Cass. Sez. III n. 57914 del 29 dicembre 2017 (Ud 28 set 2017)
Presidente: Amoroso Estensore: Di Nicola Imputato: Di Palma ed altri
Urbanistica.Permesso di costruire fabbricati rurali in zone agricole
Il rilascio del permesso di costruire fabbricati rurali in zone agricole è subordinato ad un duplice requisito: il primo di natura soggettiva, costituito dallo status di proprietario coltivatore diretto, proprietario conduttore in economia, proprietario concedente, imprenditore agricolo, il secondo di natura oggettiva, rappresentato dal rapporto di strumentalità delle opere alla coltivazione del fondo, precisando che la ratio della previsione è ovviamente nel senso di evitare che qualsiasi individuo, benché sprovvisto della qualità di coltivatore, possa legittimamente costruire un immobile ad uso residenziale in zona agricola. Ciò avrebbe l’evidente conseguenza di consentire la trasformazione di una zona agricola, tutelata dall’ordinamento, in un’area sostanzialmente residenziale e si porrebbe quindi in contrasto con la ratio della disciplina vincolistica che è volta allo scopo di attuare un equilibrato componimento tra le contrapposte esigenze e cioè, da un lato, consentire una razionale possibilità di sfruttamento edilizio delle aree agricole per scopi di sviluppo economico e, dall’altro, garantire la loro destinazione esclusiva ad attività agronomiche.
RITENUTO IN FATTO
1. Carmine Di Palma, Sebastiano Granato, Francesco Perillo e Gaetano Tramonta ricorrono per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza emessa il 29 gennaio 2014 dal tribunale di Nola, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dei coimputati non ricorrenti, Paolo Granato e Maddalena Caccavale, per essere il reato a ciascuno ascritto estinto per intervenuta prescrizione; ha assolto Francesco Perillo dal reato sub 1), limitatamente alla condotta contestata alla lettera b) della rubrica, rideterminando nei suoi confronti la pena (per la restante parte del capo 1) concernente la lettera a) della rubrica e per i residui reati di cui ai capi 2 e 3) in anni uno e mesi cinque di reclusione; ha assolto altresì Gaetano Tramonta dal medesimo reato, limitatamente alla condotta contestata alla lettera a) della rubrica, rideterminando la pena nei confronti dello stesso (per la residua parte di cui alla lettera b) del capo 1) in mesi tre di arresto ed euro diecimila di ammenda; ha revocato la confisca dell’immobile ed ha confermato nel resto l’impugnata sentenza emessa dal tribunale di Nola, che aveva, a sua volta, condannato Sebastiano Granato, ritenuta la continuazione tra i reati i cui ai capi 1), 2) e 3) alla pena di anni uno mesi sei di reclusione e Carmine Di Palma alla pena di mesi quattro di arresto ed euro 15.000 di ammenda.
Per quanto qui interessa, le residue accuse mosse nei confronti degli attuali ricorrenti sono le seguenti.
1.1. A Sebastiano Granato, Gaetano Tramonta, Carmine Di Palma e Francesco Perillo si imputa il reato (capo 1) previsto dagli articoli 110 del codice penale, 44, comma 1, lettera b), d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380 perché, Granato in qualità di proprietario e committente, Tramonta in qualità di titolare della ditta esecutrice dei lavori, Di Palma in qualità di progettista e direttore dei lavori, Perillo in qualità di responsabile dell’Ufficio Tecnico Comunale (d’ora in poi UTC) e firmatario dei permessi a costruire, essendo stata autorizzata con permesso di costruire n. 21 del 19 dicembre 2005, variante n. 21/2008 del 27 febbraio 2009 la costruzione alla via Volpe sul fondo in catasto al folio 3 mappale 301 di un fabbricato rurale, lo realizzavano:
a) in assenza di valido permesso a costruire in quanto ai fini del calcolo della superficie realizzabile erano asserviti due fondi siti nel limitrofo Comune di Nola della superficie di mq 3990 e 2066, asservimento non consentito in quanto il proprietario non era in possesso dell’attestazione del riconoscimento della qualifica di Imprenditore Agricolo Professionale (d’ora in poi anche IAP), il cui rilascio rientrava nelle competenze della Regione Campania (condotta per la quale è stato assolto Gaetano Tramonta);
b) in totale difformità del permesso di costruire in quanto creavano una struttura destinata tutta ad uso residenziale.
In particolare:
al piano terra, al posto del varco di accesso per mezzi meccanici, ne costruivano uno più piccolo per l’accesso pedonale; costruivano un tramezzo in adiacenza alla scala che conduceva al primo piano; pavimentavano la parte posteriore destinata ad uso agricolo (…);
al primo piano la parte destinata in progetto ad uso non residenziale era pavimentata, dotata di impiantistica e in parte controsoffittata (condotta per la quale è stato assolto Francesco Perillo). Reato accertato in Scisciano il 19 febbraio 2010.
1.2. A Sebastiano Granato e a Francesco Perillo si imputa inoltre il reato (capo 2) previsto dagli articoli 110 e 480 del codice penale perché, in concorso e di intesa tra loro, Granato quale determinatore, Perillo responsabile dell'UTC di Scisciano, quale autore materiale, attestava, il Perillo, sul permesso a costruire n. 21 del 2008 che il Granato era in possesso di certificazione IAP rilasciata dalla Regione Campania in data 3 febbraio 2006, mentre in realtà in tale data risultava rilasciata esclusivamente attestazione da parte della Regione Campania di sufficiente capacità professionale nel settore agricolo, atto prodromico per l’ottenimento della qualifica di imprenditore agricolo a titolo professionale. In Scisciano il 27 febbraio 2009.
1.3. Ai predetti si imputa, ancora, il delitto (capo 3) previsto dagli articoli 110 e 323 del codice penale, perché, in concorso e di intesa tra loro, Perillo quale autore materiale, Sebastiano Granato richiedente il permesso di costruire quale determinatore, nello svolgimento il primo delle funzioni di responsabile dell'UTC di Scisciano, rilasciando il permesso a costruire n. 21 del 2008 con l’esonero dal pagamento degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione in violazione di quanto disposto dagli articoli 1 del decreto legislativo n. 99 del 2004, 16 e 17 del d.p.r. n. 380 del 2001 giacché il Granato non era in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale, procurava al richiedente il permesso di costruire l’ingiusto profitto patrimoniale costituito dal mancato pagamento delle somme dovute per le suindicate causali. In Scisciano il 27 febbraio 2009.
1.4. Dal testo della sentenza impugnata si apprende, in punto di fatto, che il procedimento è sorto a seguito di una indagine effettuata presso il Comune di Saviano dalla quale emergeva che in numerose pratiche, relative a richieste di natura edilizia, risultavano allegate false dichiarazioni da parte degli interessati di avere svolto attività nel settore agricolo percependo dalla stessa il 50% del proprio reddito globale, condizione che consentiva di ottenere benefici in ordine al pagamento degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione.
