Rifiuti: i codici a specchio, la Cassazione e le occasioni perdute
di Alberto GALANTI
Con sentenza resa in data 19 ottobre 2019 la Corte di Cassazione (sent. n. 42788, depositata il 21 novembre, Verlezza e altri) si è nuovamente pronunciata sull’annosa questione dei rifiuti con codice speculare.
Con il dovuto rispetto per il supremo consesso, chi si aspettava una parola definitiva da parte della Corte, rimarrà deluso.
Ma andiamo con ordine.
La Corte di Cassazione, investita di un ricorso da parte della Procura della Repubblica di Roma relativo al tema della classificazione dei rifiuti con codici speculari, aveva sollevato, con ordinanza n. 37460, depositata il 27 luglio 2017, questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, affinchè sciogliesse i nodi interpretativi nella complessa tematica.
I quesiti che la Corte aveva sollevato erano i seguenti:
a) Se l'allegato alla Decisione 2014/955/UE ed il Regolamento UE n. 135712014 vadano o meno interpretati, con riferimento alla classificazione dei rifiuti con voci speculari, nel senso che il produttore del rifiuto, quando non ne è nota la composizione, debba procedere alla previa caratterizzazione ed in quali eventuali limiti;
b) Se la ricerca delle sostanze pericolose debba essere fatta in base a metodiche uniformi predeterminate;
c) Se la ricerca delle sostanze pericolose debba basarsi su una verifica accurata e rappresentativa che tenga conto della composizione del rifiuto, se già nota o individuata in fase di caratterizzazione, o se invece la ricerca delle sostanze pericolose possa essere effettuata secondo criteri probabilistici considerando quelle che potrebbero essere ragionevolmente presenti nel rifiuto;
d) Se, nel dubbio o nell'impossibilità di provvedere con certezza all'individuazione della presenza o meno delle sostanze pericolose nel rifiuto, questo debba o meno essere comunque classificato e trattato come rifiuto pericoloso in applicazione del principio di precauzione.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha reso sentenza in data 28 marzo 2019 (Cause riunite Verlezza e altri c/ Italia da C 487/17 a C 489/17).
La pronuncia, letta congiuntamente alle conclusioni dell’Avvocato Generale della Corte e alla “Comunicazione della Commissione – Orientamenti tecnici sulla classificazione dei rifiuti (2018/C 124/01)”, pubblicata il 9 aprile 2018 sulla Gazzetta UE (C 124/134), fornisce orami un quadro normativo di riferimento certo e stabile in ordine al procedimento di classificazione dei rifiuti caratterizzati da codice c.d. “speculare”, integrando in modo preciso i contenuti invero piuttosto generici della Decisione 532/2000/CE, come modificata dalla Decisione 955/2014/CE, e dal Regolamento 1357/2014/CE.
Si omette una disamina puntuale dei contenuti della sentenza della Corte di Giustizia, che si è già operata in altra sede 1. Del resto, gran parte della pronuncia che oggi si commenta è dedicata a riassumere i contenuti dell’arresto dei giudici europei.
Il quadro attualmente vigente può essere sinteticamente riassunto nel modo che segue:
1. la corretta classificazione dei rifiuti è un onere che incombe sul detentore (questo è il linguaggio che usa la Corte, in Italia è preferibile usare il termine “produttore”) dei medesimi;
2. la classificazione del rifiuto si basa sulla conoscenza della composizione del rifiuto stesso;
3. la classificazione costituisce l’epilogo di un procedimento, detto di “caratterizzazione” del rifiuto, volto a determinare quali siano le sostanze “ragionevolmente” presenti nel rifiuto;
4. la caratterizzazione può svolgersi tramite “analisi merceologica” del rifiuto, “analisi tecnica” dello stesso (schede del produttore, ad esempio) e, ove necessario, “analisi chimica” (mediante calcolo o prova), da effettuarsi su un campione rappresentativo e con metodologie internazionalmente riconosciute;
5. in tale procedimento, la “ragionevolezza” non può essere interpretata come “discrezionalità” del produttore nella selezione dei parametri da ricercare. L’analisi del rifiuto deve infatti basarsi su dati certi ed oggettivi quali la provenienza del rifiuto o delle materie prime impiegate nel processo produttivo (input), il processo stesso, il prodotto o il rifiuto in uscita (output);
6. Il procedimento di classificazione deve svolgersi in più passaggi, individuati in modo preciso dalla Corte e dalla Commissione:
- determinazione della composizione del rifiuto con le modalità anzidette;
- individuazione delle sostanze pericolose (disciplinate dal Regolamento CLP – classificazione, etichettatura e imballaggio – n. 1278/2008) corrispondenti alle Classi di pericolo;
- verifica delle concentrazioni di tali sostanze per escludere l’attribuzione delle classi di pericolo da HP1 a HP15;
- verifica dell’assenza degli inquinanti organici persistenti (POP) nelle concentrazioni previste dal Regolamento 850/2004.
