Cass. Sez. III n. 47300 del 30 dicembre 2021 (CC 30 nov 2021)
Pres. Marini Est. Galterio Ric. Baiocco
Urbanistica.Circolari ed altri atti interni alla pubblica amministrazione

Un atto interno alla pubblica amministrazione si risolve in un mero ausilio per i funzionari e non esplica alcun effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari, poiché non può comunque porsi in contrasto con l'evidenza del dato normativo. Lo status di indipendenza esterna riconosciuto, per costante giurisprudenza costituzionale, al pubblico ministero, impone infatti che la scelta sulle modalità della sua azione non possa che essere rimessa al singolo Procuratore della Repubblica, sicché lo stesso sarà vincolato nello svolgimento di tale attività solo al rispetto della legge e non all'osservanza di circolari interpretative del dato normativo emesse dalla pubblica amministrazione o di direttive adottate dagli uffici requirenti, con la conseguenza che deve ritenersi del tutto infondata qualunque censura che abbia ad oggetto la violazione di simili atti interni.

RITENUTO IN FATTO

1.Con ordinanza in data 3.6.2021 il Tribunale di Napoli-Sez. distaccata di Ischia, adito con incidente di esecuzione, ha rigettato la richiesta, formulata da Paolo ed Antonio Baiocco, succedutisi nella veste di legali rappresentanti della Mary Garden s.r.l., di revoca dell’ordine di demolizione, accessorio alla sentenza di patteggiamento emessa nei confronti del primo per reati edilizi in data 15.11.2002 e diventata irrevocabile, in relazione alle opere realizzate in assenza di titolo abilitativo all’interno del complesso alberghiero di proprietà della Mary Garden. A fondamento del diniego il G.E. ha ritenuto l’illegittimità sostanziale del provvedimento di sanatoria rilasciato dal Comune in data 29.12.2017, in accoglimento della domanda di condono inoltrata dagli istanti ai sensi della L. 724/1994, sia perché la data di ultimazione dei lavori, accertata con la sentenza passata in giudicato, risultava il 3.4.2001 e dunque ampiamente successiva a quella del 31.12.1993 valevole per il conseguimento del condono del 1994, sia perché i lavori eseguiti in ampliamento dell’immobile preesistente erano ampiamente superiori al limite di cubatura di 750 mc previsto dall’art. 39, primo comma della legge regolatrice il condono, non arginabile con la presentazione di due separate domande riguardanti il medesimo immobile.
2. Avverso il suddetto provvedimento gli istanti hanno congiuntamente proposto, per il tramite dei propri difensori, ricorso per cassazione articolando quattro motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all’art. 173 disp.att. cod.proc.pen..
2.1. Con il primo motivo censurano, in relazione al vizio di violazione di legge riferito agli artt. 39 e 43 L. 724/1994 e al vizio di manifesta illogicità motivazionale, l’elusione del limite di cubatura di 750 mc, deducendo che ai sensi della circolare del Ministero LL. PP. Del 17.6.1995 esplicativa dei criteri di applicazione della sanatoria, il limite volumetrico per la sua ammissibilità riguarda le sole costruzioni abusive a carattere residenziale, per le quali non sono suscettibili di definizione agevolata gli abusi superiori a 750 mc, ovvero al 30 per cento della costruzione originaria anche se superiore a detto limite, e non quelle destinate ad altri usi come desumibile dall’art. 39, sedicesimo comma che stabilisce che “anche in deroga ai limiti di cubatura di cui al primo comma del presente articolo", continuano ad applicarsi le riduzioni di cui al settimo comma dell'art.34 della legge 47/1985, relativo alle modalità di calcolo dell'importo dell'oblazione per gli immobili non residenziali in rapporto alla loro superficie o alla loro destinazione, e cioè agli immobili: industriali e artigianali (ivi inclusi gli immobili funzione direzionale); commerciali; a carattere sportivo, culturale o sanitario, religioso o di culto (dove l'ulteriore riduzione è stata portata al 50 per cento); turistico-ricettive, agrituristiche;  realizzati in zone agricole per la conduzione del fondo”. Deducono pertanto che, attenendo le opere in questione ad un immobile con destinazione turistico ricettiva occupanti una superficie utile complessiva di 303 mq. ed un volume di 933 mc., con un aumento di appena il 13,64% della volumetria originaria, la domanda di condono doveva ritenersi pienamente ammissibile in quanto riferita ad immobile con destinazione non residenziale per il quale è inoperante il limite volumetrico dei 750 mc. Assumono altresì il travisamento del fatto in ordine alla ritenuta insussistenza del requisito temporale di ultimazione delle opere, collimando, secondo il giudice dell’esecuzione, il completamento dei lavori – intesi come esecuzione del rustico e completamento della copertura - con la data del 3.4.2001 accertata, in difetto di differenti risultanze fornite dalla difesa, dalla sentenza passata in giudicato, e perciò ampiamente successiva alla data del 31.12.1993 fissata quale termine ultimo per il rilascio del condono disciplinato dalla L. n. 724/1994. Sostengono, invece, i ricorrenti che avendo presentato al Comune, ai fini della prova relativa all’epoca di ultimazione delle opere, una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, a fronte di tale atto, configurante un elemento di presunzione relativa consentito dalla stessa legge sul condono, l’onere di dimostrare la falsità del relativo assunto si era riversato sull’ente locale, il quale non lo aveva tuttavia mai contestato, onde la data del 31.12.1993 doveva ritenersi debitamente comprovata.
