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Sez. 3, Sentenza n. 20401 del 27/04/2005 Ud. (dep. 31/05/2005 ) Rv. 231653
Presidente: Papadia U. Estensore: Petti C. Relatore: Petti C. Imputato: Tardelli. P.M. Consolo S. (Conf.)
(Dichiara inammissibile, App. Firenze, 26 Novembre 2001)
EDILIZIA - COSTRUZIONE EDILIZIA - Costruzione abusiva - Ordine di demolizione imposto dal giudice - Acquisizione del bene al patrimonio comunale - Incompatibilità con la demolizione - Condizioni e limiti.

L'acquisizione del manufatto abusivo al patrimonio comunale non è di ostacolo alla esecuzione dell'ordine di demolizione ove l'amministrazione non abbia manifestato, con una delibera consiliare, la esistenza di prevalenti interessi pubblici alla conservazione del bene, atteso che sia l'ordine di demolizione che l'acquisizione ipso iure del bene al patrimonio comunale tendono allo stesso risultato, ovvero il ripristino dello stato originario dei luoghi. (massima Fonte CED cassazione)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. PAPADIA Umberto - Presidente - del 27/04/2005
Dott. VITALONE Claudio - Consigliere - SENTENZA
Dott. PETTI Ciro - Consigliere - N. 856
Dott. GRILLO Carlo - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. LOMBARDI Alfredo Maria - Consigliere - N. 3819/2002
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
TARDELLI Sisto, nato a Massarosa (Lu) il 4 marzo del 1931;
avverso la sentenza della corte d'appello di Firenze del 26 novembre del 2001;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Ciro Petti;
udito il Pubblico Ministero nella persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CONSOLO Santi il quale ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;
letti il ricorso e la sentenza denunciata.
Osserva quanto segue:
IN FATTO
Con sentenza del 26 novembre 2001, la corte d'appello di Firenze, dopo avere premesso che il tribunale aveva omesso di pronunciarsi sulla richiesta di applicazione della pena concordata dalle parti, che tale omissione non determinava la nullità della sentenza e la regressione del processo al primo giudice; che la richiesta era stata sostanzialmente ribadita in appello, applicava nei confronti di Tardelli Sisto, la pena richiesta dalle parti nella misura di gg. 9 di arresto e lire novemilioni di ammenda, quale responsabile del reato di cui all'articolo 20 lett. b) della legge n. 47 del 1985 per avere, tra la fine del 1999 e gli inizi del 2000, costruito in Massarosa su una piazzola di cemento un manufatto delle dimensioni di m. 8 x 6,70 x m 3, adibito a ricovero attrezzi nonché una baracca in lamiera ondulata utilizzata come ripostiglio. Con la stessa sentenza la corte concedeva all'imputato il beneficio della sospensione condizionale della pena e ordinava altresì a norma dell'articolo 7 legge n. 47 del 1985 la demolizione del manufatto.
Ricorre per Cassazione l'imputato sulla base di due motivi. IN DIRITTO
Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 444 e seguenti c.p.p.. Assume che la corte territoriale, una volta che si è resa conto che il giudice di primo grado aveva errato nel non applicare il rito del patteggiamento, avrebbe dovuto rimettere gli atti al medesimo giudice affinché provvedesse all'applicazione della pena secondo la procedura di cui all'art. 444 c.p.p.. Con il secondo motivo sostiene che non si può procedere alla demolizione perché l'immobile è ormai divenuto di proprietà del Comune di Massarosa essendo rimasta inevasa l'ingiunzione alla demolizione notificatagli dall'ente territoriale. A conferma di tale tesi cita la giurisprudenza di questa stessa sezione secondo la quale, a norma dell'art. 7 comma 3 legge n. 47 del 1985, se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione disposta dal Sindaco ed al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dalla relativa ingiunzione, il bene e l'area di sedime sono acquisiti di diritto al patrimonio del Comune. Pertanto non può essere demolita un'opera non più di proprietà del condannato. Le censure sono inammissibili.