7. nel procedimento di caratterizzazione il detentore deve sottostare al “principio di precauzione”, da intendersi nel senso che qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, il detentore si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che detto rifiuto presenta, quest’ultimo deve essere classificato come rifiuto pericoloso;
8. nel procedimento di classificazione il detentore deve applicare la regola dello “scenario peggiore possibile”: in caso di qualsiasi dubbio la presenza della sostanza peggiore dovrebbe essere presa in considerazione, con la precisazione che se il gestore conosce i componenti ma non può decidere quali specifiche sostanze sono presenti, deve identificare il peggior caso di componente per ognuno dei componenti e valutare il rifiuto di conseguenza. Il caso del peggior componente deve essere determinato per ciascuna proprietà pericolosa e la sostanza, o insieme di sostanze, che ragionevolmente potrebbero esistere all'interno del rifiuto e che probabilmente deriverebbero dall'applicazione di tale proprietà pericolosa;
8. l’impossibilità pratica di conoscere la composizione del rifiuto non può derivare dal comportamento del detentore stesso del rifiuto.
La sentenza della Corte di Cassazione, in punto di diritto, ben poco aggiunge a quanto sopra descritto, anzi, omette praticamente ogni riferimento alla Comunicazione della Commissione, che invece andrebbe letta congiuntamente alla sentenza in quanto rappresenta le linee guida della normativa direttamente applicabile in Italia.
Dopo avere esposto per somme linee le due linee interpretative che in dottrina si contendono il campo (c.d. “teoria della certezza” e “teoria della probabilità”), la Corte ricorda che “ i giudici del riesame censurano la rilevanza attribuita dal Pubblico Ministero alla presunzione di pericolosità, osservando come nel corso dell'indagine non sia stata compiuta, da parte degli organi di controllo, alcuna analisi chimica attestante la pericolosità dei rifiuti e ciò sulla base di una interpretazione della norma ritenuta errata, perché presuppone che la qualificazione del rifiuto debba essere effettuata non soltanto attraverso la valutazione della scheda del produttore e la conoscenza del processo chimico, ma anche attraverso analisi chimiche esaustive del rifiuto volte ad escludere il superamento delle concentrazioni limite di riferimento attraverso l'individuazione analitica del 99,9% delle componenti del rifiuto autorizzato ”.
Successivamente, il Collegio afferma che “ entrambe le soluzioni interpretative adottate siano palesemente in contrasto con le indicazioni fornite dalla Corte di giustizia ”.
La sentenza censura, come primo argomento, l’esistenza, dedotta dalla Procura ricorrente, di una presunzione relativa di pericolosità del rifiuto: “ Va certamente esclusa la “presunzione di pericolosità” nei termini in cui vi si riferisce il Pubblico Ministero ricorrente ed il conseguente obbligo per il detentore del rifiuto di dimostrarne, attraverso analisi, la non pericolosità, dovendo in alternativa classificare comunque il rifiuto come pericoloso ostandovi, in maniera evidente, quanto indicato dai giudici di Lussemburgo nel punto 45 della sentenza ”.
Sul punto, tuttavia, occorre fare delle precisazioni.
Mai, in tutta la fase cautelare e della pregiudiziale europea, la Procura ricorrente aveva fatto menzione della necessità di procedere ad analisi spinte fino al 99,9% dei rifiuti (c.d. “teoria della certezza”). Tale argomentazione era al contrario stata ritratta dal Tribunale per il riesame dalle memorie delle difese degli indagati, sulla base di una loro personale lettura degli atti di indagine.
Tanto che nel ricorso (al punto 8), si faceva espresso riferimento al Manuale per la classificazione del Regno Unito sui rifiuti pericolosi e al documento redatto nell’estate del 2015 dalla Commissione europea, recante un draft della “Guidance document on the definition and classification of hazardous waste” (poi destinato ad essere ufficializzato nel Documento dell’aprile 2018 citato in precedenza), che descriveva negli stessi termini della Corte europea il procedimento di classificazione.
Parimenti, nei “motivi aggiunti” depositati successivamente, si leggeva che il “Guidance document On the definition and classification of hazardous waste from 8 June 2015” espressamente stabiliva che la conoscenza della composizione del rifiuto è una “precondizione” per determinare se esso mostri o meno classi di pericolo, ad ulteriore conferma dell’erroneità della c.d. “tesi probabilistica”, precisandosi poi che “ oltre alle linee guida delle quattro agenzie per la protezione ambientale del Regno Unito, anche l’INERIS (“Institut national de l'environnement industriel et des risques”, ente pubblico creato nel 1990), nel manuale operativo per la classificazione dei rifiuti pericolosi (“Guide d’application pour la caractérisation en dangerosité”) riproduce il manuale europeo e britannico (pag. 9). Parimenti, nella sezione relative alle classi di pericolo HP 4, HP5, HP6, HP7, HP 8, HP 10, HP 11, HP 13 e HP14 si legge che “Cette section regroupe des propriétés de danger dont l’évaluation repose sur la connaissance en substances du déchet”, ossia si richiede la conoscenza della composizione del rifiuto.
