Cass. Sez. III n. 11505 del 15 Marzo 2019 (Up 6 dic 2018)
Pres. Lapalorcia Est. Ramacci Ric. Calarco ed altri
Urbanistica.Ristrutturazione edilizia “ricostruttiva”
In tema di ristrutturazione edilizia “ricostruttiva” occorre distinguere, quanto al rispetto delle distanze, l’ipotesi in cui essa consista nella ricostruzione del preesistente fabbricato con identità di area di sedime e di sagoma, poiché ciò determina una effettiva coincidenza con il precedente edificio, al quale si sostituisce il nuovo, che non rispettava già le distanze ovvero preesisteva alla loro previsione normativa. Nel diverso caso in cui il manufatto sia ricostruito con sagoma diversa rispetto al preesistente o diversa area di sedime vi è, invece, l’obbligo del rispetto delle distanze, trattandosi di edificio nuovo e differente quanto a collocazione fisica.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Messina, con sentenza del 26 maggio 2017 ha parzialmente riformato la sentenza emessa in data 19 luglio 2016 dal Tribunale di quella città ed appellata, tra gli altri, da Salvatore CUFFARO, Matteo CALARCO, Alberto MAGAZZU’ e Renato QUAGLIATA, confermando la responsabilità del primo per il reato di cui all'art. 323 cod. pen. e degli altri per il reato di cui agli artt. 110 cod. pen. e 44 d.P.R. 380/2001. Nei confronti di Francesco RUVOLO, imputato, unitamente ad altri, del reato di cui all’art. 323 cod. pen. quale componente della commissione edilizia, veniva dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione.
In particolare, Salvatore CUFFARO era imputato del delitto di abuso d'ufficio perché, quale responsabile dell'area tecnica del comune di Valdina, rilasciava a Matteo CALARCO la concessione edilizia numero 7/2009 per la demolizione e ricostruzione integrale in cemento armato, con cambio di destinazione d'uso da fabbricato rurale a fabbricato per civile abitazione, di un edificio a due elevazioni fuori terra in violazione delle norme di attuazione del piano regolatore generale in vigore e del codice della strada, in quanto l'immobile in questione ricadeva in fascia di rispetto stradale e, pertanto, a norma dello strumento urbanistico vigente, non era assolutamente consentita la ristrutturazione con demolizione e ricostruzione, ma soltanto la manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici esistenti, come da norme tecniche di attuazione; non rispettava la distanza dal confine stradale imposta dal codice della strada (non inferiore a metri 20) per le costruzioni conseguenti a demolizione integrali; ricadeva in zona E agricola e, quindi, non era consentito il cambio di destinazione d'uso da fabbricato rurale ad edificio per civile abitazione.
Matteo CALARCO, quale proprietario committente, Alberto MAGAZZU’ quale progettista e Renato QUAGLIATA quale direttore dei lavori, erano invece chiamati a rispondere della contravvenzione urbanistica per aver eseguito le opere in precedenza descritte in assenza di valida concessione edilizia.
Fatti accertati rispettivamente il 16 settembre 2009 ed il il 29 marzo 2012.
Avverso tale pronuncia i predetti propongono sperati ricorsi per cassazione tramite i rispettivi difensori di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2. Ricorso di Matteo CALARCO
2.1 Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge, osservando che la Corte di Appello avrebbe acriticamente ed apoditticamente accolto la tesi del Tribunale, omettendo di valutare le specifiche doglianze esposte nei motivi di appello.
In particolare, lamenta che il giudice del merito avrebbe fondato il proprio giudizio di colpevolezza esclusivamente sulle argomentazioni esposte nella relazione del consulente tecnico del pubblico ministero, senza considerare le risultanze istruttorie documentali prodotte agli atti del dibattimento e le conclusioni del consulente tecnico di parte, il quale avrebbe fornito dimostrazione della piena correttezza dell'iter amministrativo seguito per il rilascio del permesso di costruire che, invece, la Corte di Appello avrebbe ritenuto viziato, senza però fornire motivazione adeguata sulle ragioni tecniche per le quali il titolo abilitativo sarebbe invalido ed illegittimo, facendo esclusivo riferimento al reato di abuso d'ufficio e senza considerare che il dibattimento aveva escluso l’ipotesi di qualsiasi contatto con i soggetti coinvolti nel rilascio del permesso di costruire.
Aggiunge che il Tribunale avrebbe considerato la posizione professionale dell'imputato, comandante di una Stazione dei Carabinieri, come determinante della volontà di tutti i soggetti imputati di favorirlo intenzionalmente in violazione di precise disposizioni di legge.
Osserva, quanto alla ritenuta responsabilità per la violazione urbanistica, che la Corte d'Appello si sarebbe limitata ad adottare acriticamente la motivazione del Tribunale, senza considerare che il riscontro fotografico valorizzato riguarderebbe un rudere totalmente diruto, con il quale non avrebbe potuto essere effettuato alcun confronto, sicché non sarebbe spiegabile l'affermazione secondo cui non vi sarebbe alcuna corrispondenza tra il preesistente fabbricato e quello di nuova costruzione.