2.2. Con il secondo motivo deducono la violazione del divieto del ne bis in idem in relazione agli effetti prodotti nell’ordinamento interno dalla sentenza della Corte EDU nel procedimento Grande Stevens c. Italia del 4.3.2014, fondata sul rilievo che l’ordinamento nazionale non prevede adeguate forme di coordinamento tra il procedimento amministrativo e quello penale configurando l’ordine demolitorio amministrativo e penale una duplicazione del medesimo istituto. Rilevano al riguardo, traendo spunto dalla pronuncia delle Sezioni unite del 1987 Brum, che è all’autorità comunale che è riservata l’adozione del provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi, nel quale è compreso l’ordine demolitorio del fabbricato abusivo, laddove il giudice penale interviene solo a fronte dell’inerzia delle competenti autorità amministrative e dunque svolgendo un’attività di supplenza rispetto a queste ultime. Nel considerare la successiva evoluzione giurisprudenziale che ha chiarito che sono, invece, motivi di economia processuale ad attribuire all’autorità giudiziaria il potere-dovere di ordinare la demolizione così da rendere ineludibile ab externo la tutela dell’assetto del territorio e prefigurare un chiaro deterrente alla realizzazione dell’illecito urbanistico, afferma la difesa che è la sanzione demolitoria attribuita all’ente comunale a rivestire carattere penale attesa la natura pubblicistica degli interessi tutelati, la finalità repressiva tramite la stessa perseguita e la sua severità, connotati questi resi evidenti dalla maggior gravità delle conseguenze derivanti dalla sua mancata esecuzione rispetto all’ordine impartito dal giudice penale ai sensi dell’art. 31 d.P.R. 380/2001: è sufficiente al riguardo considerare che mentre l’inottemperanza all’ordine giudiziale comporta la sola distruzione fisica del bene abusivo, quella all’ordine del Comune determina l’automatica acquisizione al patrimonio comunale non solo del manufatto, ma altresì della relativa area di sedime, nonché  il pagamento da parte del contravventore di una sanzione pecuniaria di notevole entità, pari nel massimo a 20.000 euro, peraltro aumentabile e reiterabile dalle Regioni a statuto ordinario, così come prevista dal nuovo comma 4-bis dell’art. 31 citato. Si ribadisce inoltre la illegittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede l’applicabilità del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia risultato destinatario nell’ambito del procedimento amministrativo di un provvedimento definitivo volto all’applicazione della sanzione demolitoria alla quale deve riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali.
2.3. Con il terzo motivo contestano, in relazione al vizio di violazione di legge riferito agli artt. 173 cod. pen. e 6 CEDU e al vizio motivazionale, che alla sanzione demolitoria non possa applicarsi la prescrizione prevista per le pene principali così come affermato dall’ordinanza impugnata, rilevando che allorquando la sua esecuzione intervenga a distanza di numerosi anni dalla scoperta dell’abuso edilizio deve ritenersene la natura di sanzione penale come ritenuto dalla Corte EDU nella pronuncia del 27.2.2008 Hamer c. Belgio. Deducono che essendosi nel caso di specie l’inerzia dell’ufficio della Procura della Repubblica, come del resto quella dell’autorità comunale, protratta per oltre venti anni dalla scoperta dell’abuso contravvenendo all’art. 6 della CEDU secondo il quale ognuno ha diritto a che la sua causa sia esaminata in un tempo ragionevole, si era comunque ingenerata una posizione di legittimo affidamento, tenuto conto che anche l’esecuzione delle sentenze deve essere ritenuta parte integrante del processo penale e che nella specie tale inerzia non risultava giustificata dalla particolare complessità del caso, onde la sanzione in esame deve essere parificata ad una pena a tutti gli effetti.
