatori nazionali ben possono adottare standard di tutela più rigorosi di quelli contenuti in atti comunitari.

Inoltre l’art. 19 delegava il Governo ad adottare “uno o più decreti legislativi al fine di recepire le disposizioni” delle due direttive, lasciando ampia discrezionalità circa i modi dell’adempimento alla delega.

Se è vero, come sopra sostenuto, che la direttiva non obbliga all’introduzione di nuovi reati, laddove gli Stati membri prevedano già fattispecie di maggior tutela, il richiamo, da parte della legge delega, alle direttive e a tutte le disposizioni necessarie al loro recepimento consente al Governo di non introdurre nuovi reati presupposto e di rinviare, per la responsabilità degli enti, a reati già inseriti nel nostro ordinamento penale[17].

Altro profilo di eventuale eccesso di delega investe l’art. 2, co. 3 lett. c) dello schema di decreto legislativo, il quale prevede a carico degli enti sanzioni pecuniarie variamente commisurate alle cornici edittali dei delitti di falso contenuti nel codice penale cui rinvia l’art. 3-bis della l. 150/1992 in materia di specie protette.

Tale articolo prevede che “alle fattispecie previste dall’articolo 16, paragrafo 1, lettere a), c), d) ed l) del regolamento (CE) n. 338/97…in materia di falsificazione o alterazione di certificati, licenze, notifiche di importazioni, dichiarazioni, comunicazioni” ecc. “si applicano le pene di cui al libro II, titolo VII, capo III del codice penale”.

I reati di falso non sono indicati nell’art. 3 della direttiva 2008/99/CE cui rinvia la legge delega, e a rigore non sono neppure reati contro l’ambiente, bensì reati contro la fede pubblica, per quanto strumentali alla tutela dell’ambiente.

L’unico vago appiglio potrebbe forse trovarsi nell’art. 2, lett. g) della legge delega n. 96/2010, secondo il quale “nella predisposizione dei decreti legislativi…si tiene conto delle esigenze di coordinamento tra le norme previste nelle direttive medesime e quanto stabilito dalla legislazione vigente”.

Siamo peraltro ben lontani da un canone accettabile di chiarezza e sufficiente determinatezza dei criteri e principi direttivi della delega.

4.2. L’estensione ai reati ambientali della responsabilità da reato degli enti va salutata con favore, posto che la gran parte di essi – e in ogni caso i più gravi – sono normalmente commessi nell’ambito di attività imprenditoriali.

È verosimile che la futura introduzione delle responsabilità da reato ambientale (dunque di regola contravvenzionale e colposo [18]) degli enti solleverà dubbi in relazione al criterio di imputazione dell’interesse o vantaggio, come già accaduto rispetto ai reati di lesioni gravi e omicidio colposi da violazione delle norme antinfortunistiche.

Le perplessità di parte della dottrina espresse in relazione a reati colposi di evento (lesioni e omicidi colposi) non dovrebbero valere per i reati ambientali, di regola strutturati come reati di condotta senza evento naturalistico.

In ogni caso, analogamente a quanto stabilito dalla giurisprudenza in quei casi [19], il requisito dell’interesse o vantaggio ben può essere riferito anche ai reati ambientali, in relazione a eventuali risparmi conseguenti a smaltimenti/sversamenti/emissioni illeciti, all’assenza o inadeguatezza tecnologica di impianti di depurazione/immissione (interesse pari ai costi di adeguamento), all’assenza dei costi “burocratici” legati agli iter di autorizzazione delle varie attività (interesse pari ai costi dei provvedimenti amministrativi e delle sottese attività di consulenza, ecc., e, soprattutto, pari al tempo guadagnato per l’apertura anticipata della attività produttiva) sempre che l’interesse o il vantaggio siano valutabili nell’interesse esclusivo o almeno parziale dell’ente (anche nei casi cioè di concorrente vantaggio per l’autore materiale o per terzi) e, inoltre, salvo che l’ente provi le circostanze di cui all’art. 6, d.lgs. n. 231/2001 (previa adozione di un modello di organizzazione e gestione idoneo, ecc.).

La futura responsabilizzazione degli enti dovrebbe al contempo consentire una valutazione processuale più “serena” dei reati ambientali presupposti alle persone fisiche, soprattutto in relazione al principio di colpevolezza.