Rileva, altresì, che non sarebbe stata presa in considerazione la scarsa precisione della vecchia mappa catastale, considerata nel giudizio di merito.
Deduce, inoltre, alla luce della ritenuta insussistenza della violazione urbanistica, che sarebbe palese la sua totale inconsapevolezza ed estraneità riguardo alla procedura burocratica per il rilascio del titolo abilitativo, avendo egli soltanto presentato la richiesta di concessione edilizia e provveduto alla realizzazione di quanto era stato autorizzato.
2.2 Con un secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla carenza dell'elemento psicologico del reato, che risulterebbe evidente e rispetto al quale la Corte d'Appello non avrebbe motivato.
2.3 Con un terzo motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione con riferimento alla mancata applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, di cui all'art. 131-bis cod. pen. che il giudice del merito avrebbe giustificato con l'imponenza della trasformazione del territorio, quando, al più, il manufatto realizzato risultava poco più grande di quello preesistente.
2.4 Con un quarto motivo di ricorso denuncia la violazione di legge ed vizio di motivazione in relazione alla subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione delle opere eseguite, ritenendo che, sul punto, la Corte territoriale non avrebbe adeguatamente motivato.
3. Ricorso di Renato QUAGLIATA
3.1 Con un primo motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione, osservando che egli avrebbe dovuto essere assolto dall'imputazione di abuso d'ufficio per insussistenza del fatto o per non averlo commesso.
Ricostruito quindi nel dettaglio l'iter procedimentale seguito per il rilascio del titolo abilitativo, osserva che egli si sarebbe limitato a rilasciare un parere tecnico richiesto dall'amministrazione comunale in sede di commissione edilizia.
Aggiunge che, avuto riguardo alle risultanze istruttorie, non sarebbe sufficientemente fondata neppure l'affermazione di responsabilità in ordine alla violazione urbanistica, mancando la prova univoca della colpevolezza tanto sotto il profilo soggettivo che sotto quello oggettivo e non avendo i giudici motivato sul punto.
3.2 Con un secondo motivo di ricorso evidenzia che, nelle more del deposito della motivazione della sentenza d'appello, sarebbe maturato il termine massimo di prescrizione del residuo reato.
4. Ricorso Alberto MAGAZZU’
4.1 Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge, osservando che il giudice del merito avrebbe ritenuto dimostrata la sua responsabilità sulla base di un errata qualificazione tecnica dell'intervento edilizio, dalla quale sarebbe stata tratta la convinzione che le disposizioni applicabili nella fattispecie fossero quelle relative agli interventi di nuova costruzione e non anche quelle relative agli interventi di ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione con stessa volumetria e sagoma del preesistente.
Osserva, a tale proposito, che il fabbricato demolito consisteva in un rudere e che gli interventi eseguiti erano quelli consentiti dall'articolo 36 della legge 71/1978 e dall'articolo 3d del d.P.R. 380/2001.
Aggiunge che l'immobile era rientrato nella cosiddetta fascia di rispetto solo a seguito di modifiche allo strumento urbanistico e che, per le condizioni in cui si trovava, essendo fatiscente e prossimo al crollo, non poteva essere soggetto ad altro intervento diverso da quello di demolizione e ricostruzione.
4.2 Con un secondo motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione in ordine alla valutazione della prova, osservando che il giudice del merito avrebbe fondato il proprio convincimento esclusivamente sulle considerazioni svolte dal consulente del Pubblico Ministero, senza tener conto dell'analisi del progetto e delle planimetrie allegate prodotte in giudizio dal coimputato CALARCO e dalle considerazioni del consulente di parte.
Osserva che le motivazioni con le quali si ribadisce la inverosimiglianza della ricostruzione della vicenda e le considerazioni svolte dalla difesa risulterebbero generiche.
5. Ricorso di Francesco RUVOLO
5.1 Con un unico motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, osservando che la corte territoriale si sarebbe limitata a dichiarare la prescrizione affermando soltanto che, dalla lettura della sentenza di primo grado, non si imponeva con evidenza una pronuncia assolutoria. Così facendo, la Corte territoriale non avrebbe per nulla considerato quanto rilevato con l'atto di appello, sia pure per dedurne la irrilevanza o l’inammissibilità.
6. Ricorso di Salvatore CUFFARO
6.1 Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, osservando che la sentenza impugnata avrebbe ritenuto sussistente l'elemento psicologico del reato sulla sola base del fatto che egli sarebbe un professionista e, proprio in quanto tale, avrebbe dovuto controllare gli atti che emetteva, anzitutto dal punto di vista della regolarità tecnica.