Con riferimento alla prima, come già statuito dalla corte territoriale, l'omessa pronuncia sulla richiesta d'applicazione della pena a norma dell'articolo 444 c.p.p. non determina la nullità della sentenza, poiché siffatta sanzione non è prevista dalla legge, ma legittima la parte a sindacare con l'atto d'appello l'omessa ratifica dell'accordo come qualsiasi altra omissione decisionale. Invero l'articolo 448 comma primo c.p.p., a seguito delle modifiche apportate con la legge n. 479 del 1999, consente la reiterabilità della richiesta di patteggiamento, sia nell'ipotesi in cui sia stata respinta dal g.i.p. o per la quale il P.M. non abbia prestato il consenso, che in quella in cui la richiesta sia stata rigettata dal giudice del dibattimento. In quest'ultimo caso provvede il giudice dell'impugnazione. La norma prevede espressamente l'ipotesi del rigetto della richiesta ma non quella dell'omessa pronuncia, ma quest'ultima situazione, che consiste in definitiva in un rigetto non enunciato, deve essere parificata alla prima, altrimenti si verificherebbe un'ingiustificata disparità di trattamento in presenza di situazioni sostanzialmente omologhe. In tale situazione il giudice dell'impugnazione, può emettere la pronuncia non adottata dal primo giudice, qualora la sentenza sia stata impugnata sul punto e la richiesta sia stata rinnovata in appello. Nella fattispecie la corte ha già ritenuto reiterata la domanda anche se l'appellante aveva chiesto la declaratoria di nullità della sentenza giacché tale pronuncia era finalizzata al conseguimento dell'applicazione della pena nella misura patteggiata, sulla premessa erronea che la richiesta a suo tempo avanzata in prime cure non potesse essere accolta dal giudice dell'impugnazione. Sotto tale profilo l'appellante non avrebbe interesse a ricorrere in cassazione per ottenere la nullità della sentenza e la regressione del processo al primo giudice al solo fine di ottenere l'applicazione della pena su richiesta dal momento che la sua istanza è stata comunque accolta. È ben vero che il giudice dell'impugnazione ha disposto ex officio la demolizione, ma tale provvedimento ufficioso non invalida il patto, trattandosi di sanzione amministrativa, non rientrante nella disponibilità delle parti, che il giudice può irrogare d'ufficio anche in caso di condanna patteggiata (cfr Cass. Sez. Un. 5777 del 1992; n. 64 del 1998; n. 65 del 2000).
Del pari inammissibile è anche la seconda censura a norma dell'articolo 606 ultimo comma c.p.p., trattandosi di una presunta violazione di legge non dedotta nei motivi d'appello. In proposito si rileva che l'acquisizione al patrimonio comunale si sarebbe verificata, secondo l'assunto del ricorrente, prima della pronuncia della stessa sentenza di primo grado, con cui tra l'altro si era disposta la demolizione del manufatto. Di conseguenza il ricorrente aveva l'onere di sottoporre la relativa questione al giudice d'appello anziché sollevare per la prima volta in cassazione il problema, che peraltro implica accertamenti di fatto, in ordine alla ritualità della notificazione dell'ingiunzione ed all'imputabilità dell'inosservanza, accertamenti che non possono essere espletati da questa corte. In ogni caso l'acquisizione del bene al patrimonio comunale non impedisce l'ordine di demolizione, se nel frattempo la pubblica amministrazione, con una delibera consiliare, non abbia manifestato una volontà contraria alla demolizione, giacché sia l'ordine impartito dal giudice che l'acquisizione ipso ture del bene al patrimonio comunale mirano a realizzare lo stesso risultato, ossia il ripristino dello stato originario dei luoghi mediante l'abbattimento dell'opera abusiva. Il contrasto si verifica solo allorché il Comune, con una delibera consiliare, manifesti l'esistenza di prevalenti interessi pubblici alla conservazione e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali (cfr. comma quinto articolo 7 legge n. 47 del 1985, sostanzialmente riprodotto nel comma quinto dell'articolo 31 del D.P.R. n. 380 del 2000 nonché per tutte Cass. n. 3489 del 2000). Dall'inammissibilità del ricorso discende l'obbligo di pagare le spese processuali e di versare una somma, che stimasi equo determinare in euro 500,00, in favore della Cassa delle Ammende, non sussistendo alcuna ipotesi di carenza di colpa del ricorrente nella determinazione della causa d'inammissibilità secondo l'orientamento espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 186 del 2000. P.Q.M.
LA CORTE
Letto l'art. 616 c.p.p., DICHIARA inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle ulteriori spese processuali ed al versamento della somma di euro 500,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2005.
Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2005