Il livello sanzionatorio sembra fin troppo severo rispetto a talune almeno delle fattispecie richiamate, le quali non di rado puniscono violazioni formali, non sempre particolarmente significative in termini di offensività per il bene tutelato: si pensi all’inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni alla gestione dei rifiuti (art. 256, co. 4 d. lgs. n. 152/2006), che a seconda della tipologia di violazione (in riferimento rispettivamente ai co. 1 e 3 dell’art. 256) comportano sanzioni amministrative pecuniarie fino a 150 quote, ovvero fino ad un massimo di 232.350 euro, salvo attenuanti.

Dal punto di vista pratico la nuova disciplina della responsabilità degli enti e lo “spauracchio” delle citate dure sanzioni pecuniarie (nonché interdittive, spinte in un caso fino alla interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività[20]) spingerà le aziende all’adozione di modelli organizzativi[21] idoneia prevenire i reati ambientali.

Si noti che manca nella disposizione in commento una norma analoga all’art. 30 del d.lgs. n. 81/2008, la quale cioè indichi linee guida cui uniformare i modelli di organizzazione aziendale ai fini della loro presunta idoneità a prevenire reati.

 

5. Il contenuto della legge delega, a dir poco essenziale e criptico, sollecita qualche riflessione più generale sul principio di legalità al tempo dell’integrazione europea.

Come visto, l’unica indicazione espressa ed analitica rivolta dal delegante al legislatore delegato riguarda l’introduzione della responsabilità degli enti da reati ambientali, individuati per relationem con quelli menzionati nelle direttive da recepire (art. 19 l. 96/2010).

Per il resto, con una formula tanto abituale quanto “sconvolgente” i tradizionali canoni della riserva di legge in senso sostanziale, le direttive richiamate costituiscono esse stesse espressi principi e criteri direttivi per il legislatore delegato (art. 2 l. delega n. 96/2010).

La tecnica normativa in esame, per quanto discutibile, è stata da tempo avallata dalla Corte costituzionale proprio in relazione alle leggi c.d. comunitarie: tra i criteri e principi direttivi delle leggi delega vanno annoverati anche le disposizioni comunitarie cui le leggi delega rinviano per relationem[22].

Nelle ipotesi in esame, peraltro, le disposizioni di natura penale (art. 3 direttiva 2008/99, art. 4 e 5 Direttiva 2009/123) non hanno propriamente struttura di principi e criteri direttivi, bensì, in larga misura, di vere e proprie norme di dettaglio.

Anche sotto questo profilo, tuttavia, va ricordato che la Corte costituzionale ha tradizionalmente salvato le leggi delega contenenti limiti “posti con molto rigore”[23].

In sintesi, alla luce della giurisprudenza costituzionale, è plausibile ipotizzare che il rinvio per relationem alle direttive verrà “salvato”, anche rispetto a disposizioni analitiche.

Cosa rimane del potere di incriminazione un tempo gelosa prerogativa degli Stati nazionali e connotato tipico della sovranità?

Stando alle direttive in materia ambientale ben poco: la scelta, all’interno dello strumento penale imposto, del tipo e del quantum di pena, purché idoneo a garantire lo standard della proporzione, efficacia e dissuasività.

Il margine di manovra rimesso ai legislatori nazionali è fortemente ridimensionato: non resta loro che verificare l’esistenza nel proprio ordinamento di norme costituenti standard più rigorosi di tutela; declinare le formule “quantità non trascurabili di rifiuti”, o “danno rilevante alla qualità dell’aria, delle acque e del suolo”, secondo uno schema di specificazione più o meno tecnica tipico del rapporto legge delega/delega legislativa, per una volta però a maglie strette.

Insomma, la scelta sul se e sul come punire spetta all’Unione europea; agli Stati membri rimane per ora la decisione sul quantum e su alcuni aspetti di dettaglio.

Si tratta di un epilogo inevitabile: gli Stati membri (almeno quelli aderenti all’euro) hanno perso la moneta e le politiche monetarie; le cronache di oggi ci dicono che gli Stati, di fatto, hanno perso vera autonomia nel decidere se e a chi fare la guerra (o la pace “assistita”).

Non è pensabile, e forse neppure auspicabile, che con la rimodulazione delle sovranità nazionali non si ridimensioni anche la potestà incriminatrice[24].