Osserva che, tuttavia, la ritenuta intenzionalità della condotta sulla base della macroscopicità della violazione sarebbe il risultato di una ricostruzione basata su circostanze non direttamente a lui riferibili, facendo presente, in primo luogo, che la macroscopica illegittimità sarebbe emersa solo dopo che il consulente tecnico del Pubblico Ministero aveva confrontato il fabbricato ricostruito con quello originario come rappresentato nella mappa catastale e, pertanto, attraverso la sovrapposizione tra un dato reale ed un dato cartaceo derivante dal catasto storico, con tutte le imprecisioni che, inevitabilmente, questo metodo comporta.
Rileva che il Tribunale avrebbe dato conto del fatto che l'istruttoria non avrebbe consentito di accertare la sussistenza di legami personali tra tutti gli imputati ed il CALARCO e che la sua attività all'interno dell'amministrazione comunale era iniziata il 6 agosto 2009 ed era stata svolta per un breve periodo di 2 mesi e per 12 ore settimanali, come emergerebbe dalla documentazione acquisita, mentre invece il parere della commissione edilizia era stato rilasciato antecedentemente, il 12 giugno dello stesso anno, con la conseguenza che gli sarebbe stata imputata una condotta dipendente da altri.
Osserva anche che altro coimputato, il quale aveva proceduto all'istruttoria per il rilascio della concessione edilizia, doveva rispondere di falsità ideologica ed ha beneficiato in sede di gravame della declaratoria di prescrizione del reato che non esclude la sussistenza del fatto, con la conseguenza che la Corte di appello avrebbe dovuto motivare indicando le ragioni per le quali, pur non potendosi escludere l'esistenza di un infedele rappresentazione della realtà proveniente da un soggetto qualificato, ha ritenuto sussistente, in capo al ricorrente, l'elemento psicologico del dolo.
6.2 Con un secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione proprio in relazione al intenzionalità della condotta, facendo rilevare che la macroscopica violazione delle norme edilizie sarebbe stata riscontrata soltanto dopo che il consulente nominato aveva proceduto alle verifiche di cui si è detto in precedenza, ribadendo che egli aveva fatto affidamento sul parere della commissione edilizia composta da soggetti esperti.
Aggiunge che, a tutto voler concedere, gli si potrebbe imputare soltanto la colposa omissione di un'accurata verifica della documentazione, ma non il dolo necessario per configurare l'abuso d'ufficio.
7. Tutti insistono, pertanto, per l'accoglimento dei rispettivi ricorsi
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili.
2. Vanno preliminarmente richiamate la caratteristiche dell’intervento edilizio accertate nel giudizio di merito, in quanto rilevanti ai fini della disamina di gran parte dei motivi di ricorso.
3. Risulta dalla sentenza impugnata che i lavori oggetto di concessione edilizia (così denominato il titolo abilitativo prima dell’entrata in vigore della legge regionale n.16/2016, con la quale la Sicilia ha recepito le disposizioni del d.P.R. 380/2001) avevano ad oggetto la demolizione e ricostruzione integrale in cemento armato, con cambio di destinazione d’uso da rurale a civile abitazione, di un fabbricato a due elevazioni fuori terra.
Risulta altresì che l’immobile ricadeva in fascia di rispetto stradale, il che, secondo le norme tecniche di attuazione, avrebbe consentito soltanto la manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici esistenti, che la sua posizione non rispettava le distanze dal confine previste dal codice della strada e che l’area ove insistevano le opere era classificata come zona E agricola, ove non è consentita la realizzazione di manufatti dedicati a civile abitazione.
Tali dati fattuali, emersi nel giudizio di merito, non risultano essere posti in dubbio dai ricorrenti, i quali, nei rispettivi ricorsi, hanno piuttosto sostenuto la correttezza dell’iter procedurale seguito per il rilascio del titolo abilitativo e la conseguente regolarità dell’intervento realizzato.
4. Alla luce delle richiamate caratteristiche delle opere e della classificazione di zona, nonché di quanto posto in evidenza dalla Corte territoriale, deve però rilevarsi che l’intervento non poteva essere lecitamente eseguito, indipendentemente dal fatto che venga qualificato come ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione, ovvero come nuova costruzione.
Considerando la prima delle ipotesi, occorre osservare che i fatti contestati risultano accertati in data antecedente alle modifiche del 2013 all’art. 3 del d.P.R. 380\01, quando, in considerazione della disciplina allora vigente, veniva esclusa la possibilità che la ricostruzione di un rudere potesse ricondursi entro la nozione di ristrutturazione, trattandosi, al contrario, di un intervento del tutto nuovo (v. Sez. 3, n. 45240 del 26/10/2007, Scupola, Rv. 238464; Sez. 3, n. 15054 del 23/1/2007, Meli e altro, Rv. 236338;Sez. 3, n. 20776 del 13/1/2006, P.M. in proc. Polverino, Rv. 234467 ed altre prec. conf.), ritenendosi che la mancanza dei suddetti elementi strutturali rendesse impossibile qualsiasi valutazione circa l’esistenza e la consistenza dell’edifico da consolidare.
