SPECULAZIONI AMBIENTALI

di Alberto PIEROBON

(pubblicato nella rivista “Nigrizia”, Verona, n.1/2012).

 

In questo periodo di crisi economica e del crollo del modello europeo industrializzato, molti imprenditori vanno in cerca di affari “ambientali”, spostandosi nei paesi del sud del mondo, in particolare in America Latina e Africa.

Un esempio (tra altri) è la ricerca di discariche esaurite col pretesto di bonificarle e/o di ottenere energia dal biogas (che viene prodotto dalla fermentazione dei rifiuti).

Concretamente, oltre a ottenere maggiori volumi utili (grazie alla compattazione/mineralizzazione dei rifiuti vecchi) e quindi ampliando la possibilità di conferire altri rifiuti, l’affare più lauto si nasconde nell’ottenimento dei cosiddetti Cdm (Clean Development Mechanism). Si tratta di strumenti che, al fine di stimolare processi virtuosi di sviluppo sostenibile a livello globale, consentono di effettuare investimenti per il trasferimento di tecnologie pulite o comunque volti a ridurre le emissioni nei paesi in via di sviluppo. Strumenti consentiti dal Protocollo di Kyoto (trattato internazionale firmato da 160 paesi nel dicembre del 1997) che impegna i paesi industrializzati firmatari a ridurre, in media del 5%, entro il periodo 2008-2012, le proprie emissioni di gas a effetto serra rispetto ai livelli rilevati nel 1990.

Per queste ragioni, da alcuni anni è partita la “caccia” in alcuni paesi del sud del mondo, alla ricerca di discariche da gestire per finalità, come detto, soprattutto economico-finanziarie piuttosto che ambientali. Operazioni, queste, da valutare con estrema attenzione: sotto l’etichetta di green economy si nasconde, infatti, una pericolosa finanziarizzazione del settore, con un elevato rischio bolla speculativa.

Un esempio: un imprenditore europeo decide di dedicarsi al recupero di biogas presso le discariche esaurite in Africa. Si organizza per trovare degli “agganci” locali, stipula degli accordi, redige un progetto di bonifica (magari facendoselo finanziare con fondi comunitari o internazionali) e lo invia al board Cdm (Clean Developement Mechanism) o alle Nazioni unite, all’ufficio Convenzione quadro United Nations Framework Convention on Climate Change) che lo approvano.

Vengono così riconosciuti dei certificati (Cer) che l’imprenditore può vendere nel cosiddetto “libero” mercato a un altro imprenditore europeo interessato ad acquistarli, in quanto proprietario di una azienda inquinante (acciaieria, cartiera, ecc.) che è obbligata, con il Protocollo di Kyoto, a pareggiare il proprio carico inquinante con l’altrui diminuzione di inquinamento (cioè, se inquina al controvalore di 10 quote deve acquistare sul mercato 10 quote).

Tutto questo è teoria e imbonimento. In realtà, l’imprenditore potrebbe avere già ceduto ad altri soggetti i Cer prima di produrli (per finanziarsi: una sorta di banca). Il mercato, infatti, è composto non solo da compratori e venditori, ma anche da brokers e da mercanti. Così, i Cer potrebbero essere acquistati da un fondo d’investimento lussemburghese, che ha intenzione di immagazzinare i Cer per poi (nel tempo, a seconda dei suoi calcoli) venderli con maggior profitto rispetto al difficile incontro tra domanda e offerta.

L’operazione, tuttavia, potrebbe essere ancora più ingegneristica: il fondo potrebbe proporre all’imprenditore un prezzo di mercato, studiando clausole contrattuali in grado da prevedere una parte (50%) di prezzo fisso, e una parte (50%) con uno sconto di un tot percento rispetto al prezzo che si realizzerà nel mercato (per esempio l’85% della quotazione), per la tutta la durata del contratto (7 anni), riconoscendo all’imprenditore un anticipo di 200.000 euro da scontare al 6% annuo (il pagamento dei primi certificati scala l'anticipo).