La battaglia sulla tenuta del principio di legalità va dunque combattuta, oggi e ancor di più in prospettiva, a livello europeo.

Sul punto è nota l’obiezione circa il deficit di rappresentatività democratica tipico del law making europeo, sbilanciato su organi di tenore esecutivo (Commissione e Consiglio).

L’obiezione, almeno in parte superata dai nuovi meccanismi legislativi contenuti nel Trattato di Lisbona, i quali implicano maggiore coinvolgimento del Parlamento europeo, non sembra insuperabile rispetto alla direttiva 2008/99/CE, adottata a seguito di procedimenti di codecisione, con l’apporto sostanziale del Parlamento europeo, al pari della Commissione, titolare della proposta di direttiva, e del Consiglio.

In particolare, il testo definitivo della direttiva 2008/99/CE è stato adottato a seguito di un accordo di compromesso tra Commissione, Consiglio e Parlamento europeo, dopo che quest’ultimo aveva proposto una serie di emendamenti al testo proposto dalla Commissione[25], emendamenti confluiti in misura significativa nel testo finale[26], identico a quello approvato dal Parlamento europeo il 21 maggio 2008[27].

Paradossalmente, la partecipazione del Parlamento europeo alla stesura della direttiva e la sua analiticità, con conseguente esiguo margine di apprezzamento per il legislatore delegato[28] esprimono la forza delle assemblee parlamentari a scapito, per una volta degli esecutivi (comunitari e nazionali).

L’osservatore malizioso, consapevole della scarsa abilità tecnica dimostrata dal legislatore penale italiano, specie ambientale, e magari critico su talune scelte politico-criminali nostrane, potrebbe per certi versi plaudire allo spostamento della effettiva voluntas legis da Roma a Bruxelles.

Tuttavia, non va nascosto un rischio, evidente nella direttiva 2008/99/CE: il legislatore europeo sembra dare per scontato che l’innalzamento della tutela dell’ambiente dipenda solo dall’introduzione o dall’inasprimento delle sanzioni penali, al di fuori di una visione più complessa e integrata, che in un’ottica di sussidiarietà utilizzi l’arma penale con parsimonia, laddove altri strumenti meno invasivi non sembrino garantire analoghi risultati[29].

Insomma: cambia il decisore, ma i problemi di politica criminale e di tecnica di costruzione delle fattispecie restano sempre uguali e di difficile soluzione.

In particolare, la scelta conservatrice del legislatore delegato non ha sciolto il grande tema di fondo (re)suscitato dalle direttive in commento: è davvero opportuno introdurre reati di inquinamento strutturati nella forma di reati di danno o pericolo concreto?

Tali futuribili reati supererebbero il test giudiziario della prova rigorosa del nesso di causalità tra la condotta oggetto di imputazione e l’evento (di pericolo o danno) rispetto alla salute pubblica e/o ad un bene (l’ambiente) rispetto al quale è di regola arduo provare il nesso di offesa con singole condotte isolate da altre analoghe, antecedenti e successive?

Forse, ad evitare prove diaboliche, sarebbe più opportuno pensare ad una disciplina amministrativa per violazioni formali o comunque di scarso impatto ambientale (esercizio di attività non autorizzate e superamento di valori-soglia rispetto a sostanze non pericolose), lasciando al diritto penale fattispecie via via più pregnanti in termini di offesa: contravvenzionali per l’esercizio di attività e superamento di valori soglia concernenti sostanze pericolose fissati in modo prudenziale; delittuose rispetto a superamenti significativi dei valori fissati in via cautelativa per gli effetti nocivi sulla salute dell’uomo o sull’equilibrio delle matrici ambientali (per esempio nell’ordine di 3, 5 o 10 volte superiori).

Si tratterebbe, in altre parole, di immaginare una tutela progressiva, che parta dalle violazioni formali, appannaggio dell’illecito amministrativo, a quelle potenzialmente pericolose, riservate all’illecito contravvenzionale, fino a fattispecie di pericolo qualificato (dalla vicinanza con reali pericoli per la salute o l’ambiente, calcolati sulla base di conoscenze scientifiche adeguate e aggiornate) dallo “sforamento” significativo rispetto a valori soglia pensati sulla tutela prudenziale dell’uomo e dell’ambiente.