Le decisioni dei giudici del merito sono invece successive alle modifiche.
Il d.l. 69\2013 (conosciuto anche come «decreto del fare»), intervenendo sull’art. 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. 380/2001, ha considerevolmente ampliato il concetto di ristrutturazione, limitando l'obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili vincolati ed introducendo la possibilità di ristrutturazione degli edifici crollati o demoliti.
L’articolo 3, comma primo, lettera d) del d.P.R. 380\01, nella formulazione attualmente vigente, così definisce gli interventi di ristrutturazione: «interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l’eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente».
La richiamata disposizione prevede, dunque, due diverse ipotesi di ristrutturazione, in quanto la prima parte dell’articolo considera una tipologia di intervento che può comportare il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l’eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti, mentre la seconda parte della norma considera la possibilità della demolizione e ricostruzione nel rispetto dell’originaria volumetria ed, in presenza di vincolo, anche della sagoma, così che la giurisprudenza amministrativa ha denominato la prima ristrutturazione “conservativa” e la seconda ristrutturazione “ricostruttiva” (Cons. di Stato Sez. V, n. 5988 del 5/12/2014),
A tale proposito, la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di precisare che, considerata la disciplina ora vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio. Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della SCIA se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell'edificio (Sez. 3, n. 40342 del 3/6/2014, Quarta, Rv. 260551).
Si è anche ricordato che detti interventi impongono, quale imprescindibile condizione, che sia possibile accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato e che tale accertamento deve essere effettuato con il massimo rigore e deve necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie etc., (cfr. Sez. 3, n. 5912 del 22/1/2014, Moretti e altri, Rv. 258597; Sez. 3 n. 26713 del 25/6/2015, Petitto, non massimata. V. anche Sez. 3, n. 48947 del 13/10/2015, P.M. in proc. Pompa, Rv. 266031).
Si è ulteriormente stabilito che l'utilizzazione del termine «consistenza», da parte del legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d) d.P.R. 380\01, inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del requisito richiesto dalla norma. Parimenti, detta verifica non potrà essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma dovrà, invece, basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili (Sez. 3, n. 45147 del 8/10/2015, Marzo e altri, Rv. 265444).
Tali principi sono stati successivamente richiamati, con l’ulteriore precisazione che l’accertamento della preesistente consistenza di un edificio crollato o demolito che si intende ricostruire mediante ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 3, comma primo, lettera d) del d.P.R. 380\01 non può ritenersi validamente effettuata sulla base di studi storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi analoga tipologia, restando una simile verifica confinata nell’ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo alcuna oggettiva evidenza (Sez. 3, n. 39340 del 9/7/2018, Morciano, non ancora massimata).
Orbene, pur volendo considerare la più favorevole disciplina attualmente in vigore e ritenere che il preesistente edificio ridotto a rudere fosse compiutamente individuato nei termini stabiliti dai richiamati principi, osserva il Collegio che mancherebbero comunque i presupposti per collocare l’intervento eseguito nell’ambito della ristrutturazione.
Invero, risulta accertato nel giudizio di merito (cfr. Pag. 11 sentenza impugnata) che il nuovo edificio aveva una superficie ulteriore, rispetto al preesistente, di 92,99 metri quadrati, con un aumento, quindi, del 73,44 % ed una eccedenza di volume pari a 284,99 metri cubi, superiore del 71,90 % rispetto all’originaria costruzione.
Manca, dunque, il necessario requisito del rispetto della volumetria originaria.
Risulta essere stata inoltre modificata l’originaria destinazione d’uso dell’immobile, il quale, originariamente destinato a casa colonica, stante la classificazione dell’area come zona E agricola, è stato trasformato in civile abitazione.
Correttamente la Corte territoriale ha posto in evidenza, a tale proposito, la necessaria destinazione funzionale all’attività agricola richiesta per gli edifici ricadenti in tale zona, come peraltro è stato stabilito dalla giurisprudenza di questa Corte, affermando che per l’edificazione in zona agricola la destinazione del manufatto e la posizione soggettiva di chi lo realizza sono elementi che assumono entrambi rilievo ai fini della rispondenza dell’opera alle prescrizioni dello strumento urbanistico e, di conseguenza, anche per l’eventuale valutazione di conformità ai fini del rilascio della sanatoria. (Sez. 3, n. 7681 del 13/1/2017, Innamorati e altri, Rv. 269159, cui si rinvia anche per i richiami ai precedenti conformi).
Nel caso di specie, come risulta dalla sentenza impugnata e dai ricorsi, il proprietario committente delle opere non era certamente un agricoltore, trattandosi del comandante di una stazione dei Carabinieri.
