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Sez. 3, Sentenzan. 35984 del 07/09/2004 (Ud. 15/07/2004 n.01710 ) Rv. 229013
Presidente: Dell'Anno P. Estensore: Vitalone C. Imputato: Laudani. P.M. Albano A. (Diff.)
(Rigetta, App. Torino, 15 marzo 2004).
EDILIZIA - COSTRUZIONE EDILIZIA - Eseguita in area sottoposta a vincolo - Condono edilizio di cui al D.L. n. 269 del 2003 - Conformità agli strumenti urbanistici e nulla osta ambientale - Necessità.
CON MOTIVAZIONE

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Massima (Fonte CED Cassazione)
In materia edilizia, le opere abusive realizzate in aree sottoposte a vincoli possono essere sanate con la procedura prevista dall'art. 32 del D.L. 30 settembre 2003 n. 269, convertito con legge 24 novembre 2003 n. 326, solo in caso di conformità agli strumenti urbanistici e previo nulla osta dell'autorità preposta alla tutela del vincolo.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. DELL'ANNO Paolino - Presidente - del 15/07/2004
Dott. VITALONE Claudio - Consigliere - SENTENZA
Dott. DE MAIO Guido - Consigliere - N. 1710
Dott. TARDINO Vincenzo - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. NOVARESE Francesco - Consigliere - N. 21164/2004
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Salvatore Laudani e da Giorgio Arzeni;
avverso la sentenza emessa dalla Corte d'appello di Torino il 15 marzo 2004;
ascoltata la relazione del Consigliere Dr. Claudio Vitalone;
udite le conclusioni del Procuratore Generale Dr. Antonio Albano, il quale ha chiesto l'annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza per intervenuta prescrizione del reato;
sentito il difensore del Laudani, avv. Pierluigi Cassietti, il quale, riportandosi ai motivi di gravame, ha prodotto, anche nella qualità di sostituto processuale dell'avv. Giuseppe Russo, difensore dell'Arzeni, domanda avanzata da entrambi i giudicabili per il condono edilizio ai sensi della 326/2003;
Salvatore Laudani e Giorgio Arzeni sono stati tratti a giudizio del Tribunale di Verbania per rispondere dei reati di cui agli artt. 20 lett. c) L. 47/85 (capo a- della rubrica) e 163 co. 1^ D.L.vo 49/99, loro contestati per avere - nelle rispettive qualità di committente e di esecutore delle opere ritenute illegittime (il Laudani, nella qualità di Presidente del consiglio d'amministrazione della "Willbau s.r.l.", esecutrice dei lavori, e l'Arzeni quale direttore dei lavori medesimi) - dato corso, in assenza di concessione edilizia e di autorizzazione ambientale, al taglio di un numero imprecisato di piante ed alla formazione di una scogliera in blocchi di sasso, allargando il tracciato di strada preesistente in territorio dei Comuni di Verbania e di Vignone coperto da bosco e, quindi, sottoposto a vincolo paesaggistico. Fatti commessi fino al 20 gennaio 2000. Con sentenza dell'11 luglio 2001, gli imputati sono stati riconosciuti colpevoli di entrambi gli addebiti, unificati nel vincolo della continuazione, e condannati alle pene ritenute di legge. La Corte d'appello di Torino, in parziale accoglimento dell'impugnazione proposta dal Laudani e dall'Arzeni ha dichiarato non doversi procedere nei loro confronti in ordine all'illecito urbanistico sub a), limitatamente ai fatti commessi nel territorio di Verbania, per intervenuta concessione in sanatoria, e li ha assolti dalla residua incolpazione relativa ai fatti commessi in territorio di Vignone perché il fatto non costituisce reato. Ha
conseguentemente ridotto la pena inflitta dal primo giudice, confermando la statuizione di responsabilità per entrambi in ordine alla contravvenzione paesaggistica.