Carlo Ruga Riva

Professore associato di diritto penale e diritto penale dell’ambiente, Università degli Studi di Milano-Bicocca

 

 

 


[1] Direttiva 2008/99/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 sulla tutela penale dell’ambiente.

[2] La scelta di politica criminale del legislatore comunitario è seguita alla notissima sentenza del 13 settembre 2005 con la quale la CGCE, in C-176/03, ha riconosciuto alla Comunità il potere di adottare direttive contenenti obblighi di incriminazione, allo scopo di rendere effettiva la tutela delle materie di primo pilastro, tra le quali l’ambiente.

Va sottolineato come la diatriba tra Commissione e Consiglio risolta dalla CGCE non vertesse sulla sussistenza del potere di emanare atti comunitari contenenti pretese di incriminazione, potere rivendicato da entrambi gli organi, bensì sulla base giuridica (I o III pilastro) e sui relativi strumenti normativi (direttiva vs. decisione quadro) idonei allo scopo.

[3] Direttiva 2009/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 ottobre 2009 sull’inquinamento provocato dalle navi.

[4] Art. 3 direttiva 2088/99/CE (Infrazioni): “Ciascun Stato membro si impegna affinché le seguenti attività, qualora siano illecite e poste in essere intenzionalmente o quanto meno per grave negligenza, costituiscano reato:

 

a) lo scarico, l’emissione o immissione illeciti di un quantitativo di sostanze o radiazioni ionizzanti nell’aria, nel suolo o nelle acque che provochino o possano provocare il decesso o lesioni gravi alle persone o danni rilevanti alla qualità dell’aria, alla qualità del suolo o alla qualità delle acque, ovvero alla fauna o alla flora;

 

b) la raccolta, il trasporto, il recupero o lo smaltimento di rifiuti, comprese la sorveglianza di tali operazioni e il controllo dei siti di smaltimento successivo alla loro chiusura nonché l’attività effettuata in quanto commerciante o intermediario

(gestione dei rifiuti), che provochi o possa provocare il decesso o lesioni gravi alle persone o danni rilevanti alla qualità dell’aria, alla qualità del suolo o alla qualità delle acque, ovvero alla fauna o alla flora;

 

c) la spedizione di rifiuti, qualora tale attività rientri nell’ambito dell’articolo 2, paragrafo 335, del regolamento (CE) n. 1013/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2006, relativo alle spedizioni di rifiuti (1), e sia effettuata in quantità non trascurabile in un’unica spedizione o in più spedizioni che risultino fra di loro connesse;

 

d) l’esercizio di un impianto in cui sono svolte attività pericolose o nelle quali siano depositate o utilizzate sostanze o preparazioni pericolose che provochi o possa provocare, all’esterno dell’impianto, il decesso o lesioni gravi alle persone

o danni rilevanti alla qualità dell’aria, alla qualità del suolo o alla qualità delle acque, ovvero alla fauna o alla flora;

 

e) la produzione, la lavorazione, il trattamento, l’uso, la conservazione,

il deposito, il trasporto, l’importazione, l’esportazione e lo smaltimento di materiali nucleari o di altre sostanze radioattive pericolose che provochino o possano provocare il decesso o lesioni gravi alle persone o danni rilevanti alla qualità dell’aria, alla qualità del suolo o alla qualità delle acque, ovvero alla fauna o alla flora;

 

f) l’uccisione, la distruzione, il possesso o il prelievo di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette, salvo i casi in cui l’azione riguardi una quantità trascurabile di tali esemplari e abbia un impatto trascurabile sullo stato di conservazione della specie;

 

g) il commercio di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette o di parti di esse o di prodotti derivati, salvo i casi in cui l’azione riguardi una quantità trascurabile di tali esemplari e abbia un impatto trascurabile sullo stato di conservazione della specie;

 

h) qualsiasi azione che provochi il significativo deterioramento di un habitat all’interno di un sito protetto;

 

i) la produzione, l’importazione, l’esportazione, l’immissione sul mercato o l’uso di sostanze che riducono lo strato di ozono”.