In tale ambito investigativo, venne valutata la peculiare posizione di Sebastiano Granato che, in virtù della riconosciuta qualifica di imprenditore agricolo da parte del Perillo, responsabile dell’UTC, ottenne il permesso di costruire in data 19 dicembre 2005 e autorizzazione alla variante del 27 febbraio 2009, realizzando altresì, secondo l’accusa, un edificio difforme da quanto assentito, con esonero dal pagamento degli oneri di urbanizzazione e dei costi di costruzione dovuti al comune.
In tale vicenda sono risultati inoltre coinvolti il Tramonta, quale titolare della ditta esecutrice dei lavori, ed il Di Palma quale progettista e direttore dei lavori.
1.5. In sintesi, era emerso che Sebastiano Granato ottenne un primo permesso di costruire in data 19 dicembre 2005, rilasciatogli dal Perillo, con esonero dal pagamento degli oneri di urbanizzazione, sul presupposto che egli fosse titolare di qualifica di IAP, esonero peraltro subordinato alla produzione, prima dell’inizio dei lavori, di certificazione attestante la indicata qualifica.
Il Granato produsse invece una mera attestazione di “capacità professionale nel settore agricolo”, rilasciata nel 2006, e successivamente, in data 16 giugno 2008, avanzò richiesta di autorizzazione di variante, con aumento di cubatura connesso all’aumentato indice di edificabilità, conseguente all’asservimento di altri fondi, che venne rilasciata in data 27 febbraio 2009, dandosi atto del possesso della qualifica di IAP, in realtà insussistente alla luce dell’incompleto iter amministrativo per il rilascio, deducibile proprio dalla certificazione prodotta.
1.6. Il Tribunale, escluso che potesse riferirsi a mero errore l’attribuzione di titolarità della qualifica richiesta per il conseguimento dei benefici, ha ritenuto, in ragione della normativa sul punto, infondata l’argomentazione difensiva secondo cui la qualifica di IAP fosse equipollente a quella di coltivatore diretto, che invece il Granato possedeva e che pure gli avrebbe consentito di ottenere l’esonero dal pagamento degli oneri di urbanizzazione, sottolineando come tale tesi fosse in contrasto con la scelta effettuata dal Comune, una volta emerso l’indebito esonero, di richiedere al Granato il pagamento dei suddetti oneri.
Peraltro era emerso che, per poter aumentare la cubatura, il Granato aveva asservito al fondo, dove doveva sorgere la costruzione, altri due fondi siti in diverso comune (Nola) ed inoltre la materiale realizzazione dell’immobile avvenne in difformità a quanto assentito sì da sovvertire la qualificazione agricola del fabbricato in favore di un franco utilizzo residenziale. Invero, al piano terreno, destinato al ricovero di mezzi, fu rilevata la presenza di opere che rendevano l’ambiente utile per uso residenziale; peraltro tale piano era collegato da una scala interna al piano superiore dove mancava la prevista parete di separazione tra la parte destinata ad uso agricolo e quella da utilizzare come abitazione; per di più i varchi di ingresso al piano terra erano insufficienti all’introduzione di mezzi agricoli. Essendo stata ordinata, una volta accertata tale irregolarità, la demolizione dell’ulteriore cubatura realizzata con l’indicato espediente e delle opere in difformità, il Granato, dato corso alla demolizione, richiese ed ottenne un permesso in sanatoria, ritenuto dal Tribunale palesemente illegittimo in quanto le opere non erano ab initio conformi alla normativa urbanistica.
Il Tribunale ha quindi concluso nel senso che tutto l’iter burocratico ed amministrativo, che aveva condotto alla realizzazione del manufatto, fosse espressione di una precisa volontà di aggirare la normativa urbanistica con specifico riguardo a quella in materia di benefici concessi all’IAP e comunque di consentire, anche attraverso le ulteriori irregolarità inerenti l’asservimento dei fondi siti in comune diverso, la realizzazione di cubature più ampie destinate a ricavare una civile abitazione, come era peraltro emerso dalle difformità riscontrate nella edificazione del manufatto.
2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza i ricorrenti sollevano, tramite i rispettivi difensori di fiducia, i seguenti motivi di impugnazione, qui enunciati ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Sebastiano Granato affida il ricorso ad un unico articolato motivo con il quale denuncia l’omessa e la manifesta illogicità della motivazione (articolo 606, comma 1, lettera e), del codice di procedura penale) in punto di responsabilità per i reati di cui al capo 2) [violazione dell’articolo 480 del codice penale in relazione all’articolo 110 stesso codice] e capo 3) [violazione dell’articolo 323 del codice penale in relazione all’articolo 110 stesso codice].
Sostiene che, con i motivi di impugnazione avverso la sentenza di primo grado, si era stigmatizzata la assoluta mancanza di prova circa rapporti di alcun genere tra il ricorrente e il Perillo e di qualsiasi sollecitazione esterna del primo nei confronti del pubblico ufficiale per il rilascio della variante al permesso di costruire con esonero dal pagamento degli oneri di urbanizzazione. Attesa l’indefettibilità - ai fini della sussistenza della responsabilità concorsuale dell’extraneus - di una <condotta attiva> del privato volta quantomeno a sollecitare il p.u. al compimento dell'atto illegittimo, la sentenza impugnata denuncia, secondo il ricorrente, un insanabile deficit motivazionale sul punto della responsabilità per il reato di abuso d’ufficio.
Né la Corte distrettuale ha specificato, come avrebbe dovuto, su quali basi probatorie, la condotta del pubblico ufficiale sarebbe stata istigata o determinata dall’extraneus.
2.2. Francesco Perillo affida il gravame a tre complessi motivi.
2.2.1. Con il primo motivo il ricorrente eccepisce la nullità della sentenza per mancanza (apparenza) ed illogicità della motivazione, vizio risultante dal testo della sentenza impugnata (articolo 606, comma 1, lettera e), del codice di procedura penale).
Assume che gli viene addebitato un unico fatto di favoritismo nei riguardi di privato. Come risulta dagli atti, allegati al ricorso, le emergenze processuali depongono nel senso che il Perillo è stato destinatario sin dal 2010 di provvedimento di archiviazione ampiamente liberatorio in ordine a tutte le ulteriori pratiche urbanistiche inizialmente oggetto di indagine.
Dunque, sarebbe improponibile l’evocazione di un contesto di illegalità nell’ambito del quale l’imputato, nella veste di responsabile dell’UTC, avrebbe svolto il ruolo di vero e proprio artefice di condotte abusive a favore di una pluralità di privati.
Osserva inoltre il ricorrente che il Granato era in possesso del requisito di coltivatore diretto da almeno tre anni, circostanza che consentiva al Perillo, siccome la legge prevedeva l’iscrizione con riserva per la qualifica IAP a chi fosse in possesso del predetto requisito, di rilasciare al privato richiedente il permesso di costruire n. 21 2005 del 19 dicembre 2005 con l’esonero momentaneo dal pagamento degli oneri concessori, purché nel termine di 24 mesi, a decorrere dalla presentazione della domanda, fosse prodotta l’attestazione IAP.