Ricorrono i giudicabili con distinti atti d'impugnazione: in quello dell'Arzeni, che articola cinque mezzi di annullamento, sono ricomprese tutte le ragioni di doglianza proposte dal Laudani, secondo il rapporto di continenza che sarà di seguito precisato. Con il primo motivo, esclusivo dell'Arzeni, si deduce violazione ed erronea applicazione di legge per la mancata sospensione del processo onde consentire all'imputato di avanzare domanda di condono ai sensi dell'art. 32 della L. 326/2003.
Con il secondo motivo, largamente coincidente con il primo del ricorso Laudani, si denuncia inosservanza od erronea applicazione di legge e difetto di motivazione, assumendo che il territorio in cui è stato eseguito l'intervento non poteva considerarsi coperto da bosco, perché privo delle caratteristiche indicate dall'art. 2 del D.L. 227/2001. Nessuna prova era stata fornita al riguardo dalla pubblica accusa e la Corte territoriale si era appagata delle risultanze offerte da una serie indiziaria del tutto inadeguata. In particolare - assume il ricorrente - la rilevazione fotografica in atti non consentiva di accertare la sussistenza dei requisiti fissati normativamente e la relazione agronomica della dottoressa Scalabrini, che era stata esaminata testimonialmente e non come consulente, era stata predisposta esclusivamente per fini idrogeologici, ai sensi della L.R. 9 agosto 1989 n. 45, e non poteva essere utilizzata per accertare l'esistenza di un bosco ai sensi del citato D.L. 227/2001. E ciò senza trascurare che l'autorizzazione rilasciata ai sensi della normativa regionale consentiva l'abbattimento della vegetazione arborea ed arbustiva esistente sull'area interessata all'intervento. Per altro aspetto, i giudici non avrebbero considerato che l'abbattimento di alberi aveva interessato soltanto quelli che costeggiavano il ciglio stradale, non riconducibili alla nozione di bosco per l'espressa limitazione contenuta nell'art. 2 comma 6^ del D.L.vo 227/2001. Nell'impugnata sentenza - prosegue l'Arzeni, sviluppando argomentazione assente nel ricorso Laudani - mancherebbe ogni indicazione sui riscontri acquisiti in ordine all'esistenza dell'area boschiva, derivata dalla relazione Scalabrini illegittimamente acquisita e, dunque, non utilizzabile ai sensi dell'art. 526 c.p.p.. Il documento, del resto, offriva una definizione di bosco rilevante ai soli fini idrogeologici e non aveva alcuna valenza probatoria per dimostrare l'esistenza di quell'ecosistema, comprensivo di vita vegetale, fauna e microfauna e connotato da speciali equilibri, che la giurisprudenza ha più volte indicato come il vero bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice in epigrafe.
La Corte d'appello - censura ancora il ricorrente - non ha neppure considerato che la Regione Piemonte, autorità preposta al vincolo, aveva rilasciato il nulla-osta ambientale, escludendo che le opere realizzate potessero in qualche modo arrecare un pericolo anche soltanto virtuale all'assetto paesistico e, di riflesso, all'interesse tutelato.
Con il terzo motivo, perfettamente coincidente con il secondo del ricorso Laudani, l'Arzeni deduce inosservanza ed erronea applicazione di legge, mancanza, illogicità manifesta e contraddittorietà della motivazione, sottolineando che le opere erano state eseguite sulla base di autorizzazioni edilizie rilasciate dai due Comuni interessati (Verbania e Vignone) nel presupposto che non dovessero derivarne trasformazioni del territorio, a norma della L.R. 56/1977. Era perciò ragionevole presumere - e questa era la convinzione di entrambi i ricorrenti, nessuno dei quali era un esperto di diritto - che l'intervento autorizzato fosse pienamente legittimo e che per esso non fosse necessario il preventivo nulla-osta ambientale. Sarebbe pertanto viziata da palese contraddizione la contraria conclusione cui sono pervenuti i giudici del merito, i quali hanno escluso che i giudicabili versassero in errore scusabile, in quanto la documentazione in atti avrebbe rivelato la sussistenza di un percepibile vincolo ambientale. Nella stessa sentenza impugnata - affermano i ricorrenti - pur limitatamente ai fatti consumati nel territorio del Comune di Vignone, era stata riconosciuta la loro buona fede, con una precisa motivazione: "... ritiene la Corte che possa assumersi ...la valenza in termini di legittimo affidamento, in capo agli imputati, delle autorizzazioni rilasciate dai due Comuni, tra cui quello di Verbania che non è certo di piccole dimensioni, dopo la relativa istruttoria e ritenute, almeno in un primo tempo, da detti Comuni strumento edilizio idoneo al caso di specie". Ne conseguirebbe che negando l'ignoranza incolpevole degli imputati per l'identico comportamento, valutato con riferimento all'illecito ambientale, la Corte territoriale è incorsa in motivazione illogica e contraddittoria.