…
Pertanto, se la composizione del rifiuto può essere nota sulla base del processo produttivo (ad esempio per le industrie di produzione di beni, in cui è noto l’elenco delle materie prime in ingresso, il ciclo produttivo e i materiali in uscita) potrebbe non essere necessario effettuare uno spettro analitico esaustivo, ma laddove ciò non sia possibile, la conseguenza inevitabile è sottoporre il rifiuto alle batterie di test necessarie a conoscerne la composizione chimica”.
Analogamente, nelle note di supporto per la difesa orale depositate dal ricorrente dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, concludeva come segue:
“Sui quesiti sub a), c) e d) : “L’allegato alla Decisione 2014/955/UE ed il Regolamento UE n. 1357/2014 debbono essere interpretati, anche alla luce del contributo fornito dalla “Comunicazione della Commissione - Orientamenti tecnici sulla classificazione dei rifiuti (2018/C 124/01)”, nel senso che, in caso di voci specchio:
A) per accertare la pericolosità di un rifiuto, occorre in primo luogo stabilirne la composizione al fine di verificare la presenza nel rifiuto delle “sostanze pericolose corrispondenti” alle classi di pericolo; a tal fine, si potrà far ricorso alla c.d. “analisi tecnica” o informazioni di base, desumibili dalla scheda del prodotto che genera il rifiuto, dal processo produttivo o dall’attività di origine del rifiuto.
B) quando le predette informazioni di base consentano di conoscere la composizione del rifiuto, al fine di escludere la presenza delle classi di pericolo corrispondenti il produttore potrà procedere a “calcoli” o “prove”;
C) quando le predette informazioni di base non consentano da sole di conoscere la composizione del rifiuto, e quindi escluderne la pericolosità, il produttore potrà:
a) scegliere di classificare rifiuti come pericolosi;
b) effettuare, mediante analisi, una caratterizzazione del rifiuto che consenta la conoscenza della sua composizione, al fine di accertare la presenza nel rifiuto delle “sostanze pericolose corrispondenti” alle classi di pericolo e quindi correttamente classificare il rifiuto; anche in questo caso, in luogo di una caratterizzazione analitica troppo “spinta”, e quindi onerosa, il produttore potrà scegliere di classificare rifiuti come pericolosi.
D) nel caso in cui il detentore del rifiuto disponga di qualche conoscenza in merito agli elementi del rifiuto ma non alle sostanze presenti nello stesso, il produttore dovrà comunque utilizzare il concetto di determinazione delle sostanze secondo uno scenario realistico corrispondente allo «scenario realistico più sfavorevole» per ciascun elemento identificato. Tali sostanze relative allo scenario realistico più sfavorevole dovrebbero essere determinate per ciascuna caratteristica di pericolo e successivamente dovrebbero essere utilizzate per la valutazione delle caratteristiche di pericolo. Le sostanze relative allo scenario realistico più sfavorevole dovrebbero essere determinate tenendo conto delle sostanze che potrebbero essere ragionevolmente presenti nei rifiuti, intendendosi tale avverbio nel senso che possono essere escluse le sostanze che non possono essere presenti all'interno dei rifiuti perché, ad esempio, possono essere escluse le loro proprietà fisiche e chimiche.
E) in ordine ai “limiti” della attività di ricerca analitica, essi non sono indicati dalla normativa, la quale impone solo la conoscenza della composizione chimica del rifiuto; ove dalla c.d. “analisi tecnica” si abbia una conoscenza parziale della composizione del rifiuto e sia ragionevolmente presumibile l’assenza di talune sostanze pericolose, l’analisi potrà essere limitata alle sostanze sconosciute da ricercare; laddove al contrario non si abbiano indicazioni di sorta in ordine alla composizione del rifiuto, la caratterizzazione analitica dovrà essere completa al fine di escludere sostanze pericolose corrispondenti alle classi di pericolo da HP1 a HP15, ferma restando la possibilità per il produttore di classificare ab origine il rifiuto come pericoloso;
F) Nel dubbio o nell'impossibilità di provvedere con certezza all'individuazione della presenza o meno delle sostanze pericolose nel rifiuto, questo deve essere comunque classificato e trattato come rifiuto pericoloso, in applicazione del principio di precauzione ”.
Non è chi non veda come la sentenza della Corte abbia accolto in modo pressochè totale la linea interpretativa anzidetta, che in altra sede si era definita come “teoria della certezza attenuata” 2.
La sentenza della Cassazione quindi taccia di erroneità una tesi che mai aveva fatto ingresso nel processo se non negli scritti difensivi degli indagati, recepiti dal Tribunale del riesame in modo acritico.