In data 27 febbraio 2009 venne rilasciato dal Perillo permesso di costruire (n. 21 del 2008) a seguito della presentazione da parte del Granato della attestazione di «sufficiente capacità professionale nel settore agricolo» concessa dalla Regione Campania il 3 febbraio 2006, sicché, venendo meno i plurimi profili di illegittimità, l’affermazione della responsabilità penale fonderebbe su un assunto illogico, travisante ed in sé apodittico non potendo il suddetto profilo essere ritenuto, come affermato dalla Corte territoriale, indicativo della volontà di favorire il privato, non ravvisandosi giustificazione diversa da tale finalità.
2.2.2. Con il secondo motivo, sviluppato sotto plurimi profili, il ricorrente deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale nonché il difetto e l’illogicità della motivazione su punti decisivi per il giudizio (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), del codice di procedura penale in relazione agli articoli 43, 323, 480 del codice penale e all’articolo 44 d.p.r. n. 380 del 2001).
Sostiene il ricorrente che, nel caso in esame, l’intero quadro accusatorio si fonda e presuppone necessariamente un <<accordo collusivo>>.
Ora, il giudice d'appello avrebbe eluso proprio il necessario accertamento probatorio sull’«accordo collusivo» (avendo affermato la sussistenza del concorso di persone “... indipendentemente dall’individuazione dell’accordo collusivo ...”, sentenza p. 14) finendo per identificare erroneamente il delitto di abuso nella mera (ed unica) violazione di legge e, in particolare, per desumere da essa il dolo di fattispecie (quasi fosse in re ipsa).
Rileva pertanto come la corretta ricostruzione storica della vicenda in esame veda, inizialmente, l’intervento del Perillo nell’iter procedimentale, assolutamente corretto, che porta al rilascio del permesso di costruire n. 21 del 19 dicembre 2005: l’esonero momentaneo dal pagamento degli oneri concessori subordinato al deposito dell'attestazione IAP nel termine di 24 mesi dalla presentazione della domanda.
Sostiene inoltre che il dato che le acquisizioni probatorie hanno consentito di accertare è che in effetti il Granato successivamente produsse attestazione di «sufficiente capacità professionale nel settore agricolo» rilasciata dalla Regione Campania in data 3 febbraio 2006.
Ora, ciò che il Perillo ha sempre affermato è di aver erroneamente ritenuto — forse anche per colpa — che l’attestato di cui sopra rappresentasse il riconoscimento della qualifica IAP, erroneo convincimento che condusse al secondo ed ultimo intervento del Perillo ovvero al rilascio del permesso di costruire n. 21 del 2008 con l'esonero del pagamento degli oneri concessori: quadro psicologico che in quanto tale comporta necessariamente il difetto del dolo, oltre che del reato contestato sub 1), della ipotizzata falsità ideologica che richiede, appunto la coscienza e la volontà dell’immutatio veri.
In argomento, il giudice dell’appello non avrebbe offerto un principio di risposta alle articolate e puntuali doglianze difensive.
Le risultanze processuali evidenziano, invece, che: a) la violazione di legge da parte del Perillo sarebbe unica; b) tale violazione discenderebbe dall’errore in cui l’imputato è incorso.
L'imputato ha, poi, inteso nel corso del processo avanzare, comunque, una diversa ed autonoma prospettazione difensiva: la tesi della equiparabilità della qualifica di «coltivatore diretto» (non già della qualità di «sufficiente capacità professionale») alla qualifica di «imprenditore agricolo professionale».
Meraviglia pertanto che, nell’ottica del ricorrente, tale concorrente linea difensiva sia stata, per assurdo, letta come prospettazione confliggente con la stessa difesa materiale dell’imputato, laddove il Perillo con onestà intellettuale aveva inteso riconoscere l’errore in cui era caduto (unicamente) all’atto del rilascio del permesso di costruire del 27 febbraio 2009; prospettazione difensiva confortata dalle acquisizioni probatorie e suscettiva di invalidare la tesi della intenzionalità della immutatio veri strumentale al favoritismo.
2.2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia l’erronea applicazione della legge penale nonché il difetto e l’illogicità della motivazione su punti decisivi per il giudizio (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), del codice di procedura penale in relazione all’articolo 175 del codice penale).
Rileva che, in tema di concessione del beneficio della non menzione, la Corte territoriale ha affermato che l’imputato non sarebbe stato meritevole della provvidenza “alla luce delle considerazioni sopra esposte in ordine alle connotazioni della vicenda e considerate le attività svolte dai predetti imputati anche con riferimento a rapporti con la pubblica amministrazione, non si ritiene di concedere la non menzione della condanna nel certificato penale”.
Obietta il ricorrente come la valutazione in ordine alla concessione del beneficio della non menzione della condanna debba tenere unicamente conto dei criteri di cui all’articolo 133 del codice penale senza la possibilità di ricorrere ad elementi ad esso estranei.
Conseguentemente, se sul punto specifico la seconda parte della motivazione fa riferimento ad un parametro spurio, la prima, per le considerazioni sopra svolte, si rivela infondata, in quanto una corretta ricostruzione dell’operato del Perillo porta ad escludere “connotazioni della vicenda” apprezzabili sul piano del disvalore del fatto.
2.3. Carmine Di Palma e Gaetano Tramonta affidano i ricorsi rispettivamente a tre ed a due motivi.
2.3.1. Con il primo motivo, sollevato esclusivamente da Carmine Di Palma, il ricorrente lamenta l’erronea applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche delle quali si deve tener conto nell'applicazione della legge penale (articolo 606, comma 1, lettere b), del codice di procedura penale in relazione all’articolo 44, comma 1, lettere b), d.p.r. n. 380 del 2001), con particolare riferimento alla ritenuta illegittimità della cessione di cubatura tra fondi finitimi di Comuni diversi in favore di soggetto privo del requisito di Imprenditore Agricolo Professionale dalla quale sarebbe scaturita l’illegittimità del permesso di costruire.
Osserva il ricorrente che l’epilogo cui è giunta la Corte di appello è erroneo sotto un duplice profilo: 1) sia perché l’asservimento tra fondi contigui è possibile sempreché i fondi ricadano in zone urbanistiche analoghe (tutti ricompresi, ad esempio, in Zona E) e l’esercizio del diritto edificatorio sia contenuto nei limiti della cubatura prescritta per la zona urbanistica; 2) sia perché la L.R. Campania 20 marzo 1982, n. 14, Titolo II, punto 1.8 non inibisce la cessione di cubatura in favore di un soggetto privo della qualifica di imprenditore agricolo a titolo professionale prevedendosi, in tal caso, l’obbligo di corresponsione degli oneri di urbanizzazione.