[5] M. BENOZZO, La direttiva sulla tutela penale dell’ambiente tra intenzionalità, grave negligenza e responsabilità delle persone giuridiche, in Dir. e giur. agr., alim. e dell’ambiente, 2009, n. 5, p. 301; G.M. VAGLIASINDI, La direttiva 2008/99 CE e il Trattato di Lisbona: verso un nuovo volto del diritto penale ambientale italiano, Dir. comm. intern., 2010, 458 ss.; C. PAONESSA, Gli obblighi di tutela penale, Pisa, 2009, 232 s.; L. SIRACUSA, L’attuazione della direttiva sulla tutela dell’ambiente tramite il diritto penale, in www.penalecontemporaneo.it, 2; A.L. VERGINE, Nuovi orizzonti del diritto penale ambientale, in Ambiente@Sviluppo, 2009, n., 1. 10; contra, per la tesi della sufficienza, quanto a struttura delle fattispecie, dell’esistente modello italiano di tutela penale dell’ambiente rispetto allo standard minimo preteso dalla direttiva 2008/99, sia consentito rinviare a C. RUGA RIVA, Diritto penale dell’ambiente, Torino, 2011, 66 s. Nello stesso senso, sembra non ritenere necessaria, alla luce dell’art. 3, lett. a) della direttiva 2008/99/CE l’introduzione di reati di danno o pericolo concreto E. LO MONTE, La direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente: una (a dir poco) problematica attuazione, in Dir. e giur. agr., alim. e dell’ambiente, 2009, 236.

[6] Per le altre fattispecie elencate nell’art. 3 della direttiva 2088/99/CE la scelta di ritenere adeguate, sul piano strutturale, fattispecie già esistenti, era più prevedibile: cfr., all’indomani della pubblicazione della direttiva, l’accurata analisi di E. LO MONTE, La direttiva 2008/99/CE, citò., 231 ss.

[7] Cfr. A.L. VERGINE, Rossi di vergogna, anzi paonazzi…leggendo la legge comunitaria 2009, in Ambiente @ Sviluppo, 2011, 131.

[8] G. M. VAGLIASINDI, La direttiva 2008/99/CE, cit., 473.

[9] Analoghe cornici edittali erano previste dalla decisione quadro 2005/667/GAI sull’inquinamento da navi, censurata dalla CGCE con sentenza del 23 ottobre 2007 in Causa C-440/05, il cui contenuto è in larga parte confluito nella direttiva  2009/35/CE.

[10] Bene rispetto alle conseguenze sanzionatorie imposte dalla legge delega; rimane aperta la discussione sull’opportunità di introdurre apposite nuove fattispecie di inquinamento qualificato, adeguatamente punite, descritte in modo sufficientemente preciso e, capaci di superare la difficile prova del nesso causale tra condotta ed evento (di danno o pericolo concreto).

[11] Cass. pen. sez. III, 7.10.2003, Natale, in F.it., 2004, II, 212

[12] L’art. 2 dello schema di decreto legislativo introdurrebbe nel corpo del d.lgs. n. 321/2000 l’art. 25-decies, rubricato “Reati ambientali”):

In relazione alla commissione dei reati previsti dal codice penale, si applicano le seguenti sanzioni pecuniarie:

a) per la violazione dell’articolo 727-bis la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;

b) per la violazione dell'articolo 733-bis la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote.

2. In relazione alla commissione dei reati previsti dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:

a) per i reati di cui all’articolo 29-quattuordecies, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;

b) per i reati di cui all’articolo 137:

1) per la violazione dei commi 1, 7, prima ipotesi, 9, 12 e 14, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;

2) per la violazione dei commi 3, 4, 5, primo periodo, 7, seconda ipotesi, 8 e 13, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;

3) per la violazione dei commi 2, 5, secondo periodo, e 11, la sanzione pecuniaria da duecento a trecento quote.

c) per i reati di cui all’articolo 256:

1) per la violazione dei commi 1, lettera a), e 6, primo periodo, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;

2) per la violazione dei commi 1, lettera b), 3, primo periodo e 5, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;

3) per la violazione del comma 3, secondo periodo, la sanzione pecuniaria da duecento a trecento quote.

d) per i reati di cui all’articolo 257:

1) per la violazione del comma 1, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;

2) per la violazione del comma 2, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote.

e) per la violazione dell’articolo 258, comma 4, secondo periodo, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;

f) per la violazione dell’articolo 259, primo comma, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;

g) per il delitto di cui all’articolo 260, la sanzione pecuniaria da trecento a cinquecento quote, nel caso previsto dal comma 1 e da quattrocento a ottocento quote nel caso previsto dal comma 2;

h) per la violazione dell’articolo 260-bis, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote nel caso previsto dai commi 6, 7, secondo e terzo periodo, e 8, primo periodo, e la sanzione pecuniaria da duecento a trecento quote nel caso previsto dal comma 8, secondo periodo;

i) per la violazione dell’articolo 279, ad eccezione dell’ultima ipotesi del comma 1, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote.