Quanto al rispetto delle distanze, occorre invece distinguere, con riferimento alla c.d. ristrutturazione ricostruttiva, come ha già condivisibilmente fatto la giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. di Stato, Sez. IV n. 4728 del 12/10/2017), l’ipotesi in cui essa consista nella ricostruzione del preesistente fabbricato con identità di area di sedime e di sagoma, poiché ciò determina una effettiva coincidenza con il precedente edificio, al quale si sostituisce il nuovo, il quale non rispettava già le distanze ovvero preesisteva alla loro previsione normativa (si è a tale proposito osservato, in Cons. di Stato, Sez. IV, n. 4337 del 14/9/2017, che "la disposizione dell'art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda "nuovi edifici", intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi: Cons. Stato, sez. IV, 4 agosto 2016 n. 3522) "costruiti per la prima volta" e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse").
Nel diverso caso in cui il manufatto sia ricostruito con sagoma diversa rispetto al preesistente o diversa area di sedime vi è, invece, l’obbligo del rispetto delle distanze trattandosi di edificio nuovo e differente quanto a collocazione fisica.
Alla luce di quanto sopra evidenziato, anche indipendentemente dalla questione del rispetto o meno dell’identità di volumetria ed area di sedime ai fini del mantenimento delle distanze originarie, mancano comunque le condizioni per qualificare come ristrutturazione l’intervento eseguito.
I termini della questione non cambiano neppure se si considera la natura di nuova costruzione del manufatto, perché, in tal caso, ostavano comunque al lecito rilascio del titolo abilitativo quanto meno la non conformità dell’immobile, avente destinazione residenziale, alla classificazione di zona ed il mancato rispetto delle distanze come indicate nel capo di imputazione.
5. Fatte tali premesse, occorre anche rilevare, con riferimento alle deduzioni formulate nel primo motivo del ricorso CALARCO e nel secondo motivo del ricorso MAGAZZU’, che la Corte territoriale ha dato atto che il primo giudice, nel considerare le caratteristiche costruttive dell’edificio, non si è basato esclusivamente sulle considerazioni del consulente tecnico del Pubblico Ministero, ma ha preso contezza delle schede tecniche in atti, confrontandole tra loro e dando conto del fatto che, anche ad occhio inesperto, risultavano di palese evidenza le differenze tra il manufatto preesistente e quello di nuova costruzione e che tali indubbie difformità avevano trovato conferma nel mero raffronto visivo delle fotografie in atti di entrambe le costruzioni.
Le considerazioni del Tribunale sono state poi ribadite dai giudici del gravame, i quali hanno anche escluso, considerata la macroscopica differenza, per superficie e volumetria, tra vecchio e nuovo edificio, che le considerazioni del consulente potessero essere conseguenza del fatto che le difformità non fossero facilmente rilevabili, avendo invece questi affermato, nell’elaborato a sua firma, che “la diversa perimetrazione del fabbricato originario e di quello ricostruito è graficamente evidentissima sia nella forma che nelle dimensioni e nelle superfici”.
Non può dunque dirsi, come affermano i ricorrenti, che la Corte del merito abbia omesso di considerare le censure mosse con l’atto di appello, avendo invece dato compiutamente conto delle modalità con le quali erano state accertate le evidenti difformità tra il preesistente edificio e quello ricostruito e dovendosi considerare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in sede di legittimità non può muoversi censura ad una sentenza che, pur non prendendo espressamente in esame una deduzione prospettata con l'atto di impugnazione, evidenzi comunque una ricostruzione dei fatti che implicitamente, ma in maniera adeguata e logica, ne comporti il rigetto (Sez. 2, n. 1405 del 10/12/2013, (dep. 2014), Cento, Rv. 259643; Sez. 5, n. 607 del 14/11/2013, (dep.2014), Maravalli, Rv. 258679; Sez. 2, n. 33577 del 26/5/2009, Bevilacqua, Rv. 245238; Sez. 2, n. 29434 del 19/5/2004, Candiano, Rv. 229220).
Va dunque esclusa, per le ragioni suddette, la liceità dell’intervento eseguito e conseguentemente rilevata la manifesta infondatezza dei motivi di ricorso che l’affermano.
Occorre ora prendere in esame le ulteriore doglianze espresse nei singoli atti di impugnazione.
6. Ricorso CALARCO
Quanto al primo motivo di ricorso, sulla illiceità dell’intervento si è già detto, mentre, per ciò che concerne l’elemento psicologico della contravvenzione, di cui tratta anche il secondo motivo di ricorso, osserva il Collegio che il ricorrente afferma la propria “totale inconsapevolezza e totale estraneità” alla “procedura burocratica per il rilascio della concessione” essendosi egli limitato a richiedere il titolo abilitativo ed eseguire quanto autorizzato.