Il solo Arzeni, ampliando l'eccezione difensiva, afferma che comunque i lavori realizzati non necessitavano di concessione edilizia, ma di semplice autorizzazione. Il successivo provvedimento di annullamento - si sostiene - non poteva modificare il regime edilizio al quale le opere erano assoggettate, che era infatti quello dell'autorizzazione rilasciata e poi annullata per la mancata acquisizione preventiva del nulla-osta regionale, ritenuto necessario quando i lavori erano già iniziati. L'Arzeni, oltre tutto, aveva assunto la carica di direttore dei lavori dopo il rilascio degli atti autorizzativi e non poteva in alcun modo rendersi conto che le opere necessitavano di concessione. Con il quarto motivo dell'Arzeni, del tutto coincidente con il terzo ed ultimo del ricorso Laudani, si denuncia inosservanza ed erronea applicazione di legge e difetto di motivazione, affermando che la pena eventualmente da applicare per la ritenuta fattispecie ambientale era quella della lett. a) dell'art. 20 L. 47/85 e non della lett. c), in ragione del rinvio contenuto nell'art. 163 del D.L.vo 490/99 e dell'esigenza di adeguare la sanzione all'oggettiva entità del fatto, originato da due conformi atti autorizzativi. Il solo Arzeni soggiunge che la violazione contestata avrebbe dovuto essere punita ai sensi dell'art. 10 della L. 47/85 con semplice sanzione pecuniaria.
Con il quinto motivo l'Arzeni deduce inosservanza od erronea applicazione di legge e vizio di motivazione, affermando che difettava ogni prova in ordine alla componente psicologica della fattispecie. Egli aveva agito in perfetta buona fede sulla base delle autorizzazioni comunali già rilasciate e non aveva alcuna ragione per sospettare che l'area interessata all'intervento fosse qualificabile come boscata. Si trattava infatti di un'area ampiamente urbanizzata, con numerosi agglomerati residenziali e l'opera da realizzare era soltanto l'ampliamento di una strada già esistente ed asfaltata. Non conosceva l'esistenza della relazione Scalabrini e non aveva ricevuto alcuna informazione al riguardo dal geom. Sulo, che lo aveva preceduto nell'incarico di direttore dei lavori. Egli dunque versava in errore scusabile e doveva pertanto essere assolto. All'odierna pubblica udienza, l'avv. Pierluigi Cassietti, difensore del Laudani ha prodotto, anche nella qualità di sostituto processuale dell'avv. Giuseppe Russo, difensore dell'Arzeni, domanda avanzata da entrambi i giudicabili per il condono edilizio ai sensi della L. 326/2003;
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente rilevato che la richiesta avanzata dal P.G. d'udienza per l'applicazione della prescrizione non può essere accolta. Dalla sentenza di primo grado risulta invero che i lavori ritenuti abusivi erano iniziati "formalmente" il 27 dicembre 1999 (pag. 4) e che essi erano consistiti in un cospicuo allargamento della sede stradale sino a raddoppiarne l'unica preesistente corsia, con significative opere di sostegno e contenimento, costituite da tratti di scogliera realizzati con blocchi di sasso, e con taglio delle piante di alto fusto che aveva determinato una forte instabilità del versante del rio dell'Acqua benedetta, interessato all'intervento (pag. 8). La data in cui tali lavori sono stati sospesi, con conseguente cessazione della condotta criminosa, è - a termini di contestazione - quella del 20 gennaio 2000, coincidente con l'ordinanza di sospensione emessa dal Comune di Vignone, in seguito agli accertamenti espletati "nella seconda metà del gennaio 2000" dal tecnico comunale Maulini nel cantiere Willbau aperto in località Bienna. Alla stregua di tale oggettiva risultanza - che, per vero, le difese degli imputati non hanno neppure preso in esame - deve ritenersi che il termine prescrizionale era destinato a consumarsi il 20 luglio 2004.