3. In relazione alla commissione dei reati previsti dalla legge 7 febbraio 1992, n. 150, si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:

a) per la violazione dell’articolo 1, comma 1, 2, commi 1 e 2, e 6, comma 4, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;

b) per la violazione dell’articolo 1, comma 2, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;

c) per i reati del codice penale richiamati dall’articolo 3-bis, comma 1, rispettivamente:

1) la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote, in caso di commissione di reati per cui è prevista la pena non superiore nel massimo ad un anno di reclusione;

2) la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote, in caso di commissione di reati per cui è prevista la pena non superiore nel massimo a due anni di reclusione;

3) la sanzione pecuniaria da duecento a trecento quote, in caso di commissione di reati per cui è prevista la pena non superiore nel massimo a tre anni di reclusione;

4) la sanzione pecuniaria da trecento a cinquecento quote, in caso di commissione di reati per cui è prevista la pena superiore nel massimo a tre anni di reclusione.

4. In relazione alla commissione dei reati previsti dall’articolo 3, comma 6, della legge 28 dicembre 1993, n. 549, si applica all'ente la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote.

5. In relazione alla commissione dei reati previsti dal decreto legislativo 6 novembre 2007, n. 202, si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:

a) per il reato di cui all’articolo 9, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;

b) per i reati di cui agli articoli 8, comma 1, e 9, comma 2, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;

c) per il reato di cui all’articolo 8, comma 2, la sanzione pecuniaria da duecento a trecento quote.

6. Le sanzioni previste dal comma 2, lettera c), sono ridotte della metà nel caso di commissione del reato previsto dall’articolo 256, comma 4, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.

7. Nei casi di condanna per i delitti indicati al comma 2, lettera b), n. 3), lettera c), n. 3), lettera g), e al comma 5, lettere b) e c), si applicano le sanzioni interdittive previste dall'articolo 9 comma 2 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, per una durata non superiore a sei mesi.

8. Se l'ente o una sua unità organizzativa vengono stabilmente utilizzati allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione dei reati di cui all’articolo 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e all’articolo 8 del decreto legislativo 6 novembre 2007, n. 202, si applica la sanzione dell'interdizione definitiva dall'esercizio dell'attività ai sensi dell'articolo 16, comma 3, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231.».

 

[13] Pur criticamente, A.L. VERGINE, Rossi di vergogna, cit., 130 s.

[14] Sia consentito rinviare a C. RUGA RIVA, Diritto penale dell’ambiente, Torino, 2011, 68, pur sottolineando il carattere problematico del rinvio “implicito”.

[15] Art. 25-decies (Reati ambientali)

2. In relazione alla commissione dei reati previsti dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:

a) per i reati di cui all’articolo 29-quattuordecies, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;

b) per i reati di cui all’articolo 137:

1) per la violazione dei commi 1, 7, prima ipotesi, 9, 12 e 14, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;

2) per la violazione dei commi 3, 4, 5, primo periodo, 7, seconda ipotesi, 8 e 13, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;

3) per la violazione dei commi 2, 5, secondo periodo, e 11, la sanzione pecuniaria da duecento a trecento quote.

c) per i reati di cui all’articolo 256:

1) per la violazione dei commi 1, lettera a), e 6, primo periodo, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;

2) per la violazione dei commi 1, lettera b), 3, primo periodo e 5, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;

3) per la violazione del comma 3, secondo periodo, la sanzione pecuniaria da duecento a trecento quote.

d) per i reati di cui all’articolo 257:

1) per la violazione del comma 1, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote;

2) per la violazione del comma 2, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote.

e) per la violazione dell’articolo 258, comma 4, secondo periodo, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;

f) per la violazione dell’articolo 259, primo comma, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote;

g) per il delitto di cui all’articolo 260, la sanzione pecuniaria da trecento a cinquecento quote, nel caso previsto dal comma 1 e da quattrocento a ottocento quote nel caso previsto dal comma 2;

h) per la violazione dell’articolo 260-bis, la sanzione pecuniaria da centocinquanta a duecentocinquanta quote nel caso previsto dai commi 6, 7, secondo e terzo periodo, e 8, primo periodo, e la sanzione pecuniaria da duecento a trecento quote nel caso previsto dal comma 8,

secondo periodo;

i) per la violazione dell’articolo 279, ad eccezione dell’ultima ipotesi del comma 1, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote”.