Ed infatti, leggendo integralmente il punto 45 della sentenza della Corte di Giustizia si legge che “ si deve osservare che l’analisi chimica di un rifiuto deve, certamente, consentire al suo detentore di acquisire una conoscenza sufficiente della composizione di tale rifiuto al fine di verificare se esso presenti una o più caratteristiche di pericolo di cui all’allegato III della direttiva 2008/98. Tuttavia, nessuna disposizione della normativa dell’Unione in questione può essere interpretata nel senso che l’oggetto di tale analisi consista nel verificare l’assenza, nel rifiuto di cui trattasi, di qualsiasi sostanza pericolosa, cosicché il detentore del rifiuto sarebbe tenuto a rovesciare una presunzione di pericolosità di tale rifiuto ”.
Anche la corte, quindi, fa esclusivo riferimento alla necessità, esclusa dallo stesso ricorrente, della ricerca indiscriminata di tutte le sostanze possibili.
Subito dopo, tuttavia, la Cassazione censura pesantemente anche la decisione del Tribunale del Riesame di Roma: “ Non può inoltre condividersi, sempre alla luce di quanto evidenziato dalla Corte di giustizia, il rilievo esplicitamente attribuito dal Tribunale al mancato espletamento, da parte degli inquirenti, di attività di analisi volta a dimostrare la pericolosità del rifiuto, accollando ad essi un dovere che la pronuncia pregiudiziale esclude, attribuendo al detentore del rifiuto (e non dunque, soltanto al produttore, che pure tale qualifica riveste), quando la composizione del rifiuto potenzialmente pericoloso non sia immediatamente nota, l’onere di raccogliere le informazioni idonee a consentirgli di acquisire una conoscenza sufficiente di detta composizione e, in tal modo, di attribuire a tale rifiuto il codice appropriato (punto 40) ”.
Le due affermazioni sembrano ad una prima lettura in evidente stridore, salvo quanto si vedrà in appresso.
Conferma poi, la Corte, l’assenza di ogni margine di discrezionalità in capo al produttore nel procedimenti di classificazione, e la riduttività, operata dal Tribunale in adesione alle tesi difensive, del riferimento al solo processo produttivo delle informazioni necessarie per la classificazione: “ Contrastano con le affermazioni del Tribunale anche le ulteriori precisazioni della Corte europea, laddove si esclude ogni margine di discrezionalità in capo al detentore del rifiuto circa la natura dell’accertamento, in quanto, sebbene non obbligato a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa egli deve comunque ricercare quelle che possano ragionevolmente trovarvisi.
Va peraltro osservato che la sentenza della Corte di giustizia, tanto nella risposta ai primi tre quesiti, quanto nella motivazione, porta ad escludere radicalmente la possibilità di arbitrarie scelte da parte del detentore del rifiuto circa le modalità di qualificazione del rifiuto ed accertamento della pericolosità.
In altre parole, ritiene il Collegio che il necessario riferimento della Corte europea, in precedenza richiamato, all’impossibilità di imporre al detentore del rifiuto irragionevoli obblighi sia dal punto di vista tecnico che economico, non può assolutamente, a fronte di quanto più diffusamente stabilito dai medesimi giudici, essere utilizzato come pretesto per aggirare le precise indicazioni circa le modalità di qualificazione del rifiuto, essendo chiaro che se la composizione del rifiuto non è immediatamente nota (circostanza che rende, evidentemente, non necessaria l’analisi) il detentore deve raccogliere informazioni, tali da consentirgli una “sufficiente” conoscenza di tale composizione e l’attribuzione al rifiuto del codice appropriato.
La raccolta delle informazioni, inoltre, va necessariamente effettuata secondo la precisa metodologia specificata, che non prevede esclusivamente il campionamento e l’analisi chimica, le quali, come espressamente indicato (punto 44), devono peraltro offrire garanzie di efficacia e rappresentatività.
Ciò porta anche a ritenere non condivisibile, ad avviso del Collegio, l’affermazione del Tribunale secondo cui “l’analisi del rifiuti ‘a specchio’, al fine di determinarne la pericolosità, deve riguardare solo le sostanze che, in base al processo produttivo, è possibile possano conferire al rifiuto stesso caratteristiche di pericolo” in quanto riduttiva rispetto alla metodologia individuata nella pronuncia della Corte di giustizia ”.
Tuttavia, dopo tali indicazioni, la Corte si limita ad affermare che “ una nuova valutazione della vicenda alla luce delle indicazioni fornite nella pronuncia pregiudiziale, dovendosi verificare, seppure entro l’ambito di operatività della competenza del giudice del riesame, se la classificazione dei rifiuti sia stata correttamente effettuata ovvero se la stessa sia conseguenza di un deliberato ricorso a procedure non adeguate finalizzate al loro illecito smaltimento ”.
Rimane tuttavia inesplorato quello che costituiva il punto focale del procedimento.