La cessione di cubatura è un contratto col quale si conviene di trasferire, in favore di un fondo cessionario, la capacità edificatoria del fondo cedente in modo da consentire la realizzazione sul fondo cessionario di un’opera di congrue dimensioni, superando le difficoltà tecniche ed urbanistiche correlate alle ridotte dimensioni dello stesso. L’asservimento di particelle, contigue a quella sulla quale viene posizionato il progetto per la realizzazione di un intervento edilizio, nasce da una pratica diffusa, avallata da dottrina e giurisprudenza che vi avrebbero ravvisato uno strumento legittimo per consentire lo sfruttamento di tutta la potenzialità edificatoria delle aree a disposizione di chi intende realizzare tale intervento, ponendosi, in tal modo, come rimedio all’infelice esposizione ovvero alla ridotta dimensione dell’area di progetto.
In buona sostanza, con l’asservimento, le aree asservite perdono, in tutto o in parte, ma definitivamente, la loro attitudine edificatoria in favore della particella di progetto. Condizione necessaria ed imprescindibile per la liceità dell’asservimento è la proprietà o, comunque, la disponibilità giuridica delle aree confinanti.
Nel caso di specie, gli atti di asservimento dei fondi finitimi e di cessione delle relative cubature in favore del Granato sono stati realmente e regolarmente sottoscritti dalle parti interessate ed acquisiti agli atti del procedimento penale. Il presupposto per la realizzazione di un fabbricato di dimensioni maggiori di quello inizialmente autorizzato col permesso di costruire n. 21 del 2005 è effettivamente sussistente e la legittimità dell'asservimento dei fondi finitimi non dipende dal possesso, o meno, della qualifica di I.A.P., bensì dal requisito della vicinorietà dei fondi finitimi a quello di progetto.
Il possesso, o meno, della qualifica di imprenditore agricolo professionale incide perciò esclusivamente sull’esonero dal pagamento dei costi di urbanizzazione e di costruzione ma non anche sulla legittimità della cessione di cubatura non essendone un presupposto. L’erroneo esonero dal pagamento degli oneri di urbanizzazione e di costruzione, fondato per l’appunto sulla ritenuta qualifica di I.A.P., determina la reviviscenza dell’obbligo tributario nei confronti dell’Ente Comunale ma non certo la nullità del permesso a costruire. Del resto, la giurisprudenza penale, con orientamento costante, ha chiarito che la validità della concessione edilizia non può dipendere dal versamento degli oneri di urbanizzazione, in quanto gli articoli 5, 11 e 15 della L. 28 gennaio 1977 n. 10, relativi ai contributi per tali spese, stabiliscono che il ritardo nel pagamento comporta, esclusivamente, la conseguenza dell'applicazione di sanzioni amministrative.
L'attività edilizia realizzata sulla base dei permessi a costruire, quindi, deve ritenersi pienamente legittima e posta in essere su titoli autorizzativi validi e conformi alla normativa edilizia ed urbanistica.
2.3.2. Con il secondo motivo, comune ad entrambi i ricorrenti, essi denunciano l’erronea applicazione della legge penale per aver ritenuto sussumibili nella fattispecie rilevante ai sensi dell’articolo 44, lettera b), D.P.R. n. 380 del 2001 le difformità dell’opera edilizia (articolo 606, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale in relazione agli articoli 31, comma 1 e 44, lettera b), D.P.R. n. 380 del 2001).
Argomentano che le difformità riscontrate in occasione del sopralluogo effettuato dalla polizia giudiziaria in data 19 febbraio 2010 non sono sussumibili nella fattispecie astratta di cui all’articolo 44 , lettera b), D.P.R. n. 380 del 2001. La norma punisce con la sanzione penale, infatti, la “totale difformità” dal progetto autorizzato col permesso di costruire e non, invece, ogni difformità da esso.
Osservano i ricorrenti che secondo la costante giurisprudenza di legittimità si avrebbe difformità totale delle opere rispetto al permesso di costruire allorché si costruisca aliud pro alio vale a dire quando i lavori eseguiti tendano a realizzare opere non rientranti tra quelle consentite, che abbiano una loro autonomia e novità, oltre che sul piano costruttivo, anche su quello della valutazione economico sociale.
La giurisprudenza, conseguentemente, ha definito la “difformità parziale” come la variazione dell’opera dal progetto in relazione a parti accessorie dell'organismo edilizio, prive di specifica rilevanza ed insuscettibili di utilizzazione autonoma.
Sostengono quindi che le opere realizzate in difformità dal permesso di costruire rilasciato dal Comune di Scisciano appaiono sussumibili nella seconda delle categorie esaminate: l’aver pavimentato una porzione di piano così come l'aver realizzato un tramezzo non ha inciso né sulla struttura, né sulla funzionalità, né sulla volumetria dell’organismo edilizio. Parimenti è a dirsi per la predisposizione degli impianti nella porzione di fabbricato destinato all’uso agricolo.
2.3.3. Con il terzo motivo, anch’esso comune ad entrambi i ricorrenti, si deduce l’erronea applicazione della legge penale per decorrenza del termine di prescrizione del reato contravvenzionale ex articolo 44 D.P.R. n.380 del 2001 (articolo 606, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale in relazione all’articolo 157 del codice penale).
Si afferma che la Corte di appello ha dato atto in sentenza che, in occasione del sopralluogo effettuato dalla polizia giudiziaria in data 12 febbraio 2010, gli interventi edilizi in parziale difformità coi titoli risultavano già realizzati ed ultimati (cfr. sentenza impugnata, pag. 15). Il permesso di costruire originario, del resto, era stato rilasciato in data 19 dicembre 2005 dal Comune di Scisciano mentre il permesso di costruire in variante veniva rilasciato in data 27 febbraio 2009: tanto risulta dalla documentazione acquisita al fascicolo dibattimentale le cui risultanze sono state richiamate in sentenza (cfr. sentenza impugnata, pag. 3 e ss.).
Le opere difformi dai titoli autorizzativi, pertanto, sono state realizzate certamente in un tempo antecedente alla data dell'accertamento da parte della polizia giudiziaria risalente al 12 febbraio 2010. L'incertezza relativa alla data di effettiva realizzazione delle opere difformi oggetto dell'imputazione comporta, in applicazione del principio del favor rei, una retrodatazione dell’epoca di realizzazione degli interventi edilizi.
Alla data di celebrazione del dibattimento d'appello, quindi, risultava già maturato il termine prescrizionale massimo previsto dall’articolo 157 del codice penale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi proposti da Sebastiano Granato e Francesco Perillo sono parzialmente fondati mentre quelli proposti da Carmine Di Palma e Gaetano Tramonta sono inammissibili per le considerazioni che seguono.
2. Va preliminarmente chiarito che Sebastiano Granato non ha impugnato il capo della sentenza di condanna per il reato di abuso edilizio (capo 1 della contestazione), avendo sollevato motivi di gravame esclusivamente nei confronti dei capi 2 (falsità ideologica in autorizzazioni) e 3 (abuso d’ufficio) della rubrica, con la conseguenza che, nei suoi confronti, è maturato il giudicato interno parziale in ordine al predetto capo 1).