È importante notare (al di là della semplificazione fatta) che il prezzo ottenibile dalla vendita dei Cer non è solo un prezzo di mercato, bensì attiene ad altri aspetti connessi alla qualità del progetto, che influenzano moltissimo il livello dei prezzi e la affidabilità dei Cer (tra altro in giro ci sono molti certificati falsi o taroccati, di qui la stipula di contratti zeppi di clausole e di garanzie varie). Ma, soprattutto, la determinazione del prezzo di vendita dei CER è assai condizionata dalle prospettive del mercato che, si ripete, non è “sano” perché non è l’incontro tra domanda e offerta, essendo un mercato “finanziarizzato” (con futures, derivati, etc.).

Cerchiamo di rendere meglio comprensibile questo scenario, con un altro esempio ipersemplificato, ma concreto. Un imprenditore europeo, grazie anche a sovvenzioni pubbliche (altro aspetto che meriterebbe di essere approfondito) ha realizzato una bonifica in una discarica africana, spendendo (banalizziamo per farci capire) 9 dollari a quota, confidando, però, nell’immediata collocazione al mercato dei Cer a 11 dollari. Un fondo green giapponese si affaccia per acquistare l’impianto a 14 dollari per quota. L’imprenditore nicchia pensando di realizzare, a medio termine, una vendita a 16 dollari sul mercato che dovrebbe crescere … immagazzina quindi i certificati aspettando il tempo migliore, nel frattempo il mercato è pervaso da queste logiche di rinvio, diventando asfittico e piccolo, alterato nei valori che viaggiano.

La volatilità del mercato è alta, appunto perché segue logiche finanziarie. Infatti, al momento il mercato è ai minimi storici, per la crisi del debito europeo che crea scetticismo negli investitori, inoltre il mercato dei Cer soffre di una eccessiva offerta a causa dello smobilizzo dei certificati da parte degli investitori. Infine, il summit di Durban riguardo ai meccanismi di emanazione di certificati sembra dare segnali pessimistici che scoraggiano le negoziazioni sul mercato. Ma, allora, di cosa stiamo parlando? Di un meccanismo reale o, ancora una volta, di un mercato impregnato di finanza e di logiche mercantili?

Anche la Commissione europea sembra (nell'ambito del processo di revisione della Direttiva relativa ai mercati degli strumenti finanziari: Direttiva 2004/39/CE, cosiddetta "MiFID") aver intenzione di classificare, smascherando l’ipocrisia concettuale, le quote di Kyoto come strumenti finanziari. Il Consiglio Ambiente europeo, addirittura, in più occasioni ha fatto trapelare la volontà di voler alzare il prezzo di mercato delle quote, tagliando le quantità di CO2 disponibili per il mercato, così da alzarne il prezzo.

Insomma, oltre al giochetto normativo si opera con meccanismi economici che creano alterazioni di mercato apparentemente incentivanti la produzione di CER, in realtà occultanti forme di remunerazione per il mercato finanziario (per chi, ad esempio un fondo di investimento, detiene in portafoglio molti CER da “collocare” al momento giusto) che però fanno male all’ambiente.

Questo meccanismo, con gli opportuni adattamenti, si ritrova confermato anche per le biomasse, per la riforestazione, nelle spedizioni transfrontaliere di rifiuti, per le energie rinnovabili, eccetera.

E, gli esempi potrebbero continuare all’infinito, testimoniando di questa “contaminazione” (se non sudditanza) finanziaria, dove l’ambiente diventa oggetto di impresa o l’oggetto di una operazione finanziaria, perdendosi di vista le finalità originarie.

Insomma, emerge come la tutela dell’ambiente (diminuzione di CO2, grazie all’intercettamento e al recupero del biogas prodotto dai rifiuti ammassati in una discarica) diventa, anche grazie alla, come dire…. “connivenza” delle istituzioni comunitarie, solo il pretesto, l’occasione di un affare, null’altro.

E, intanto, i safari sono sempre più gettonati.