2.4. Con il quarto motivo deducono la violazione del decreto adottato dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli in data 10.12.2015 contemplante i criteri da adottare per l’individuazione degli immobili da demolire secondo un ordine di decrescente priorità, contestando che tale protocollo sia soltanto di natura organizzativa interna all’ufficio. Evidenziano come risulti invece dallo stesso decreto che il suo fondamento normativo vada ravvisato nell’art. 1 d. lgs. 106/2006 che prevede  i criteri cui i magistrati debbano attenersi nell’esercizio dell’organizzazione dell’ufficio al fine di garantire l’uniforme applicazione della legge penale e che per quanto concerne l’esecuzione dell’ordine di demolizione emesso con sentenza passata in giudicato il criterio cronologico debba essere contemperato con i principi fondamentali di rilievo costituzionale quali il bene dell’ambiente, della salute pubblica, l’uguaglianza sostanziale, l’equità, la ragionevolezza, la solidarietà sociale, il diritto al lavoro e la funzione sociale della proprietà.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.In via preliminare va chiarito, stante la richiesta di discussione orale svolta dalla difesa con istanza trasmessa via PEC in data 2.10.2021, che il presente ricorso, in quanto relativo a provvedimento non emesso in dibattimento, risulta ricompreso fra quelli di cui è prevista dall’art. 611 cod. proc. pen., la trattazione in camera di consiglio senza l’intervento dei difensori, i quali possono soltanto fino a quindici giorni prima dell’udienza presentare motivi nuovi e memorie, nonché fino a cinque giorni prima, memorie in replica, ma non invece discutere in presenza la causa.
 Ciò premesso, il primo motivo deve ritenersi manifestamente infondato.
Premesso che, in presenza di un sopravvenuto atto concessorio da parte del competente organo comunale, il giudice dell’esecuzione, investito della richiesta di revoca dell’ordine di demolizione dell’opera dichiarata abusiva da una precedente sentenza di condanna per illeciti edilizi diventata irrevocabile, ha comunque il potere di sindacare l’atto amministrativo al fine di verificarne, sotto il profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione, la legittimità formale e sostanziale (Sez. 3, n. 25485 del 17/03/2009 - dep. 18/06/2009, Consolo, Rv. 243905), i rilievi spesi dal Tribunale ischitano in ordine alla disapplicazione del provvedimento di condono rilasciato dal Comune in accoglimento della richiesta degli odierni ricorrenti non possono ritenersi passibili di alcuna censura.
Ed invero, il giudice ha respinto l'istanza degli interessati evidenziando correttamente come al suo accoglimento ostassero sia l’elusione dei limiti volumetrici, sia il superamento del termine di ultimazione dei lavori previsti dalla L. 724/1994, in relazione alla quale era stata presentata dal legale rappresentante della Mary Garden s.r.l. la domanda di condono.
In ordine al primo profilo le pur suggestive argomentazioni sviluppate dalla difesa sull’inapplicabilità del limite dei 750 mc previsto dall’art. 39 L. 724/1994 agli immobili diversi da quelli ad uso residenziale in virtù della circolare dettata dal Ministero LL.PP. del 17.6.1995, si sfaldano a fronte della consolidata interpretazione  giurisprudenziale secondo la quale il limite di cubatura ivi previsto, nella specie ampiamente superato, costituisce una preclusione assoluta applicabile ad ogni tipologia di manufatto, indipendentemente dalla destinazione(Sez. 3, Sentenza n. 20889 del 10/06/2020 - dep. 15/07/2020, Di Somma, Rv. 279313; conf. Sez. 3, Sentenza n. 31955 del 01/07/2015 - dep. 22/07/2015, Di Gennaro, Rv. 264256) Trattasi di principio affermato non solo in sede penale, ma anche in sede civile ed amministrativa in ragione della ratio perseguita dal  legislatore di porre un limite inderogabile alla sanabilità ricollegato all'entità oggettiva degli abusi edilizi e, di conseguenza, della lesione inferta ai valori espressi dalla normativa urbanistica a tutela di un interesse pubblico preminente, non rilevando in senso contrario le disposizioni di deroga ("ai limiti di cubatura di cui al comma 1") dell'art. 39, comma 16, della stessa legge, che si riferiscono unicamente al pagamento (e alla misura) dell'oblazione, e non alla condonabilità dell'abuso.