I giudici del gravame, tuttavia, nella complessiva motivazione della sentenza impugnata hanno dato ampiamente conto della evidente illiceità, sotto diversi profili, della procedura seguita per il rilascio del titolo, sicché del tutto correttamente la Corte di appello ha ritenuto inverosimile la tesi secondo la quale l’imputato si sarebbe limitato ad accettare supinamente quanto propostogli dal tecnico, che avrebbe realizzato il progetto a sua insaputa.
Vale la pena ricordare come questa Corte abbia già specificato (Sez. 3, n. 23998 del 12/5/2011, P.M. in proc. Bisco, Rv. 250608) che la condotta colposa del reato di costruzione edilizia abusiva può consistere nell'inottemperanza all'obbligo di informarsi sulle possibilità edificatorie concesse dagli strumenti urbanistici vigenti, da assolversi anche tramite incarico a tecnici qualificati e che non rientra nell’ipotesi di ignoranza inevitabile l’erronea convinzione che un determinato intervento non necessiti di specifico titolo abilitativo (Sez. 3, n. 6968 del 2/5/1988, Rurali, Rv. 178593).
Più in generale, si è precisato che l'inevitabilità dell'errore sulla legge penale non si configura quando l'agente svolge una attività in uno specifico settore rispetto al quale ha il dovere di informarsi con diligenza sulla normativa esistente (Sez. 5, n. 22205 del 26/2/2008, Ciccone, Rv. 240440; Sez. 3, n. 1797 del 16/1/1996, Lombardi, Rv. 205384).
Ciò posto, osserva il Collegio che tali principi, i quali sono stati espressi in relazione a condotte poste in essere da cittadini non rivestenti particolari qualifiche professionali, devono a maggior ragione ribadirsi con riferimento all’odierno ricorrente, il quale, proprio perché ufficiale di polizia giudiziaria, comandante di una stazione dei Carabinieri, è tenuto a conoscere le disposizioni urbanistiche dalla cui inosservanza possono derivare, come è avvenuto nel caso di specie, plurime violazioni di norme penali e da cui derivano specifici obblighi, stabiliti dalla legge, per chi ricopre tale posizione professionale.
Inoltre, anche a non voler considerare le irregolarità concernenti le distanze e la qualificazione dell’intervento quale ristrutturazione o nuova costruzione, il contrasto con la destinazione di zona, verificabile – se non nota - attraverso la semplice richiesta di un certificato di destinazione urbanistica, era comunque di immediata evidenza, atteso che trattasi, nella fattispecie, come si è già detto della realizzazione in area classificata come agricola di un edificio su due livelli destinato a civile abitazione.
6.1 Manifestamente infondato risulta anche il terzo motivo di ricorso, avendo la Corte di appello motivatamente escluso la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 131-bis cod. pen. in ragione della “imponenza” delle opere realizzate.
In tema questa Corte ha già affermato (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, P.M. in proc. Derossi, Rv. 265450. Conf. Sez. 3, n. 19111 del 10/3/2016, Mancuso, Rv. 266586) che, ai fini dell’applicabilità della citata norma codicistica per ciò che riguarda gli aspetti urbanistici, assumono rilievo vari elementi, quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici, ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento. Indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto è stata inoltre ritenuta la contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano contestualmente violate, mediante la realizzazione dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi (si pensi alle norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione delle aree demaniali).
Nella fattispecie, la Corte territoriale ha posto in evidenza la gravità dell’offesa in considerazione dell’entità del manufatto, realizzato in assenza di valido titolo abilitativo. Tale affermazione deve ovviamente essere letta in relazione al complessivo contenuto della motivazione, ove i giudici del gravame hanno ripetutamente posto in evidenza dati fattuali certamente indicativi di una consistente e non particolarmente tenue lesione dell’originario assetto territoriale.
6.2 Per ciò che riguarda, invece, il quarto motivo di ricorso, con cui si deduce, sostanzialmente, l’omessa motivazione in ordine alla subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione dell’immobile abusivo, è sufficiente richiamare il principio, anche recentemente ribadito, secondo il quale il giudice può subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena all'eliminazione delle conseguenze dannose del reato mediante demolizione dell'opera abusiva, senza dover procedere a specifica motivazione sul punto, essendo questa implicita nell'emanazione dell'ordine di demolizione che, in quanto accessorio alla condanna del responsabile, è emesso sulla base dell'accertamento della persistente offensività dell'opera stessa nei confronti dell'interesse protetto (Sez. 3, n. 23189 del 29/3/2018, Ferrante, Rv. 272820, con ampi richiami ai precedenti).
7. Ricorso QUAGLIATA
Valgono, con riferimento al primo motivo di ricorso, le considerazioni già svolte sulla illiceità della procedura seguita per il rilascio del titolo abilitativo e la conseguente abusività dell’intervento, aggiungendo che il motivo di ricorso presenta un ulteriore profilo di inammissibilità, rappresentato dalla prospettazione di plurimi argomenti in fatto non proponibili in questa sede.
