Consiglio di Stato Sez. IV n. 2693 del 17 giugno 2016
Urbanistica.Crollo edificio e successivo intervento di integrale demolizione e ricostruzione

Qualora un titolo ad aedificandum non venga eseguito a causa del crollo dell’edificio – ove anche dovuto a cause esterne e non imputabili ai lavori intrapresi dal concessionario - esso perde efficacia e non può essere invocato per legittimare, neanche parzialmente, un successivo intervento di integrale demolizione e ricostruzione dell’edificio medesimo. Pertanto risulta evidente che, una volta verificatosi il crollo parziale di cui si è detto, l’interessato che intendesse provvedere alla integrale ricostruzione dell’edificio, previa sua demolizione, avrebbe dovuto munirsi di nuovo ed apposito titolo abilitativo, e non limitarsi a comunicare al Comune l’effettuazione dei necessari e urgenti interventi di messa in sicurezza.

N. 02693/2016REG.PROV.COLL.

N. 05505/2007 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello nr. 5505 del 2007, proposto dai signori Vincenzo SIANI, Irene SCOLA e Ciro SIANI, rappresentati e difesi dagli avv.ti Antonella Villani e Francesco Accarino, con domicilio eletto presso l’avv. Massimo Angelini in Roma, piazza Cavour, 17,

contro

il COMUNE DI CAVA DEI TIRRENI, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Giuliana Senatore e Marina Tosini, con domicilio eletto presso l’avv. Leopoldo Fiorentino in Roma, via Cola di Rienzo, 285,

nei confronti di

ingegner Nicola CAPANO, rappresentato e difeso dagli avv.ti Arturo De Felice e Giorgio Polverino, con domicilio eletto presso l’avv. Giovanni Noschese in Roma, via Cipro, 46,

per l’annullamento e/o la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Sezione Seconda di Salerno, nr. 834/06 del 13 giugno 2006, conosciuta in pari data a seguito di comunicazione di avvenuto deposito, con la quale il T.A.R., previa riunione dei ricorsi nn. 3481, 3482 e 3483 del 2003, li ha respinti, compensando le spese di giudizio.

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Cava dei Tirreni e dell’ing. Nicola Capano e l’appello incidentale da quest’ultimo proposto;

Viste le memorie prodotte dagli appellanti (in date 19 aprile e 5 maggio 2016) a sostegno delle proprie difese;

Visto l’atto di rinuncia alla costituzione in giudizio ed all’appello incidentale depositato in data 28 febbraio 2012 dall’ing. Nicola Capano;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore, all’udienza pubblica del giorno 26 maggio 2016, il Consigliere Raffaele Greco;

Uditi l’avv. Andrea Abbamonte (su delega dell’avv. Accarino) per gli appellanti e l’avv. Baldi (sur delega dell’avv. Senatore) per il Comune di Cava dei Tirreni;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

I signori Vincenzo Siani, Irene Scola e Ciro Siani hanno impugnato, chiedendone la riforma, la sentenza con la quale la Sezione di Salerno del T.A.R. della Campania ha respinto, previa loro riunione, i tre ricorsi dagli stessi proposti per l’annullamento del provvedimento (prot. nr. 48523 del 19 settembre 2003) emesso dal Comune di Cava dei Tirreni, con cui il detto Ente territoriale ha respinto altrettante istanze di condono edilizio relative ad abusi eseguiti su di un fabbricato in proprietà del primo degli odierni istanti.

A sostegno dell’appello, gli appellanti hanno dedotto:

1) violazione e falsa applicazione dell’art. 26 della legge 6 dicembre 1971, nr. 1034, in relazione all’art. 40 della legge 28 febbraio 1985, nr. 45; insussistenza degli elementi di dolosa infedeltà delle domande di condono (con riferimento alle ragioni che hanno indotto il primo giudice a escludere che sulle domande medesime potesse essersi formato il silenzio-assenso);

2) violazione dell’art. 26 della legge nr. 1034 del 1971 in relazione agli artt. 1 e ss. della legge 7 agosto 1990, nr. 241, ed agli artt. 31, 35 e 43 della legge nr. 47 del 1985 e tabella allegata alla stessa (in ordine alla valutazione del primo giudice, che ha considerato come unitario l’intervento edilizio realizzato);