Come si è già avuto modo di affermare 3, il tema di fondo era il seguente: quid juris nel caso in cui la classificazione non sia stata svolta dal detentore del rifiuto in modo corretto e l’incompleta caratterizzazione sia imputabile al gestore? Se non sussiste una presunzione relativa del rifiuto con codice speculare e contemporaneamente una scarsa conoscenza del rifiuto non deve essere attribuibile al produttore medesimo, come va classificato il rifiuto, con tutto ciò che ne consegue?
Il tema, a ben vedere, si trasferisce dal piano sostanziale a quello processuale, e precisamente sulla “distribuzione dell’onere della prova”.
Un esempio pratico servirà a comprendere meglio la natura del problema.
Un produttore effettua spedizioni transfrontaliere di rifiuti con codice speculare, non accompagnati da alcuna analisi tecnica e senza analisi chimica o con analisi largamente incomplete. I rifiuti, secondo le indicazione fornite dalla Corte e dalla Commissione, dovrebbero essere classificati come pericolosi perché l’incompleta conoscenza della loro composizione è attribuibile al detentore.
I rifiuti invece, vengono classificati come “non pericolosi” e spediti, conformemente al Regolamento 1013/2006 sulle spedizioni transfrontaliere di rifiuti, in “lista verde”, ossia con mera “informazione” e senza notifica all’organo di controllo (la Regione o le Province autonome di Trento e Bolzano).
Se i rifiuti fossero stati invece classificati con il codice speculare pericoloso, avrebbero dovuto essere inseriti in “lista ambra” e come tali soggetti a obbligo di notifica (Paesi UE o OCSE) o a divieto di esportazione (Paesi non OCSE).
Ma i rifiuti nel frattempo sono partiti, e non sono più suscettibili di essere analizzati.
In sede processuale, come si devono considerare tali rifiuti?
Incombe sul detentore, cui è imputabile il non aver rispettato la corretta procedura di classificazione, fornire la prova della loro non pericolosità o sono gli inquirenti a doverne in ogni caso dimostrare la pericolosità?
Non è chi non veda come in questo secondo caso la probatio in capo agli organi di investigazione sarebbe diabolica, risolvendosi una tale conclusione in un vero e proprio “tana libera tutti” con buona pace del principio di precauzione la cui applicabilità, nei modi e nei limiti che si è detto, è confermata dalla Corte di giustizia UE e dalla Comunicazione della Commissione.
Sul punto, sarebbe stato utile effettuare una ricognizione delle pronunce della Cassazione relative a casi analoghi, o almeno ispirati dalla stessa ratio.
Analizzando in modo sincronico le varie materie oggetto di attenzione da parte dei Giudici di Piazza Cavour, potrà notarsi infatti come in tutti i casi in cui la legge attribuisce al produttore o al detentore dei rifiuti la possibilità di usufruire di un regime di favore, trasferisce sul medesimo l’onere di dimostrare di aver rispettato tutti i requisiti per usufruire di tale regime.
In tema si “sottoprodotti”, ad esempio, la Corte ha sempre affermato che l’accertamento della natura di sottoprodotto è una questione di fatto e l’onere della prova spetta al produttore, in quanto “ incombe sull’interessato, anche successivamente alla modifica dell’art. 183, comma 1, lett. p), l’onere di fornire la prova” della destinazione del materiale ad ulteriore utilizzo, con certezza e non come mera eventualità ”. Ed ancora: “ Ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 256, commi 1-3, del D.lgs3 aprile 2006, n. 152, i materiali provenienti da demolizione debbono essere qualificati dal giudice come rifiuti, in quanto oggettivamente destinati all'abbandono, salvo che l'interessato non fornisca la prova della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per l'applicazione di un regime giuridico più favorevole, quale quello relativo al "deposito temporaneo" o al "sottoprodotto " ( Cass. Sez. III, Sentenza n. 29084 del 14/05/2015Cc. -dep.08/07/2015-Rv. 264121 ).
In tale senso anche Cass. Sez. III, Sentenza n. 56066 del 19/09/2017 : “ In tema di gestione dei rifiuti, l'applicazione della disciplina dettata dall'art. 52, comma 2-bis, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, e dal d.m. 25 febbraio 2016, nella parte in cui sottopone la massa, sia liquida che solida, risultante dal processo di biodigestione anaerobica, costituente il c.d. digestato, al regime dei sottoprodotti destinati ad uso agronomico e non a quello dei rifiuti, è subordinata alla prova positiva, gravante sull'imputato, della sussistenza delle condizioni previste per la sua operatività, in quanto ipotesi di esclusione da responsabilità, fondata su una disciplina avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria ”.
Da ultimo anche Cassazione Penale, Sez. III, del 3 settembre 2018, n. 39400 ha stabilito che la presunzione legale iuris tantum della qualifica di rifiuto non è vinta da chi eccepisce la natura di sottoprodotto della sostanza derivante dalle predette attività. Incombe, invece, sull'interessato l'onere di provare che tutti i requisiti, richiesti dall'articolo 184-bis per attribuire alla sostanza la qualifica di sottoprodotto, trattandosi di una condizione per l'applicabilità di un regime derogatorio a quello ordinario dei rifiuti.