Occorre parimenti richiamare quanto in precedenza osservato con riferimento all’elemento soggettivo della contravvenzione contestata, rilevando che anche questo ricorrente, rivestendo la qualifica, indicata nel capo di imputazione, di direttore dei lavori, non poteva sottrarsi agli specifici obblighi impostigli dalla legge.
Deve infatti ricordarsi che il d.P.R. 380\01 individua, nell’articolo 29, alcuni soggetti che sono ritenuti perseguibili per eventuali violazioni della normativa urbanistica. Tali soggetti, indicati nel titolare del permesso di costruire, nel committente e nel costruttore, sono infatti ritenuti responsabili della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano e, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo.
Il direttore dei lavori ha dunque, per il ruolo svolto, la responsabilità tecnica delle opere cui deve sovrintendere ed il riferimento, contenuto dalla norma, al titolo abilitativo edilizio, pur presupponendone la esistenza, non esclude del tutto la responsabilità di chi dirige materialmente i lavori in assenza del permesso secondo i principi generali del diritto penale in materia di concorso di persone nel reato.
La posizione di garanzia assunta dal direttore dei lavori non viene meno neppure nel caso in cui si assuma il carattere meramente fittizio della prestazione, finalizzata ad un'ottemperanza soltanto formale di precetti normativi e regolamentari e ciò in ragione della rilevanza che il rapporto di direzione dei lavori, consapevolmente assunto, acquista sul piano pubblicistico attraverso la comunicazione di esso al Comune (così, Sez. 3, n. 10131 del 27/6/1995, P.M. in proc. Solano, Rv. 203087. Conf. Sez. 3, n. 460 del 25/11/1997 (dep.1998), P.M. in proc. Positano, Rv. 209252), ovvero nel caso in cui il soggetto che assume la direzione dei lavori sia sfornito di idoneo titolo professionale per svolgere tale ruolo pur sovrintendendo, di fatto, alla realizzazione dell’opera abusiva (Sez. 3, n. 8631 del 24/6/1988, Dapaz, Rv. 179018).
La giurisprudenza di questa Corte ha pure ritenuto la responsabilità del direttore dei lavori in mancanza di un effettivo e costante controllo sullo svolgimento delle opere anche riguardo alla loro conformità alle leggi urbanistiche ed al progetto autorizzato (Cass. Sez. 3, n. 36567 del 8/7/2008, Aliquò, non massimata), nel caso in cui si disinteressi dell'esecuzione delle opere edilizie poste in essere in difformità del provvedimento autorizzatorio (Sez. 3, n. 38924 del 7/11/2006, Pignatelli, Rv. 235465) o le stesse vengano realizzate autonomamente da altri a sua insaputa (Sez. 3, n. 4328 del 20/12/2005 (dep. 2006), Balducci ed altro, Rv. 233302) o in sua assenza (Sez. 3, n. 22867 del 11/5/2005, Battistella, Rv. 231945).
Il menzionato art. 29 d.P.R. 380\01 prevede tuttavia, al secondo comma, un esonero di responsabilità del direttore dei lavori qualora egli, come ricordato dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 23198 del 17/3/2009, Coluccelli, non massimata): abbia contestato al titolare del permesso di costruire, al committente ed al costruttore la violazione delle prescrizioni del provvedimento amministrativo; abbia fornito contemporaneamente all’Amministrazione comunale motivata comunicazione della violazione stessa e, nelle ipotesi di totale difformità o di variazione essenziale, abbia altresì rinunziato contestualmente all’incarico, sempreché il recesso sia tempestivo, quando, cioè, intervenga non appena l’illecito edilizio obiettivamente si profili, ovvero appena il direttore dei lavori abbia avuto conoscenza che le corrette direttive da lui impartite siano state disattese o violate.
Così inquadrata la figura del direttore dei lavori, occorre rilevare che, nella fattispecie, nessuna delle ipotesi di esonero di responsabilità appena indicate risulta essersi verificata, mentre la fattiva partecipazione del ricorrente alla realizzazione dell'abuso edilizio è stata puntualmente verificata dalla Corte territoriale, ponendo ancora una volta in evidenza la radicale trasformazione dell’edifico rispetto a quello demolito.
Si dirà in seguito del secondo motivo di ricorso.
7. Ricorso MAGAZZU’
I motivi riguardano, sostanzialmente, al regolarità della procedura autorizzatoria, di cui si è già detto in precedenza.
8. Ricorso RUVOLO
Nei confronti del ricorrente la Corte di appello ha dichiarato non doversi procedere in ordine al reato ascrittogli perché estinto per prescrizione.
La Corte territoriale, come si rileva dalla sentenza, ha deciso accogliendo una specifica richiesta della difesa in tal senso.