3) violazione dell’art. 26 della legge nr. 1034 del 1971 in relazione all’art. 4 della legge 27 gennaio 1977, nr. 10, all’art. 31 della legge nr. 47 del 1985, all’art. 39 della legge 23 dicembre 1994, nr. 724, ed alle Circolari del Ministero dei Lavori Pubblici del 17 giugno 1995, nr. 2241/UL, e del 30 luglio 1985, nr. 3357/25; ingiustizia manifesta (in relazione alla ritenuta inammissibilità dei ricorsi in primo grado degli odierni appellanti signori Irene Scola e Ciro Siani);

4) violazione dell’art. 26 della legge nr. 1034 del 1971 in relazione agli artt. 31 e 35 della legge nr. 47 del 1985, agli artt. 3, 7, 8 e10 della legge nr. 241 del 1990 ed in relazione all’art. 42 Cost. (ancora con riferimento alla formazione del silenzio-assenso sulle tre istanze di condono presentate);

5) violazione dell’art. 26 della legge nr. 1034 del 1971 in relazione all’art. 38 del r.d. 17 agosto 1907, nr. 642, come modificato dall’art. 1, comma 4, della legge 21 luglio 2000, nr. 205/2000; violazione dell’art. 26 della legge nr. 1034 del 1971 (con riferimento all’inammissibilità dell’intervento ad opponenendum spiegato in giudizio dall’ing. Nicola Capano, nonché alle altre eccezioni preliminari al riguardo non esaminate dal primo giudice).

Si è costituito in giudizio il Comune di Cava dei Tirreni, il quale ha controdedotto in toto alle doglianze di parte appellante, concludendo per la conferma della sentenza di primo grado.

Si è altresì costituito l’interveniente in primo grado, ing. Nicola Capano, il quale, oltre a opporsi con diffuse argomentazioni all’accoglimento del gravame, ha a sua volta appellato in via incidentale la sentenza in epigrafe, articolando i seguenti motivi, afferenti a ulteriori cause di infondatezza del ricorso di primo grado a suo dire non prese in considerazione dal T.A.R.:

i) violazione e falsa applicazione dell’art. 39 della legge nr. 724 del 23 dicembre 1994 e dell’art. 31 della legge nr. 47 del 1985 (in relazione all’epoca di ultimazione degli abusi per cui è causa);

ii) violazione e falsa applicazione dell’art. 4 della legge nr. 10 del 1977 in relazione all’art. 31 della legge nr. 47 del 1985 (con riguardo alla carenza di legittimazione a proporre l’istanza di condono anche del sig. Vincenzo Siani, quale mero promissario acquirente dell’immobile).

Peraltro, prima dell’udienza di merito l’appellante incidentale ha depositato formale rinuncia alla propria costituzione ed alla connessa impugnazione, notificata a controparte; correlativamente, nell’ambito di successiva memoria difensiva parte appellante ha accettato detta rinuncia ed ha a sua volta rinunciato all’ultimo motivo di appello, relativo proprio alla posizione processuale dell’ing. Capano.

All’udienza del 26 maggio 2016, infine, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. L’odierno appellante signor Vincenzo Siani, giusta preliminare di vendita, si è reso promissario acquirente di un compendio immobiliare sito nel Comune di Cava dei Tirreni, già in proprietà dell’ingegner Nicola Capano.

Nelle intenzioni del promissario acquirente, dopo la realizzazione di opportune opere di recupero, egli si sarebbe trasferito in tale edificio con l’intero suo nucleo familiare, del quale facevano parte, oltre alla moglie e ai cinque figli, anche i genitori signori Irene Scola e Ciro Siani (anch’essi odierni appellanti).

Nelle more della stipula del contratto definitivo, il promissario alienante aveva chiesto e ottenuto un’autorizzazione (prot. nr. 10717 del 4 maggio 1993) per l’espletamento delle necessarie opere di recupero sull’immobile oggetto del preliminare.

Tuttavia, durante i lavori l’edificio fu interessato da un crollo parziale, cui seguì un sequestro eseguito dalla Polizia Municipale per accertati abusi edilizi nella ricostruzione dell’immobile, nonché l’emissione di ordinanza (nr. 557/93 del 13 ottobre 1993) con la quale il Comune ordinava la sospensione dei lavori e il ripristino dello stato dei luoghi.