il primo motivo del ricorso Arzeni, cui si connette la produzione all'odierna udienza delle istanze di condono avanzate da entrambi i prevenuti, è manifestamente infondato. Le opere realizzate, infatti, devono considerarsi non sanabili in forza di quanto dispone l'art. 32 comma 27 lett. d) del D.L. 269/2003. Ai sensi di tale disposizione sono comunque insuscettibili di sanatoria le opere realizzate "su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici". Nelle aree sottoposte ai vincoli anzidetti, le opere abusive possono essere sanate solo nel caso di conformità agli strumenti urbanistici, previo nulla-osta dell'autorità preposta al vincolo, come previsto dal nuovo testo dell'art. 32 della legge n. 47/1985 nella formulazione introdotta dal comma 43 dell'art. 32 del D.L. n. 269/2003.
Si devono applicare pertanto i principi fissati dalle Sezioni Unite di questa Corte Suprema (sentenza 24.11.1999, n. 22, ric. Sadini ed altri), secondo cui, ove i presupposti del condono edilizio vengano a risultare - come nella specie - inesistenti, "non solo non può essere applicata la sanatoria ma neppure può ritenersi la sospensione del procedimento penale (con le ovvie conseguenze con riguardo alla prescrizione del reato) e ciò indipendentemente dal fatto che il giudice abbia disposto o negato la sospensione dei procedimento, dovendosi nel primo caso ritenere la sospensione inesistente".
È inammissibile anche il secondo motivo di gravame, relativo all'asserita inesistenza del vincolo paesaggistico-ambientale sull'area interessata all'intervento urbanistico e, comunque, di un danno ambientale. La Corte territoriale, nell'assolvere all'obbligo di indicare le ragioni che l'hanno indotta a ritenere dimostrata l'esistenza di detto vincolo e la natura boschiva dell'area, ha analiticamente indicato le fonti e le risultanze di prova (pagg. 16 e segg.) dalle quali ha tratto il suo convincimento ed ha risposto puntualmente - con richiamo alle disposizioni degli artt. 234 e 501 c.p.p. - anche alle obiezioni sollevate dagli appellanti sull'utilizzabilità della relazione della dr.ssa Scalabrini. La valutazione così espressa è del tutto conforme a quella resa con diffusa e circostanziata motivazione dal primo giudice (pagg. 11 e 12). Sul punto, le due sentenze vanno considerate unitariamente, nella parziale complementarietà del rispettivo apparato argomentativo e nella confluenza degli autonomi giudizi in un risultato organico ed inscindibile. Le spiegazioni in tal modo offerte consentono di rintracciare agevolmente l'itinerario della scelta decisoria e sottraggono questa ad ogni sospetto di arbitrarietà o di illogicità. Esse, inoltre, esprimono un apprezzamento di fatto che i ricorrenti pretendono di contrastare attraverso censure il cui accoglimento presupporrebbe la rivisitazione del materiale probatorio acquisito agli atti e la formulazione di apprezzamenti fatalmente invasivi del merito della vicenda: operazione - questa - decisamente estranea allo scrutinio di legittimità.