In effetti, neppure con i motivi di appello il ricorrente ha mosso rilievi rispetto alla contravvenzione urbanistica e tantomeno ha confutato l’identico approdo cui era pervenuto il giudice di secondo grado quando, nel sintetizzare le doglianze sollevate con l’impugnazione, aveva affermato come non si fosse contestato “che l’ampliamento realizzato a seguito della variante del 2009 in assenza della qualifica soggettiva che avrebbe consentito l’asservimento dei fondi sia avvenuto in maniera illegittima, che siano state realizzate le contestate opere in difformità dell'assentito e che sussista la contravvenzione contestata al capo 1) lettera a)”.
Né il ricorrente può giovarsi dell’effetto estensivo dell’impugnazione proposta dai coimputati in quanto, per il predetto capo della sentenza, i ricorsi sono stati dichiarati inammissibili, restando perciò confermata la responsabilità penale dei concorrenti per il reato di abuso edilizio.
3. Invece i ricorsi del Granato e del Perillo non sono manifestamente infondati, né inammissibili per altre cause, in relazione ai reati di cui ai capi 2) e 3), con la conseguenza che, essendo nel frattempo maturata una causa estintiva dei reati, i delitti, ai ricorrenti rispettivamente ascritti in concorso tra loro, vanno dichiarati estinti per intervenuta prescrizione.
Come si ricorderà, i ricorrenti si sono doluti dell’assoluta mancanza di prova (e di adeguata motivazione in proposito) circa l’esistenza di rapporti “collusivi” tra loro, non avendo la Corte territoriale motivato su quali basi probatorie la condotta del pubblico ufficiale sarebbe stata istigata o determinata dall’extraneus, posto che neppure sarebbe stata accertata alcuna sollecitazione proveniente dal privato nei confronti del pubblico agente per il rilascio della variante al permesso di costruire, con esonero dal pagamento degli oneri di urbanizzazione, e del fatto che il giudice d’appello avrebbe eluso proprio il necessario accertamento probatorio sull’«accordo collusivo» (avendo affermato la sussistenza del concorso di persone “...indipendentemente dall’individuazione dell'accordo collusivo...”), finendo perciò per identificare erroneamente il delitto di abuso nella mera (ed unica) violazione di legge e, in particolare, per desumere da essa il dolo di fattispecie (quasi fosse in re ipsa).
In realtà la Corte territoriale ha affermato che il permesso di costruire in variante, rilasciato al Granato dal Perillo, presentava due specifici profili di illegittimità inerenti l’aumento di cubatura (i fondi accorpati appartenevano a comuni diversi) e la mancanza, in capo al richiedente, della qualifica di IAP, qualifica necessaria, per espressa disposizione normativa e costante interpretazione giurisprudenziale, per l’asservimento dei fondi ed in alcun modo equiparabile a quella del coltivatore diretto.
Da ciò, la Corte del merito ha tratto argomento per sostenere che – in presenza di plurime e gravi illegittimità, quali quelle nella specie richiamate, le quali avevano caratterizzato il rilascio del permesso di costruire concesso al Granato – si fosse al cospetto, “indipendentemente dall’individuazione di un accordo collusivo”, di un’evidente asservimento della pubblica funzione all’interesse del singolo.
L’argomento speso avrebbe, tuttavia, potuto giustificare, a condizioni esatte, la responsabilità del pubblico agente, non anche (e necessariamente) quella del privato, salvo che a quest’ultimo si fosse motivatamente rimproverato, sia pure sulla base dei medesimi profili di illegittimità in precedenza evidenziati, una ipotesi di concorso nella forma della determinazione o dell’istigazione criminosa, e non quindi indipendentemente dal pactum sceleris.
Peraltro, siffatto accertamento – e quindi una puntuale motivazione che avesse destrutturato i rilievi sollevati con l’atto di appello nei confronti della prima sentenza, anche in punto di prova circa la sussistenza del dolo intenzionale – era tanto più necessario e doveroso in quanto l’assunto difensivo formulato dal Perillo era proprio nel senso che egli avrebbe erroneamente ritenuto — quantunque per colpa — che l’attestato (di «sufficiente capacità professionale nel settore agricolo» rilasciato dalla Regione Campania in data 3 febbraio 2006 al Granato) rappresentasse il riconoscimento della qualifica IAP, erroneo convincimento che condusse al secondo ed ultimo intervento del ricorrente ovvero al rilascio del permesso di costruire n. 21 del 2008 con l’esonero del pagamento degli oneri concessori, comportando ciò la definizione quindi di un quadro psicologico indicativo del difetto del dolo tanto del reato di abuso d’ufficio, quanto del delitto di falsità ideologica richiedente necessariamente la coscienza e la volontà dell’immutatio veri.
La necessità poi di una puntuale motivazione sul punto era ancor più richiesta in presenza di altre due fondamentali circostanze: a) la totale svalutazione (fatta eccezione per la vicenda Granato) degli elementi indiziari di partenza che ipotizzavano il Perillo inquadrato in un vasto e diffuso clima di illegalità nel rilascio dei titoli autorizzativi (circostanza smentita dall’istruttoria con conseguente archiviazione di tutte le accuse ipotizzate, salvo quella di cui al presente procedimento); b) il diverso approdo, parzialmente adesivo della linea difensiva dell’imputato, cui era giunto il GIP in sede (di rigetto) di misure cautelari secondo cui, in assenza di qualsivoglia prova della sussistenza di particolari rapporti interpersonali tra i ricorrenti, la condotta dell’imputato, per quanto gravemente colposa, non poteva essere, con certezza, illuminata dal dolo intenzionale di fattispecie, normativamente richiesto per l’integrazione del delitto di abuso d’ufficio.
A questo proposito, va chiarito come la Corte del merito abbia correttamente ricordato il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, che il Collegio condivide, secondo il quale, in tema di abuso d’ufficio, la prova del dolo intenzionale che qualifica la fattispecie non richiede l’accertamento dell’accordo collusivo con la persona che si intende favorire, ben potendo essere desunta anche da altri elementi sintomatici quali, ad esempio, la macroscopica illegittimità dell’atto (Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, Scaramazza, Rv. 258290) e ben potendo l’intenzionalità del vantaggio prescindere dalla volontà di favorire specificamente un determinato privato interessato alla singola vicenda amministrativa (Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, Rv. 260233; Sez. F, n. 38133 del 25/08/2011, Farina, Rv. 251088).