In tema di “terre e rocce da scavo”, una particolare categoria di sottoprodotti, Cassazione, Sez. III, sent. n. 36024 del 21 luglio 2017 (ud. del 15 febbraio 2017) ha precisato che “ l’applicazione della disciplina sulle terre e rocce da scavo (art. 186, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152), nella parte in cui sottopone i materiali da essa indicati al regime dei sottoprodotti e non a quello dei rifiuti, è subordinata alla prova positiva, gravante sull’imputato, della sussistenza delle condizioni previste per la sua operatività consistente nella riutilizzazione dei suddetti materiali secondo un progetto ambientalmente compatibile, in quanto trattasi di disciplina avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria ”. Ancora Cassazione Sez. 3^ 07/08/2017 (Ud. 28/06/2017), Sentenza n. 38950 ha precisato che “ trattandosi, in tali casi di norme aventi natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti, l’onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge deve essere assolto da colui che ne richiede l’applicazione (Sez. 3, n. 17453 del 17/4/2012, Busè, Rv. 252385; Sez. 3, n. 16727 del 13/04/2011, Spinello, non massimata; Sez. 3, n. 41836 del 30/09/2008, Castellano, Rv. 241504) . E’ del tutto evidente che tale prova non può certo essere fornita mediante mera testimonianza, come si sostiene in ricorso, atteso che l’art. 184-bis d.lgs. 152\06 richiede condizioni specifiche che devono essere adeguatamente documentate anche e soprattutto sotto il profilo prettamente tecnico, involgendo, come è noto, le caratteristiche del ciclo di produzione, il successivo reimpiego, eventuali successivi trattamenti, la presenza di caratteristiche atte a soddisfare, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e l’assenza di impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana ”.
In tema di End of Waste (in particolare di “gesso di defecazione”), Cassazione, Sez. III, Sentenza n. 39074 del 10/08/2017 (ud. 18/07/2017), ha stabilito che “ in tema di rifiuti è onere di chi intende dimostrare il contrario addurre elementi che contrastano quel che ragionevolmente appare, secondo un principio generale applicato da questa Corte in tema di attività di raggruppamento ed incenerimento di residui vegetali previste dall’art. 182, comma sesto bis, primo e secondo periodo, d. lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016, Lazzarini, Rv. 265839), di deposito temporaneo di rifiuti (Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015, Favazzo, Rv. 264121), di terre e rocce da scavo (Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015, Fortunato, Rv. 263336), di interramento in sito della posidonia e delle meduse spiaggiate presenti sulla battigia per via di mareggiate o di altre cause naturali (Sez. 3, n. 3943 del 17/12/2014, Aloisio, Rv. 262159), di qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali (Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014, Giaccari, Rv. 262129; Sez. 3, n. 41836 del 30/09/2008, Castellano, Rv. 241504 ), di deroga al regime autorizzatorio ordinario per gli impianti di smaltimento e di recupero, prevista dall’art. 258 comma 15 del D.Lgs. 152 del 2006 relativamente agli impianti mobili che eseguono la sola riduzione volumetrica e la separazione delle frazioni estranee (Sez. 3, n. 6107 del 17/01/2014, Minghini, Rv. 258860), di riutilizzo di materiali provenienti da demolizioni stradali (Sez. 3, n. 35138 del 18/06/2009, Bastone, Rv. 244784). Orbene, un cumulo enorme di sostanza economicamente inutile per chi l’ha prodotta (tanto da pagare il suo trasporto) e destinata ad usi incerti da parte di chi l’ha ricevuta, detenuta peraltro nei termini e modi descritti dalla rubrica, rende ragionevole ritenere che oggetto della condotta fosse proprio un rifiuto del quale il produttore aveva inteso disfarsi”.
In tema di “veicoli fuori uso” e sulla natura di rifiuto pericoloso degli stessi Cassazione, Sez. III, n. 11030 del 5/2/2015, Andreoni, dopo avere ricordato che l’allegato D del TUA individua con il codice CER 16 01 04 * e, quindi, quali rifiuti pericolosi, i veicoli fuori uso in generale e, con il codice CER 16 01 06, i veicoli fuori uso, non contenenti liquidi né altre componenti pericolose, che sono dunque rifiuti non pericolosi, stabiliva che « in tema di gestione di rifiuti, la natura di rifiuto pericoloso di un veicolo fuori uso non necessita di particolari accertamenti quando risulti, anche soltanto per le modalità di gestione, che lo stesso non è stato sottoposto ad alcuna operazione finalizzata alla rimozione dei liquidi e delle altre componenti pericolose ». Conforme Cassazione, Sez.3^ 07/08/2017, Sentenza n.38949, per cui “ Ciò che rileva, infatti, sulla base del richiamato principio, è il fatto che il veicolo fuori uso non sia stato sottoposto ad alcuna attività di bonifica ”.