Quanto al profilo del danno ambientale, va rilevato che del tutto correttamente i giudici del merito - una volta accertate le caratteristiche e l'entità delle opere eseguite nell'area protetta (v. pag. 8 cit.) -hanno ritenuto consumato nella fattispecie l'illecito descritto nella norma incriminatrice in epigrafe. In tema di tutela del paesaggio, del resto, il reato di cui all'art. 163 del D.L.vo 29 ottobre 1999 n. 490, ora sostituito in regime di continuità normativa dall'art. 181 del D.L.vo 22 gennaio 2004 n. 42, è fattispecie di pericolo. La sua offensività risiede nell'attitudine dell'opera di esporre a rischio - secondo valutazione ex ante - il bene protetto (Cass. pen. sez. 3A, 13 febbraio 2003 n 12863, ric. Abbate). Nella previsione di detta norma rientrano anche le ipotesi di esecuzione - in territori coperti da boschi ed in difetto della prescritta autorizzazione - di attività ed opere di bonifica, antincendio e di conservazione, qualora tali interventi comportino una apprezzabile modificazione dello stato dei luoghi, non essendo richiesto un concreto pregiudizio del bene protetto, atteso che la "ratio" della disposizione è quella di escludere la liceità di qualsiasi intervento modificativo, effettuato senza una preventiva valutazione dell'operazione da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo (Cass. pen. sez. 3A, sent. n 14292, 1 marzo 2002 ric. P.M. in proc. c. Negri A.).
Non possono essere accolte le doglianze contenute nel terzo e nel quinto motivo del ricorso Arzeni, sostanzialmente coincidenti con il secondo motivo del ricorso Laudani, inerenti il difetto dell'elemento psicologico del reato e vizio di contraddittorietà dell'impugnata decisione sul punto. La Corte d'appello ha invero chiaramente distinto le conseguenze che potevano derivare dall'illegittima opera della P.A. sul piano della componente soggettiva dei due diversi illeciti in contestazione. E con riguardo al reato paesaggistico, dopo avere evidenziato - anche "per relationem" ai contenuti descrittivi della prima sentenza - le particolari caratteristiche della zona nella quale era stato eseguito l'intervento (un'area "coperta quasi totalmente da vegetazione arborea ed arbustiva, sia nella parte di ampliamento a valle che nella parte di ampliamento a monte ... una strada immersa in una vegetazione molto fitta, con alberi anche di alto fusto di varia specie", inserita "nell'ambito di un più vasto territorio coperto da bosco"; un intervento "che non si è certo risolto in una manutenzione della situazione esistente", ma che si è realizzato attraverso l'allargamento della strada "mediante tagli di alberi e novellarne comportanti una significativa alterazione dello stato dei luoghi con alterazione permanente del contesto ambientale": pag. 17 e segg.), ha sottolineato che l'esistenza del vincolo paesaggistico-ambientale emergeva chiaramente - oltre che dal riconoscibile stato dei luoghi - da documentazione (decreto del Presidente della Giunta regionale, questionario del Corpo forestale per l'istruttoria della pratica di svincolo idrogeologico) che gli imputati non potevano in alcun modo ignorare:
se ciò è accaduto, non potevano comunque andare esenti da colpa, dovendo inferirsene che essi avevano agito "con evidente approssimazione e negligenza, oppure in malafede". La conclusione valutativa, che completa ed arricchisce analogo apprezzamento del giudice di prima istanza (pagg. 13 e segg.), appare incensurabile, nella sua coerente consequenzialità, anche con riferimento alle spiegazioni offerte per escludere che la tipologia degli interventi fosse assentibile con semplice atto autorizzativo. Del resto, l'illogicità della motivazione, che può essere denunciata a norma dell'art. 606, comma 1^ lett e) c.p.p., è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile "ictu oculi". E ciò in quanto l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Cass. pen. SS.UU. 24/09/2003 - 10/12/2003, sent. n. 47289, ric. Petrella). La Corte Suprema, in sostanza, non è chiamata a sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine alle risultanze di prova, bensì a stabilire se detti giudici abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione; se ne abbiano compiuto un corretto apprezzamento, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti; se i criteri logici seguiti nello sviluppo delle varie argomentazioni siano adeguati e coerenti alla definitiva selezione delle alternative decisorie. Il vizio logico della motivazione inoltre, nelle sue varie concrete espressioni - contraddittorietà, illogicità, omessa considerazione di circostanze decisive e, pur anche, travisamento di fatto - deve essere riscontrabile nel testo stesso della motivazione, attraverso il confronto tra le varie proposizioni che vi sono inserite. Ed è a tal fine che il giudice del merito ha l'obbligo di indicare con puntualità, chiarezza e completezza tutti gli elementi di fatto e di diritto sui quali fonda la propria decisione, condizione essenziale per consentire all'interessato di formulare le più appropriate censure ed alla Corte di Cassazione di esercitare la funzione di controllo, che le è propria.