Pur avendo fatto corretto richiamo a tali principi, la Corte territoriale, incorrendo nel vizio di motivazione denunciato, ha tuttavia omesso di considerare che la macroscopica illegittimità dell’atto non può essere ritenuta in maniera apodittica e parziale ma deve costituire il risultato di una ponderata valutazione del complessivo comportamento dell’agente e di tutte le risultanze processuali che a detto comportamento si riferiscono e con le quali il giudice del merito è tenuto a confrontarsi, soprattutto quando, come nel caso in esame, alcune di dette risultanze, quantunque confermative della violazione di legge, siano tuttavia concretamente dotate di una carica dimostrativa tale da rendere discutibile la macroscopica illegittimità degli atti perché, se quest’ultima indubbiamente comporta una violazione di legge, integrando l’elemento normativo della fattispecie penale, non tutte le violazioni di legge si risolvono necessariamente in una macroscopica illegittimità dell’atto o degli atti compiuti dal pubblico amministratore.
In altri termini, quando l’illegittimità dell’atto, pur sussistente, non sia macroscopica oppure quando manchi, come nella specie, una adeguata e logica motivazione su punti decisivi al fine di sovvertire (o meno) il giudizio di evidente illegittimità dell’elemento normativo di fattispecie, la prova del dolo intenzionale deve essere ricavata da elementi ulteriori rispetto al comportamento “non iure” osservato dall’agente, che evidenzino la effettiva “ratio” ispiratrice del suo comportamento (Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280), cosicché la certezza della prova del dolo (intenzionale), ossia che la volontà dell’imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto, non può, in questi casi, provenire esclusivamente dal comportamento “non iure” osservato dall’agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, quali la specifica competenza professionale del soggetto attivo, l’apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento, la presenza o meno di anomalie istruttorie ed i rapporti personali tra l’agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno (Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Barla, Rv. 255368; Sez. 6, n. 35814 del 27/06/2007, Pacia, Rv. 237916).
Quindi, nel caso in esame, occorreva, quanto alla ritenuta responsabilità concorsuale del privato (Granato), una adeguata e logica motivazione circa la integrazione della fattispecie concorsuale e, quanto alla ritenuta responsabilità (anche solo monosoggettiva) del pubblico agente (Perillo), una spiegazione, circa la ritenuta macroscopicità delle riscontrate illegittimità, che tenesse in debito conto il fatto che, con i motivi di appello, gli imputati avevano evidenziato elementi idonei a inficiare il giudizio di evidente illegittimità del rilascio del permesso di costruire, tali da consentire di escludere, se non congruamente disattesi, il previo concerto e/o l’istigazione nonché la determinazione criminosa del privato e di accreditare il pubblico agente di una condotta erronea, quantunque gravemente colposa, inidonea a radicare tanto il reato di abuso quanto il reato di falso, condotta colposa come tale peraltro valutata dal giudice della cautela in una fase avanzatissima delle indagini preliminari, allorquando gli accertamenti investigativi poggiavano su un quadro “probatorio” abbastanza definito tanto da escludere, con grado di sufficiente certezza e comunque non più posto in discussione, il compimento di altre illegittimità, pure nel contempo (ma a torto) ipotizzate, da parte del Perillo.
3.2. Sulla base delle precedenti considerazioni, la motivazione della Corte territoriale deve pertanto ritenersi, da un lato, mancante in punto di prova del concorso da parte del privato nonché di prova del dolo intenzionale da parte del pubblico agente e, dall’altro, deve comunque ritenersi che i ricorsi abbiano comunque superato in parte qua il vaglio della manifesta infondatezza.
Sotto il primo aspetto, cioè quanto al rilevato vizio di motivazione, è il caso di sottolineare come la Corte territoriale, pur avendo chiaramente individuato la violazione di legge e delineato taluni aspetti dai quali ha ritenuto di desumere la macroscopica illegittimità dell’atto (pag. 11 ss. della sentenza impugnata), abbia tuttavia omesso di confrontarsi su punti decisivi per il giudizio e cioè su due fondamentali dati probatori acquisiti al corredo processuale i quali, come risulta dal testo della sentenza impugnata, non sono stati presi nella congrua considerazione, cosicché non è stata fornita alcuna adeguata e logica spiegazione della loro presunta inidoneità al ribaltamento del formulato giudizio di macroscopica illegittimità degli atti e sul quale è stata fondata tanto la prova (a tutto concedere) del concorso di persone nel reato, quanto la prova del dolo intenzionale, nonostante tali punti, la cui valenza è stata ribadita con i ricorsi per cassazione, ai quali sono stati allegati gli atti del processo riproduttivi di dette risultanze, fossero stati sottoposti specificamente alla cognizione del giudice d’appello con i motivi di gravame.
Pertanto, essendo nel frattempo maturata, con riferimento ai capi 2) e 3) della rubrica, la prescrizione dei reati, deve essere richiamata la uniforme giurisprudenza di legittimità secondo cui deve escludersi che il vizio di motivazione della sentenza impugnata possa essere, in questi casi, rilevato dal giudice di legittimità.
Il quale deve perciò limitarsi a dichiarare l’estinzione del reato perché, in caso di annullamento con rinvio, esito al quale ordinariamente conduce il vizio di motivazione, il giudice della fase rescissoria si troverebbe nella medesima situazione che gli impone l’obbligo della immediata declaratoria della causa di estinzione del reato, senza possibilità alcuna di porre riparo al vizio rilevato.
Deve pertanto essere ribadito il principio secondo il quale, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244275), cosicché la sentenza impugnata, assorbiti gli altri motivi del ricorso Perillo, deve essere annullata senza rinvio in ordine ai reati di cui ai capi 2) e 3) della rubrica per essere detti reati estinti per intervenuta prescrizione.
4. A questo punto, restano da valutare i motivi di impugnazione sollevati in ordine alle contestate violazioni urbanistiche.
4.1. Innanzitutto, se anche si volesse sostenere che il Perillo, a differenza del Granato, abbia implicitamente impugnato il capo della sentenza di condanna riportata in ordine all’imputazione di cui a numero 1) lettera a) dell’imputazione, deve immediatamente rilevarsi non soltanto l’inammissibilità del gravame per mancanza di specificità dei motivi di impugnazione ma anche il fatto che il ricorrente, ammettendo di essere incorso in un grave errore nel rilascio del permesso di costruire (pag. 6 del ricorso), ha sostanzialmente ammesso l’addebito relativo alla violazione urbanistica per la cui integrazione, trattandosi di contravvenzione non strutturalmente dolosa, è sufficiente la presenza della colpa penale.
Da ciò consegue che l’inammissibilità del ricorso in parte qua non consente di rilevare la prescrizione del reato non maturata al momento dell’emanazione (10 febbraio 2015) della sentenza di appello, tanto sul rilievo che, in caso di ricorso avverso una sentenza di condanna cumulativa, che riguardi più reati ascritti allo stesso imputato, l’autonomia dell’azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione impedisce che l’ammissibilità dell’impugnazione per uno dei reati possa determinare l’instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in relazione ai quali i motivi dedotti siano inammissibili, con la conseguenza che per tali reati, nei cui confronti si è formato il giudicato parziale, è preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello (Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, dep. 2017, Aiello Rv. 268966).
Per quanto attiene, invece, alla posizione del Granato, l’impugnazione sul detto capo, come in precedenza osservato, non è stata proposta (v. sub 2 del considerato in diritto).