In tema di “deposito temporaneo” di rifiuti,Cassazione, Sez. III, sentenza 14/10/2019 n. 42110 ha affermato che l'onere della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità del deposito cosiddetto controllato o temporaneo, fissate dall'art. 183 d.lgs. n. 152 del 2006, grava sul produttore dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e derogatoria di tale deposito rispetto alla disciplina ordinaria (Sez. 3, n. 35494 del 10/05/2016, dep. 26/08/2016, Di Stefano, Rv. 267636; Sez. 3, n. 23497 del 17/04/2014, dep. 05/06/2014, Lobina, 261507; Sez. 3, n. 15610 del 03/03/2010). Cassazione, Sez. III, sentenza n. 43422 del 12 settembre 2019 (ud.), dopo aver confermato che “ in tema di gestione dei rifiuti, l'onere della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità del deposito cosiddetto controllato o temporaneo, fissate dall'art. 183 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, grava sul produttore dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e derogatoria di tale deposito rispetto alla disciplina ordinaria (per tutte, Sez. 3, n. 35494 del 10/05/2016, Di Stefano, Rv. 267636 )”, contiene un’affermazione molto importante: “t ale principio, specificamente riferito al deposito temporaneo, è peraltro applicabile in tutti i casi in cui venga invocata, in tema di rifiuti, l'applicazione di disposizioni di favore che derogano ai principi generali (cfr. in motivazione, sez. III, n. 20410 del 08/02/2018 Rv. 273221 - 01 Boccaccio) ”.
La pronuncia richiamata in fine aveva in effetti già stabilito che il principio dell’inversione dell’onere della prova in materia di deposito temporaneo ha precisato che “ specificamente riferito al deposito temporaneo, è peraltro applicabile in tutti i casi in cui venga invocata, in tema di rifiuti, l’applicazione di disposizioni di favore che derogano ai principi generali ”.
Analogamente, Cassazione, Sez. III, sentenza n. 47262 del 10 novembre 2016, precisa che il principio dell’inversione dell’onere della prova corrisponde ad un “ principio generale già applicato in giurisprudenza: in tema di attività di raggruppamento ed incenerimento di residui vegetali previste dall’art. 182, comma sesto bis, primo e secondo periodo, d. lgs. 152/2006 (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 5504 del 12 gennaio 2016, Lazzarini), di deposito temporaneo di rifiuti (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 29084 del14 maggio 2015, Favazzo), di terre e rocce da scavo (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 16078 del 10 marzo 2015, Fortunato), di interramento in sito della posidonia e delle meduse spiaggiate presenti sulla battigia per via di mareggiate o di altre cause naturali (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 3943 del 17 dicembre 2014, Aloisio), di qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 3202 del 2 ottobre 2014, Giaccari; Sez. III, n. 41836 del 30 settembre 2008, Castellano), di deroga al regime autorizzatorio ordinario per gli impianti di smaltimento e di recupero, prevista dall’art. 258 comma 15 del d. lgs. 152 del 2006 relativamente agli impianti mobili che eseguono la sola riduzione volumetrica e la separazione delle frazioni estranee (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 6107 del 17 gennaio 2014, Minghini), di riutilizzo di materiali provenienti da demolizioni stradali, Sez. III, n. 35138 del 18 giugno 2009, Bastone) ”.
Appare evidente dalla rassegna di giurisprudenza dianzi evidenziata che esiste un principio generale immanente a tutta la normativa sui rifiuti: chi intende usufruire di un regime di favore ha l’onere della prova di dimostrare di essersi comportato in modo irreprensibile, rispettando tutte le previsioni stabilite dalla legge per tale regime agevolato.
La normativa relativa alla classificazione dei rifiuti non è una normativa eccezionale, e tuttavia non è dubbio che classificare un rifiuto come non pericoloso consente al produttore di godere di un regime di favore.
La Corte avrebbe dovuto e potuto chiarire se, come chi scrive ritiene, tale principio poteva essere applicabile anche al caso in esame.
Nel silenzio degli Ermellini, occorre quindi procedere ad una messa a sistema dei principi dianzi evidenziati.
Non vi è dubbio che incomba agli organi inquirenti dimostrare che il produttore non abbia rispettato gli obblighi imposti dalla legge nel procedimento di classificazione dei rifiuti, nei termini che si sono dianzi evidenziati.
Ma una volta accertato che non era nota la composizione del rifiuto, nè l’elenco delle sostanze pericolose che avrebbero potute ragionevolmente essere presenti nel rifiuto, poiché tale rifiuto doveva essere classificato come pericoloso, a quel punto dovrebbe incombere sul produttore l’onere di dimostrane la non pericolosità. Nel caso che si è preso in esame, i rifiuti esportati dovrebbero essere considerati pericolosi e come tali valutati ai fini della possibilità di esportazione e della procedura di esportazione, ove consentita.
Ma di tale argomento in sentenza non si trova traccia.
Un’ultima notazione.