A seguito di tali vicende, e in forza dell’entrata in vigore della legge 23 dicembre 1994, nr. 724, gli odierni istanti presentarono, in data 1 marzo 1995, tre distinte istanze di condono edilizio in ragione del proprio “programma di convivenza” nel fabbricato in questione: l’istanza del sig. Ciro Siani per uno dei due appartamenti situati al piano mansarda e per uno dei garages posti al piano interrato (e riferita alla tipologia 1 della tabella allegata alla legge 28 febbraio 1985, nr. 47); l’istanza della signora Irene Scola per l’altro appartamento realizzato nel piano mansarda e per un altro dei garages al piano interrato (e anch’essa riferita alla tipologia 1 della tabella allegata alla legge nr. 47/1985); l’istanza del sig. Vincenzo Siani per il primo e il secondo piano del fabbricato, e per due ulteriori garages al piano interrato (e riferita alle tipologie 1, 4 e 7 della tabella allegata alla lehhe nr. 47/1985).

Tuttavia, pur dopo il pagamento di quanto dovuto a titolo di oblazione e oneri concessori, il Comune di Cava dei Tirreni, con unico provvedimento del 19 settembre 2003 a firma del Dirigente del VI Settore Urbanistica, Assetto e Gestione del Territorio, ha respinto le istanze di sanatoria summenzionate.

Gli istanti, quindi, hanno impugnato in sede giurisdizionale il detto provvedimento di reiezione, denunciandone l’illegittimità sotto plurimi profili.

2. Con la sentenza oggetto dell’odierno gravame, la Sezione di Salerno del T.A.R. della Campania ha respinto il ricorso degli odierni appellanti.

In particolare, il primo giudice:

- ha escluso che sulle istanze di condono potesse essersi formato il silenzio-assenso previsto dalla legge nr. 724 del 1994, in ragione della ritenuta infedeltà delle istanze medesime, attraverso le quali si realizzava un artificioso frazionamento di un intervento edilizio in realtà unitario, consistente nella demolizione e integrale ricostruzione dell’edificio con modifiche di sagome e volumetrie e diversa suddivisione degli interni;

- ha ritenuto che i predetti abusi, per la loro natura ed entità, esorbitassero l’ambito degli interventi sanabili in virtù della normativa sopra richiamata, escludendo altresì l’applicabilità dell’art. 43 delle legge nr. 47 del 1985;

- ha, infine, evidenziato anche la carenza di legittimazione alla presentazione delle istanze di condono da parte dei signori Irene Scola e Ciro Siani, i quali non risultavano avere alcun titolo giuridico che ne giustificasse un interesse a conseguire il permesso in sanatoria.

3. Avverso tali statuizioni, insorgono gli originari istanti col gravame oggi all’esame della Sezione.

4. La ricostruzione in fatto che precede, corrispondente a quella ricavabile dagli atti e dalle statuizioni di prime cure, non risulta contestata dalle parti costituite per cui, vigendo la preclusione di cui all’art. 64, comma 2, cod. proc. amm., deve considerarsi idonea alla prova dei fatti oggetto di giudizio.

5. Tutto ciò premesso, occorre preliminarmente dare atto della rinuncia dell’ing. Nicola Capano, già interveniente ad opponendum in prime cure, all’atto di costituzione in giudizio nel presente grado e all’appello incidentale, a cui gli odierni appellanti hanno implicitamente aderito; da ciò derivando, conseguentemente, la rinuncia degli stessi al quinto motivo del ricorso in appello.

6. Nel merito, l’appello è infondato e pertanto meritevole di reiezione.

7. Le questioni poste col primo, col secondo e col terzo dei motivi di appello possono essere esaminate congiuntamente, afferendo a profili giuridici connessi, inerenti alla natura unitaria (o meno) degli abusi edilizi connessi, alla loro conseguente sanabilità (o meno) ed alla possibilità (o meno) di formazione del silenzio-assenso sulle istanze di condono.

7.1. Ed invero, parte appellante assume l’erroneità della valutazione “di fondo” compiuta dal primo giudice, circa la realizzazione dell’opera in totale assenza di titolo edilizio, dalla quale discendono tutte le successive conclusioni in punto di accoglibilità o meno delle domande di condono.

A parere degli istanti, infatti, sussisteva in origine un provvedimento abilitativo legittimante gli interventi sull’immobile de quo, costituito dall’autorizzazione edilizia a suo tempo rilasciata al promissario venditore, e della quale gli stessi odierni appellanti si sono poi avvalsi.