4.2. Tuttavia è necessario procedere, per entrambi i ricorrenti, alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio, posto che la pena per il reato urbanistico è stata applicata in continuazione, il cui vincolo è stato sciolto per effetto della rilevata prescrizione dei reati concorrenti, al più grave delitto di abuso di ufficio.
Perciò, dichiarato inammissibile nel resto il ricorso di Francesco Perillo, la sentenza da costui impugnata va annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per la rideterminazione della pena in ordine al residuo reato di cui al capo 1) e, per l’effetto estensivo, anche con riferimento al coimputato Sebastiano Granato.
5. Il primo motivo del ricorso Di Palma e il secondo motivo, al quale è comune il primo motivo del ricorso Tramonta, sono inammissibili per manifesta infondatezza e possono essere congiuntamente esaminati per essere tra loro strettamente connessi.
I ricorrenti, nella sostanza, reiterano le stesse doglianze che avevano mosso alla sentenza di primo grado e che sono state motivatamente disattese dal giudice di appello.
La Corte partenopea – quanto alla questione inerente l’aumento di cubatura oggetto specifico della variante concessa in virtù di un asservimento che, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, era consentito unicamente a colui che avesse la qualità di imprenditore agricolo professionale e che in ogni caso non poteva avvenire tra fondi insistenti nel territorio di diverso comune – ha sottolineato che il punto 1.8 del Titolo II, della L.R. Campania 20 marzo 1982, n. 14 consentiva l’asservimento della cubatura di lotti contigui al solo imprenditore agricolo a titolo principale, di cui all’articolo 1 del d.lgs. 29 marzo 2004 n. 99 come modificato dal d.lgs. 27 maggio 2005 n. 101 e per le sue necessità abitative, posto che, per le altre categorie (proprietari coltivatori diretti, proprietari conduttori in economia, proprietari concedenti), la normativa regionale non conteneva alcun riferimento all’istituto dell’asservimento, né alcun rinvio alla pregressa previsione dettata per l’imprenditore agricolo.
I ricorrenti invece utilizzano una parte della disposizione citata valorizzando un aspetto del tutto non pertinente al caso in esame, laddove la norma regionale, nel consentire a determinate condizioni il rilascio del permesso di costruire in zona agricola, dispone che “nelle zone agricole la concessione ad edificare per le residenze può essere rilasciata per la conduzione del fondo esclusivamente ai proprietari coltivatori diretti, proprietari conduttori in economia, ovvero ai proprietari concedenti, nonché agli affittuari o mezzadri aventi diritto a sostituirsi al proprietario nell’esecuzione delle opere e considerati imprenditori agricoli titolo principale ai sensi dell'art. 12 della L. 9 maggio 1975, n. 153”.
Sul punto, osserva la Corte come giurisprudenza amministrativa abbia opportunamente avvertito, senza contrasti, che dalla richiamata disposizione emerge che il rilascio del permesso di costruire fabbricati rurali in zone agricole è subordinato ad un duplice requisito: il primo di natura soggettiva, costituito dallo status di proprietario coltivatore diretto, proprietario conduttore in economia, proprietario concedente, imprenditore agricolo, il secondo di natura oggettiva, rappresentato dal rapporto di strumentalità delle opere alla coltivazione del fondo, precisando che la ratio della previsione è ovviamente nel senso di evitare che qualsiasi individuo, benché sprovvisto della qualità di coltivatore, possa legittimamente costruire un immobile ad uso residenziale in zona agricola. Ciò avrebbe l’evidente conseguenza di consentire la trasformazione di una zona agricola, tutelata dall’ordinamento, in un’area sostanzialmente residenziale e si porrebbe quindi in contrasto con la ratio della disciplina vincolistica che è volta allo scopo di attuare un equilibrato componimento tra le contrapposte esigenze e cioè, da un lato, consentire una razionale possibilità di sfruttamento edilizio delle aree agricole per scopi di sviluppo economico e, dall’altro, garantire la loro destinazione esclusiva ad attività agronomiche.
Risulta perciò del tutto destituita di ogni fondamento l’asserzione del Di Palma secondo la quale la L.R. Campania 20 marzo 1982, n. 14, Titolo II, punto 1.8 non inibisce la cessione di cubatura in favore di un soggetto privo della qualifica di imprenditore agricolo a titolo professionale perché invece la norma regionale espressamente richiede, ai fini dell’accorpamento di lotti non contigui (e, peraltro, ubicati nello stesso comune), il possesso di detta qualifica, dal Granato pacificamente non conseguita.
Nel caso di specie, infatti, la Corte del merito, nel pervenire alla conclusione secondo la quale la disposizione regionale consentiva l’accorpamento di lotti di terreni non contigui unicamente a colui che avesse la qualità di imprenditore agricolo professionale, ha correttamente considerato che, per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, comprese le residenze e la conduzione del fondo, non è sufficiente, per usufruire della disciplina derogatoria di favore, la mera qualifica di imprenditore agricolo ma occorre quella di imprenditore agricolo a titolo professionale, per esso intendendosi, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, del d.lgs. n. 99 del 2004, colui che, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell’articolo 5 del regolamento (CE) n. 1257 del 17 maggio 1999, dedica alle attività agricole di cui all’articolo 2135 del codice civile, direttamente o in qualità di socio di società, almeno il 50% del proprio tempo di lavoro complessivo e dalle suddette attività ricavi almeno il 50% del proprio reddito globale da lavoro, atteso che l’interpretazione dell’articolo 1, comma 1, del d.lgs. n. 99 del 2004, svolta alla stregua dei consueti canoni ermeneutici e considerando anche la ratio sottesa alla disciplina in materia, induce a ritenere che, al fine del riconoscimento della qualifica I.A.P., assume rilievo il dato di fatto, concreto ed obiettivo, dell’effettivo svolgimento dell’attività agricola in misura almeno corrispondente alla percentuale prevista, essendo la qualifica giuridica soggettiva finalizzata a sostenere gli investimenti in favore delle aziende agricole che dimostrino redditività, che rispettino requisiti minimi in materia di ambiente, igiene e benessere degli animali e il cui imprenditore possieda conoscenze e competenze professionali adeguate (ex articolo 5 del regolamento (CE) n. 1257 del 17 maggio 1999) e non invece per trasformare le zone agricole in luoghi sui quali edificare residenze abitative in spregio alla legislazione urbanistica e profittando delle provvidenze concesse per favorire l’agricoltura.