Nella parte finale della motivazione, la Corte sembra suggerire al Tribunale del Riesame una diversa via d’uscita, ossia valutare l’opportunità di escludere l’elemento psicologico del delitto in parola: “ Va altresì ricordato, per ciò che concerne la valutazione del fumus del reato sotto il profilo soggettivo, pure effettuata nel provvedimento impugnato, che la giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato come, in sede di riesame dei provvedimenti che dispongono misure cautelari reali, al giudice sia demandata, nell'ambito della valutazione sommaria in ordine al fumus del reato ipotizzato, anche la verifica dell'eventuale difetto dell'elemento soggettivo del reato, purché di immediata evidenza”.
Sul punto, tuttavia, la Corte ha omesso di considerare un ulteriore aspetto di fondamentale importanza, che certamente proietta la sua ombra anche sull’elemento psicologico del reato: quella che era la normativa vigente all’epoca dei fatti, ossia l’introduzione all’Allegato D della Parte IV del D. Lgs. 152/2006 (introdotta dalla L. 11 agosto 2014 n. 116, con decorrenza 180 giorni dalla sua entrata in vigore), prevedeva una disciplina del procedimento di classificazione dei rifiuti sostanzialmente sovrapponibile a quello indicato dalla Corte di Giustizia UE e dalla commissione europea.
La normativa prevedeva infatti (si omettono i commi da 1 a 3 che concernono i codici CER c.d. “assoluti”) che:
“ 4. Se un rifiuto è classificato con codici CER speculari, uno pericoloso ed uno non pericoloso, per stabilire se il rifiuto è pericoloso o non pericoloso debbono essere determinate le proprietà di pericolo che esso possiede. Le indagini da svolgere per determinare le proprietà di pericolo che un rifiuto possiede sono le seguenti:
a) individuare i composti presenti nel rifiuto attraverso:
- la scheda informativa del produttore;
- la conoscenza del processo chimico;
- il campionamento e l'analisi del rifiuto;
b) determinare i pericoli connessi a tali composti attraverso:
- la normativa europea sulla etichettatura delle sostanze e dei preparati pericolosi;
- le fonti informative europee ed internazionali;
- la scheda di sicurezza dei prodotti da cui deriva il rifiuto;
c) stabilire se le concentrazioni dei composti contenuti comportino che il rifiuto presenti delle caratteristiche di pericolo mediante comparazione delle concentrazioni rilevate all'analisi chimica con il limite soglia per le frasi di rischio specifiche dei componenti, ovvero effettuazione dei test per verificare se il rifiuto ha determinate proprietà di pericolo.
5. Se i componenti di un rifiuto sono rilevati dalle analisi chimiche solo in modo aspecifico, e non sono perciò noti i composti specifici che lo costituiscono, per individuare le caratteristiche di pericolo del rifiuto devono essere presi come riferimento i composti peggiori, in applicazione del principio di precauzione.
6. Quando le sostanze presenti in un rifiuto non sono note o non sono determinate con le modalità stabilite nei commi precedenti, ovvero le caratteristiche di pericolo non possono essere determinate, il rifiuto si classifica come pericoloso ”.
Non a caso, la Corte di Giustizia ha affermato a chiare note che “ è pacifico che, adottando le disposizioni della legge n. 116/2014, la Repubblica italiana ha adempiuto obblighi derivanti da direttive in materia di classificazione dei rifiuti, in particolare dalla direttiva 2008/98. Pertanto, ammettendo che la legge n. 116/2014 rientri nell’ambito di applicazione della direttiva 98/34, l’assenza di notifica di tali disposizioni da parte di detto Stato membro non costituirebbe un vizio procedurale sostanziale tale da comportare l’inapplicabilità ai singoli delle regole tecniche di cui trattasi. Detta assenza non inficia la loro opponibilità ai singoli e non ha quindi, in quanto tale, alcuna incidenza sulla ricevibilità delle questioni pregiudiziali ”.
La disciplina vigente quindi era conforme alla normativa comunitaria, di cui costituiva precisa attuazione, ed era pienamente cogente nei confronti dei singoli destinatari della norma, i quali, come soggetti professionalmente operanti nel settore della gestione dei rifiuti, ne dovevano essere pienamente a conoscenza.
In conclusione, siamo ben lontani dallo scrivere la parola fine a questa lunghissima fase cautelare che, stante l’importanza del tema trattato, è destinata a fungere da “nave scuola” a tutte le successive pronunce.
Era una ottima occasione per fare chiarezza, ed è stata un’occasione perduta.
Alberto Galanti
1 Sul punto si rimanda ad A. GALANTI, “La verità, vi prego, sui codici a specchio”, pubblicato sul sito Lexambiente il 5 Aprile 2019.
2 A. Galanti: “La classificazione dei rifiuti con "codice specchio" - Dalla Commissione europea un contributo di chiarezza”, pubblicato sul sito Diritto Penale Contemporaneo, Fasc. 5/2018, pag. 216.
3 A. GALANTI: “La verità, vi prego, sui codici a specchio”, cit..