Quanto all’epoca di ultimazione dei lavori, l’argomentazione spesa dalla difesa in ordine alla presunzione relativa che assiste la dichiarazione sostitutiva di atto notorio presentata dagli istanti all’ufficio comunale con l’attestazione che le opere oggetto del richiesto condono erano state completate in data 31.12.1993 è comunque superata dall’accertamento compiuto con autorità di giudicato dalla sentenza, costituente il titolo esecutivo azionato, che colloca alla data del 3.4.2001 l’ultimazione dell’intervento edilizio, inteso quale esecuzione al rustico, comprensiva cioè della copertura e delle tamponature esterne dell’edificio: accertamento questo che proprio in ragione della sua irrevocabilità a seguito di un procedimento svoltosi in contraddittorio spiega i suoi effetti erga omnes.
2. Il secondo motivo incorre nella censura di inammissibilità in ragione dell’astrattezza delle censure di cui si compone.
I ricorrenti, lungi dall’addurre una violazione concreta del principio del ne bis idem, si limitano a porre una questione meramente teorica sulla sussistenza del doppio binario conseguente alla duplicazione tra il procedimento penale e quello amministrativo, sfocianti entrambi nel settore degli illeciti edilizi nella sanzione demolitoria a fronte del medesimo fatto. Tuttavia, al di là delle disquisizioni sulla diversità della natura e delle finalità perseguite dai due procedimenti su cui si diffonde esaurientemente l’ordinanza impugnata, non risulta che gli istanti siano stati raggiunti da alcuna sanzione impartitagli dalla P.A., al contrario essendosi il Comune di Ischia pronunciato in termini di rilascio del condono edilizio. Le dispiegate doglianze non possono, pertanto, ritenersi assistite dal necessario interesse all’impugnativa: delineandosi la condizione di ammissibilità dell’impugnazione prevista dall’art. 568, quarto comma cod. proc. pen. nella finalità negativa, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale, e in quella, positiva, del conseguimento di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella oggetto del gravame, purché logicamente coerente con il sistema normativo (Sez. U, Sentenza n. 6624 del 27/10/2011 - dep. 17/02/2012, Marinaj, Rv. 251693), deve escludersi che la pretesa all’affermazione di un astratto principio giuridico, privo di attualità e concretezza, possa supportare la doglianza articolata dai ricorrenti con riferimento ad una questione che non lambisce comunque la loro posizione sostanziale, essendo stati raggiunti solo dall’ingiunzione di demolizione impartita dalla Procura della Repubblica, senza alcuna sovrapposizione di sanzioni provenienti dalla P.A.. Non essendo, invero, la Corte di Cassazione la custode della coerenza teorica dell’ordinamento giuridico, ne consegue che l'interesse alle dispiegate doglianze, quale condizione di ammissibilità dell'impugnazione, sussiste solo se il gravame è idoneo ad eliminare una decisione pregiudizievole per l'impugnante determinando per il medesimo una situazione pratica più vantaggiosa di quella esistente, risultato cui comunque non possono portare le disquisizioni in punto di astratta duplicazione tra procedimento penale e procedimento amministrativo riferito all’ordine demolitorio.
Conclusione questa che preclude alla radice anche la disamina della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa con riferimento all’art. 649 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede il divieto di un secondo giudizio quando l’imputato sia risultato destinatario per il medesimo fatto, nell’ambito di un procedimento amministrativo, di un provvedimento volto all’applicazione di una sanzione penale, trattandosi di questione irrilevante nel presente giudizio.