La Corte di appello, aderendo agli insegnamenti impartiti in materia dalla giurisprudenza amministrativa, nonché da quella penale, del tutto compatte in proposito, ha anche chiaramente spiegato che la cessione di cubatura o asservimento é istituto utilizzabile, in sede di rilascio di permesso di costruire, solo in presenza di particolari condizioni e limiti, per cui può avvenire solo tra fondi compresi nella medesima zona urbanistica ed aventi la stessa destinazione urbanistica (in quanto, se così non fosse, nella zona in cui viene aggiunta cubatura potrebbe determinarsi un superamento della densità edilizia massima consentita dallo strumento urbanistico) e tra fondi contigui, nel senso che, anche qualora non si riscontri la continuità fisica tra tutte le particelle catastali interessate dalla nuova costruzione, sussista pur sempre, comunque, una “effettiva e significativa vicinanza tra i fondi asserviti” (ex multis, C. Stato, Sez. 5 n. 6734 del 30/10/2003).
Da ciò la Corte territoriale ha dedotto che – essendo la ratio della normativa fondata sulla sostanziale neutralità per il comune, ai fini del corretto sviluppo della densità edilizia, della materiale collocazione dei fabbricati, atteso che per il rispetto dell’indice di fabbricabilità fondiaria assume esclusiva rilevanza il fatto che il rapporto tra area edificabile e volumetria realizzabile nella zona di riferimento resti nei limiti fissati dal piano – non sono, con tutta evidenza, ammissibili, ai fini del rilascio di provvedimenti autorizzativi in materia edilizia, atti di asservimento tra terreni ubicati in comuni diversi, disarticolandosi, in tal caso, lo stretto e inscindibile legame tra atti di asservimento e rispetto delle prescrizioni della normativa urbanistica, quale espressione del governo e della pianificazione del territorio comunale.
E’ allora del tutto ineccepibile il doppio e conforme convincimento espresso dai giudici del merito secondo cui il Di Palma non poteva prescindere dalla valutazione dei presupposti di legalità del progetto che andava a realizzare soprattutto con riferimento agli ampliamenti di cubatura oggetto di variante, frutto di asservimento illegittimo.
Da ultimo, va osservato che, con accertamento di fatto, adeguatamente e logicamente motivato, insuscettibile pertanto di essere sindacato in sede di legittimità, i giudici del merito sono anche pervenuti alla identica conclusione di stimare largamente sussistenti le difformità realizzate nell’esecuzione dei lavori e per le quali è stata affermata la responsabilità del direttore dei lavori (Di Palma) e del costruttore (Tramonta), sul rilievo che essi fossero ampiamente consapevoli della difformità delle opere realizzate, avendo il compito di verificare la conformità al progetto (il primo) e di eseguire e fare correttamente eseguire le opere (rispettivamente il secondo ed il primo), attesa l’entità strutturale delle rilevate difformità e la pluralità delle stesse (dimensioni dell’ingresso a piano terra inidonee con la destinazione al ricovero di mezzi; vano scala tra i due piani; mancata separazione tra zona destinata ad uso agricolo e zona destinata ad uso abitativo; opere di natura abitativa in quelle destinate ad diverso uso), apparendo poi del tutto inverosimile che il direttore dei lavori provvedesse, dopo il completamento, a disporre, come accaduto, la demolizione di tante e siffatte opere.
A questo proposito, tenuto conto della natura e consistenza delle opere eseguite rispetto al progetto assentito, i giudici del merito hanno accertato che la costruzione aveva finalità tipicamente residenziali senza alcuna vocazione agricola, con la conseguenza che è di tutta evidenza che, ai fini della integrazione del reato di cui all’articolo 44, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, deve essere considerato in “totale difformità” qualsiasi intervento che, sulla base di una comparazione unitaria e sintetica fra l’organismo programmato e quello che è stato realizzato con l’attività costruttiva, risulti integralmente diverso da quello assentito per caratteristiche tipologiche, plano volumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso di costruire, dovendosi, a tal fine, considerare che i parametri normativi di riferimento enunciati dall’articolo 31 d.p.r. n. 380 del 2001 sono tra loro alternativi e non cumulativi e che, per stabilire l’entità della difformità, è necessario confrontare il realizzato con l’autorizzato nel senso che il giudice deve svolgere un preciso raffronto tra l’opera approvata e quella eseguita.
Ne deriva che sono da ritenersi eseguite in totale difformità le opere che la pubblica amministrazione non avrebbe mai autorizzato prestandosi le innovazioni ad alterare le caratteristiche essenziali dell’organismo edilizio relativo al progetto approvato.
La valutazione circa il raffronto tra l’opera progettata e quella eseguita, al fine di rilevare una ipotesi di difformità totale, costituisce accertamento di fatto rientrante nella cognizione del giudice di merito che, se adeguatamente e logicamente motivato, è sottratto al sindacato di legittimità.
Nel caso di specie, i giudici del merito hanno evidenziato come le modifiche al progetto (peraltro illegittimamente) assentito avessero del tutto snaturato la vocazione agricola della struttura edilizia, insuscettibile persino di sanatoria, ad esclusivo vantaggio di un uso prettamente residenziale e in zona a interesse esclusivamente agricolo (in eclatante violazione, pertanto, del criterio di utilizzazione delle caratteristiche del manufatto).
6. Inammissibile è anche il terzo motivo del ricorso Di Palma ed il secondo motivo del ricorso Tramonta, essendo manifestamente infondata l’eccezione di prescrizione.
Se anche, come rilevano i ricorrenti, gli interventi edilizi eseguiti in parziale difformità con i titoli abilitativi risultavano già realizzati ed ultimati in data 12 febbraio 2010, non per questo, in mancanza di precise allegazioni in proposito, la prescrizione può ritenersi maturata in epoca antecedente l’emanazione della sentenza impugnata (emessa in data 10 febbraio 2015), in considerazione anche del fatto che il termine di prescrizione è stato sospeso per due mesi e nove giorni, maturando quindi la causa estintiva in data 28 aprile 2015, ampiamente successiva alla sentenza di secondo grado, mentre il tempo trascorso tra la data della sentenza di secondo grado e la presente decisione non rileva ai fini della declaratoria di prescrizione in presenza di ricorsi, come nella specie, inammissibili.
E’ solo il caso di ricordare, a questo proposito, la giurisprudenza della Corte secondo la quale, in tema di prescrizione, grava sull’imputato, che voglia giovarsi di tale causa estintiva del reato, l’onere (nella specie del tutto disatteso) di allegare gli elementi in suo possesso dai quali poter desumere la data di inizio del decorso del termine, diversa da quella risultante dagli atti (Sez. 3, n. 27061 del 05/03/2014, Laiso, Rv. 259181).
7. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che i ricorsi presentati Carmine Di Palma e Gaetano Tramonta debbano essere dichiarati inammissibili, con conseguente onere per i ricorrenti, ai sensi dell’articolo 616 del codice di procedura penale, di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i suddetti ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che ciascun ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente a Granato Sebastiano e Perillo Francesco per i reati di cui ai capi 2 e 3 della rubrica per essere estinti per prescrizione e con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per la rideterminazione della pena in ordine al residuo reato di cui al capo 1.
Dichiara inammissibile nel resto il ricorso di Perillo Francesco.
Dichiara inammissibili i ricorsi di Tramonta Gaetano e di Di Palma Carmine che condanna ciascuno al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2000 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 28/09/2017