[16] Direttiva 2088/)) CE, Considerando 12.  La direttiva 2009/123/ CE non contiene analoga indicazione espressa, peraltro insita nel sistema comunitario.

[17] Sia consentito rinviare a C. RUGA RIVA, Diritto penale dell’ambiente, cit., 68.

[18] Nel nutrito catalogo dei reati ambientali contenuti nell’art. 25-decies del d.lgs. n. 231/2001 vi sono solo due reati dolosi: attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti (art. 260 d.lgs. n. 152/2006); inquinamento doloso da navi (art. 8, d.lgs. n. 202/2007), nonché i delitti di falso richiamati dall’art. 3-bis co. 1 della l. n. 150/1992.

[19] Trib. Trani, sez. distacca di Molfetta, 11 gennaio 2010, Truck Center, in Le Società, n. 9/2010, con nota adesiva di M. Scoletta, cui si rinvia anche per una rassegna critica degli argomenti portati contro l’applicabilità del d.lgs. n. 231/2001 ai reati colposi. Ritiene in particolare che l’interesse o vantaggio in relazione ai reati colposi di evento vada riferito alla condotta inosservante (per es. risparmio sui costi di sicurezza rispetto a omicidi o lesioni da violazione delle norma antinfortunistiche) e non all’evento D. PULITANO’, Diritto penale, III ed., Torino, 2009. 703. Sul punto vedi altresì N. PISANI, Profili penalistici del testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, in Dir. pen. proc., 2008, p. 827 ss.

[20] Art. 2, co. 8 dello schema di decreto legislativo, qualora l’ente o una sua unità organizzativa vengano stabilmente utilizzati allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione dei reati di cui all’art. 260 d.lgs. 152/2006

[21] Per riferimenti v. G. M. VAGLIASINDI, La direttiva 2008/99/CE, cit., 483 s.

[22] Corte cost. n. 49/1999; Corte cost. n. 106/1962; in dottrina v. M. CARTABIA, Principi della delega determinati con rinvio alle norme comunitarie e parametro doppiamente interposto, nota a Corte cost. n. 285/1993, in Giur. cost. 1993, 2044 ss.; R. ZACCARIA-E. ALBANESI, La delega legislativa tra teoria e prassi, in www.giurcost.org/studi/Zaccaria.htm, 6.

[23] Corte cost. n. 106/1962, punto 7 dei “Considerato in diritto”. In dottrina vedi R. ARENA, Il rapporto Parlamento-Governo alla luce delle dinamiche della normazione: la giurisprudenza costituzionale sulla delegazione legislativa, in A. RUGGERI (a cura di), La ridefinizione della forma di governo attraverso al giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006, 107.

[24] Sul tema sia consentito rinviare al volume multidisciplinare Ordinamento penale e fonti non statali. L’impatto dei vincoli internazionali, degli obblighi comunitari e delle leggi regionali sul legislatore e sul giudice penale, a cura di  C. RUGA RIVA, Milano, 2007.

[25] Cfr. il progetto di risoluzione legislativa del parlamento europeo sulla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla tutela penale dell'ambiente, del 5 aprile 2008 (A6-0154/2008).

[26]

[27] Il testo approvato dal Parlamento europeo corrisponde all’atto legislativo finale, come da accordo con il Consiglio: cfr. www. europarl.europa.eu, in relazione alla procedura 2007/0022(COD).

[28] Contra, sottolineano il deficit di determinatezza di numerosi requisiti contenuti nelle fattispecie dell’art. 3 direttiva 2008/99/CE, E. LO MONTE, La direttiva, cit., 232; G. M. VAGLIASINDI, La direttiva, cit., 490.

[29] Sottolinea tale rischio E. LO MONTE, La direttiva, cit., 238, il quale opportunamente mette in guardia dalla “eccessiva stima del legislatore comunitario verso soluzioni di tipo, unicamente, penalistico”.