3. Anche il terzo motivo deve essere dichiarato inammissibile in ragione della sua manifesta infondatezza.
In ordine all’assunta natura penale che la difesa, mutuando la giurisprudenza sovrannazionale, ritiene applicabile all’ordine di demolizione in esame in ragione dello spropositato arco temporale intercorso tra la sua messa in esecuzione e la scoperta dell’illecito per effetto dell’inerzia tenuta dall’ufficio della Procura della Repubblica, ed al conseguente decorso del termine di prescrizione, va obiettato che in tal caso il decorso del tempo non deriva affatto da un’inattività dell’organo procedente, bensì dall’esercizio di una facoltà del destinatario dell’ordine demolitorio: non può invero prescindersi dal rilievo che sia stato Antonio Baiocco, nella veste allora ricoperta di legale rappresentante della Mary Garden, ad aver effettuato domanda di condono edilizio al Comune, la quale, comportando ope legis la sospensione del procedimento amministrativo in attesa della risposta dell’organo adito (resa solo in data 29.12.20018), ha impedito, quanto meno fino a tale data, la messa in esecuzione del provvedimento accessorio alla sentenza di condanna. Rilievo cui si aggiunge quello, del pari eloquente, secondo cui il destinatario dell’ordine ha tranquillamente usufruito nel corso di tutto il periodo trascorso dal passaggio in giudicato della pronuncia di condanna di un bene, ovverosia dell’immobile realizzato in violazione della legge, cui non aveva alcun diritto, determinando, peraltro, egli stesso per effetto delle domande di condono la protrazione del suo indebito godimento. Non può infatti essere sottaciuto che, incombendo in prima battuta sul condannato l’obbligo di provvedere spontaneamente alla demolizione dell’opera abusiva - condizione questa costituente un ulteriore argomento volto ad escludere la natura sanzionatoria del relativo ordine e a comprovarne invece la funzione ripristinatoria dell’assetto urbanistico violato -, e che a costui subentra solo in via sussidiaria, a fronte della sua inerzia, l’organo giurisdizionale, è quanto meno singolare che, malgrado il vantaggio di cui ha indebitamente fruito, sia l’esecutato a dolersi del tempo trascorso senza che l’ordine demolitorio sia stato eseguito.
4.Il quarto motivo incorre nella censura di inammissibilità per difetto di specificità.
Il ricorrente si duole in termini soltanto astratti del mancato rispetto del decreto adottato dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli con cui vengono fissati i criteri per l’individuazione degli immobili da demolire, ma non chiarisce quali siano stati gli ordini di priorità in concreto pretermessi e neppure se l’ordine demolitorio in esame sia stato eseguito anticipatamente o differito rispetto a quello che avrebbe dovuto essere l’ordine fissato: il che non consente, indipendentemente dalla natura del decreto richiamato, neppure di enucleare la configurabilità delle assunte violazioni.
Peraltro, questa Corte ha avuto più volte modo di chiarire che un atto interno alla pubblica amministrazione si risolve in un mero ausilio per i funzionari e non esplica alcun effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari, poiché non può comunque porsi in contrasto con l'evidenza del dato normativo (così da ultimo Sez. 3, Sentenza n. 26523 del 24/06/2020 - dep. 23/09/2020, Barone, Rv. 279915). Lo status di indipendenza esterna riconosciuto, per costante giurisprudenza costituzionale, al pubblico ministero, impone infatti che la scelta sulle modalità della sua azione non possa che essere rimessa al singolo Procuratore della Repubblica, sicché lo stesso sarà vincolato nello svolgimento di tale attività solo al rispetto della legge e non all'osservanza di circolari interpretative del dato normativo emesse dalla pubblica amministrazione o di direttive adottate dagli uffici requirenti, con la conseguenza che deve ritenersi del tutto infondata qualunque censura che abbia ad oggetto la violazione di simili atti interni (Sez. 3, n. 28781 del 16/05/2018, Rv.. 273359). Né rileva in senso contrario il riferimento operato dalla difesa agli artt. artt. 1 e 6 del d.l. n. 106 del 2006, norme che sarebbero a loro volta richiamate dal citato protocollo, dal momento che tali diposizioni si limitano a demandare al Procuratore della Repubblica il compito di stabilire i criteri cui i magistrati dell'ufficio devono attenersi nell'organizzazione del medesimo al fine garantire l'uniforme applicazione della legge penale e il rispetto delle norme sul giusto processo, consentendo però ai singoli uffici requirenti l'adozione dei provvedimenti attuativi di tali principi.
5. All’esito dei ricorsi consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento, nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente fissata come in dispositivo

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende
Così deciso il 30.11.2021