Ciò nonostante, il ricorrente lamenta il fatto che i giudici del gravame non abbiano esaminato le censure mosse con l’atto di appello, rivendicando, sostanzialmente, un’assoluzione piena nel merito, cui si sarebbe dovuti pervenire nel giudizio di appello anche considerando le argomentazioni sviluppate nei motivi di impugnazione.
E’ sufficiente richiamare, a tale proposito, quanto stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274) le quali, dirimendo un precedente contrasto giurisprudenziale, hanno tra l'altro affermato che la pronuncia assolutoria a norma dell'art. 129, comma secondo, cod. proc. pen. è consentita al giudice solo quando emergano dagli atti, in modo assolutamente non contestabile, le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale, in modo tale che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo sia incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento ed appartenga, pertanto, più al concetto di «constatazione», ossia di percezione «ictu oculi», che a quello di «apprezzamento».
Precisano ulteriormente le Sezioni Unite che l' «evidenza» richiesta dal menzionato art. 129, comma 2, cod. proc. pen. «presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara ed obiettiva da rendere superflua ogni dimostrazione oltre la correlazione ad un accertamento immediato, concretizzandosi così addirittura in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l'assoluzione ampia».
Affermano, inoltre, che in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva.
E’ conseguentemente manifesta l’infondatezza del motivo di ricorso.
9. Ricorso CUFFARO
Entrambi i motivi di ricorso riguardano il reato di abuso d’ufficio contestato all’imputato e la sua sussistenza sotto i profili oggettivo e soggettivo.
Ancora una volta deve richiamarsi preliminarmente quanto in precedenza osservato circa la smaccata evidenza della abusività dell’immobile costruito, nonché delle plurime irregolarità, per contrasto a specifiche disposizioni normative, che hanno caratterizzato il rilascio della concessione edilizia.
Va a tale proposito ricordato che l'inosservanza dell'art. 13 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, secondo il quale "il permesso di costruire è rilasciato dal dirigente o responsabile dello sportello unico nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e degli strumenti urbanistici" integra il requisito della violazione di legge rilevante ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio (Sez. 3, n. 39462 del 19/6/2012, Rullo, Rv. 254015).
Per quanto riguarda, poi, l’elemento soggettivo, si è affermato che esso consiste nella consapevolezza dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale e nella volontà di agire per procurarlo e può essere desunta dalla macroscopica illiceità dell'atto (così, da ultimo, Sez. 6, n. 31594 del 19/4/2017, Pazzaglia, Rv. 270460).
Ciò posto, si osserva che il ricorrente contesta il fatto che alla individuazione della macroscopica illiceità dell’atto i giudici del merito siano pervenuti attraverso riferimenti a circostanze non direttamente riferibili all’imputato, che indica nel dettaglio come riportato in premessa, richiamando in primo luogo l’attenzione sulla difficoltà di rilevare le differenze tra il fabbricato realizzato ed il preesistente, emerse solo dopo verifica da parte del consulente del Pubblico Ministero.
Osserva tuttavia il Collegio che la evidenza di tali difformità è stata ripetutamente affermata dai giudici del merito e che, comunque, la natura abusiva della costruzione non emerge esclusivamente dalle sue caratteristiche dimensionali, ma anche per il contrasto dell’opera con la destinazione di zona.
Tale ultimo aspetto, peraltro, non è di secondario rilievo, perché, come si è già detto con riferimento alla posizione del CALARCO, di immediata percezione senza necessità di particolari accertamenti tecnici.
L’imputato, peraltro, nella sua qualità di responsabile dell’area tecnica e firmatario della concessione, disponeva, indipendentemente dai pareri e le valutazioni da altri espresse, di tutta la pratica edilizia e delle cognizioni tecniche per apprezzarne il contenuto prima di assumersi la responsabilità della emanazione dell’atto, di sua esclusiva competenza e di tali aspetti ha motivatamente dato conto la Corte territoriale, la cui decisione risulta, pertanto, immune dalle censure prospettate in ricorso.
10. I ricorsi, conseguentemente, devono essere dichiarati inammissibili e alla declaratoria di inammissibilità consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro duemila per ciascun ricorrente.
L'inammissibilità del ricorso per cassazione per manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e, pertanto, preclude la possibilità di dichiarare le cause di non punibilità di cui all'art. 129 cod. proc. pen., ivi compresa la prescrizione intervenuta nelle more del procedimento di legittimità, come espressamente richiesto nel secondo motivo di ricorso di Renato QUAGLIATA (Sez. 2, n. 28848 del 8/5/2013, Ciaffoni, Rv. 256463, Sez. 4, n. 18641 del 20/1/2004, Tricomi, Rv. 228349; Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D. L, Rv. 217266).
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
Dispone che copia del presente dispositivo sia trasmessa all’amministrazione di appartenenza del dipendente pubblico, Ministero della Difesa, a norma dell’art. 154-ter norme di attuazione cod. proc. pen.
Così deciso in data 6/12/2018