Sotto tale ultimo aspetto può dirsi che si ha mancanza di motivazione ai sensi dell'art. 606 lett. e) c.p.p., non soltanto quando vi sia un difetto grafico della stessa, ma anche quando le argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione della fondatezza del suo convincimento siano prive di completezza in relazione a specifiche doglianze formulate dall'interessato con i motivi di appello e dotate del requisito della decisività. In tal caso spetta al giudice di legittimità - quale necessaria verifica dei presupposti di ammissibilità del ricorso - anche l'esame dell'impugnazione di merito al fine di accertare la congruità e la completezza dell'apparato argomentativo adottato dal giudice di secondo grado con riferimento alle doglianze mosse alla decisione del primo giudice. Osservate tali regole ed accertato che il processo formativo del libero convincimento del giudice ha seguito il corretto percorso valutativo, senza subire gli effetti di una riduttiva indagine conoscitiva o di un'imprecisa ricostruzione del contenuto della prova e che le obiezioni difensive hanno trovato sostantiva delibazione e pertinente risposta nell'impugnata decisione, lo scrutinio di legittimità deve ritenersi compiutamente esaurito. Nel caso in esame, il giudizio della Corte di merito conclude un'attenta rassegna delle obiezioni degli appellanti e discende da un accurato e specifico raffronto delle conseguenze che la presunzione di legittimità degli atti amministrativi riverberava sulla componente psicologica dei distinti tipi comportamentali in contestazione. All'esito, i giudici hanno tratto dalla macropica evidenza della lesione dell'interesse tutelato, accertata nella fattispecie ambientale, ragionevole e persuasivo argomento per escludere la "buona fede" degli incolpati.
È infondato, infine, il quarto motivo di ricorso dell'Aizeni, che coincide con il terzo ed ultimo dell'impugnazione Laudati. In tema di protezione delle bellezze naturali, invero, il generico rinvio all'art. 20 della legge 28 febbraio 1985 n. 47, utilizzato dall'art. 163 del D.Lgs 29 ottobre 1999 n. 490 per individuare la sanzione applicabile alle violazioni ivi contemplate, deve intendersi riferito alla pena prevista dalla lettera c) del citato art. 20. Non è infatti possibile, attesa la differenza sostanziale della tutela giuridica del paesaggio rispetto alla disciplina edilizia - in ragione della diversità degli scopi, dei presupposti e dell'oggetto delle due normative - alcuna trasposizione dei rispettivi istituti e, in particolare, il trasferimento di un regime sanzionarono, che è graduato in relazione a varie tipologie di interventi edilizi, al reato ambientale, per il quale il "vulnus" all'assetto paesaggistico non è dipendente dal grado di tali interventi. Tale è
l'insegnamento ormai costante della Corte Suprema (ex multis:
Cassazione Sez. 3^ n. 30866/2001; RV 220101; Cass. Sez. 3^ n. 2704, 5.02.1998, Cattalini, RV 210279; e, da ultimo: Cassazione sez. 3^, 25 maggio 2004, Castellucci), dal quale il Collegio non ritiene di doversi discostare. Per quanto precede i ricorsi devono essere rigettati, con le conseguenze di legge.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 15 luglio 2004.
Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2004