Sulla scorta di ciò, si assume che il Comune, nell’istruire le domande di condono per cui è causa, avrebbe dovuto in sostanza raffrontare le opere realizzate non già all’assetto dei luoghi preesistente, bensì a quanto previsto e assentito con la predetta autorizzazione; in tal modo, si sarebbe dovuto differenziare, nell’ambito dei lavori realizzati, quanto asseritamente corrispondente al titolo edilizio del 1993 da quanto eseguito in difformità dallo stesso, qualificando come abusivi ai fini della sanatoria solo tali ultimi interventi.

In forza di tale impostazione, gli unici abusi di cui tener conto ai fini del condono sarebbero consistiti nella realizzazione del piano interrato adibito ad autorimessa, nel cambio di destinazione d’uso al piano terra e nella suddivisione degli interni in più unità immobiliari (peraltro non portata a compimento a causa del sopravvenuto sequestro penale); invece, non si sarebbe dovuto tener conto delle ulteriori variazioni di sagoma e volumetria, siccome ricomprese nel precitato titolo autorizzatorio del 1993.

Siffatta ricostruzione, pur ingegnosa, è però priva di pregio giuridico.

7.1.1. Ed invero, non risulta contestato fra le parti – ed è anzi allegato dagli stessi istanti - che, dopo l’avvio dei lavori autorizzati nel 1993, l’edificio fu interessato da un crollo parziale, costringendo il promissario acquirente dapprima a intraprendere interventi urgenti di messa in sicurezza (debitamente comunicati al Comune) e quindi a procedere a totale demolizione e ricostruzione dell’immobile: e fu appunto in tale fase che furono accertati gli abusi, con l’adozione di provvedimenti repressivi in sede penale e amministrativa (sequestro preventivo, ordinanza di sospensione dei lavori).

Tale vicenda risulta rilevante ai fini dei successivi sviluppi amministrativi, dal momento che, come evidenziato dall’Amministrazione comunale, è jus receptum che, qualora un titolo ad aedificandum non venga eseguito a causa del crollo dell’edificio – ove anche dovuto a cause esterne e non imputabili ai lavori intrapresi dal concessionario - esso perde efficacia e non può essere invocato per legittimare, neanche parzialmente, un successivo intervento di integrale demolizione e ricostruzione dell’edificio medesimo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 5 ottobre 2001, nr. 5253; id., 23 marzo 2000, nr. 1610).

Pertanto risulta evidente che, una volta verificatosi il crollo parziale di cui si è detto, l’interessato che intendesse provvedere alla integrale ricostruzione dell’edificio, previa sua demolizione, avrebbe dovuto munirsi di nuovo ed apposito titolo abilitativo, e non limitarsi – come avvenuto – a comunicare al Comune l’effettuazione dei necessari e urgenti interventi di messa in sicurezza.

7.1.2. Peraltro, anche a voler seguire la tesi degli appellanti circa la perdurante efficacia del titolo abilitativo summenzionato, occorre comunque tenere conto di ciò che con esso era stato effettivamente assentito dal Comune.

Infatti, dal tenore testuale del provvedimento – laddove si parla di “rimaneggiamento parziale di tegole”, di “consolidamento della sottostante struttura di appoggio verticale”, di “apposizione di gronde e canali”, di “sostituzione del solaio” - si desume una natura sostitutiva-conservativa degli interventi assentiti, incompatibile con quanto di fatto realizzato dagli appellanti, consistente nella non contestata totale demolizione del preesistente fabbricato e nella successiva ricostruzione ex novo di un’unità differente per sagoma e volumetria.

E, d’altra parte, è pacifico in giurisprudenza che gli interventi di “risanamento conservativo”, del tipo di quelli assentiti con l’autorizzazione de qua, per loro natura non possono comprendere variazioni di sagome e volumetrie rispetto all’assetto preesistente (sul punto, cfr. Cons. Stato, sez. V, 28 aprile 2014, nr. 2194; id., 11 novembre 2004, nr. 7325).

7.2. Quanto fin qui esposto rende ragione del perché vadano disattese anche le censure di parte appellante in ordine alla qualificazione come “dolosamente infedele”, ai sensi dell’art. 40 della legge nr. 47 del 1985, della triplice domanda di condono, ed alla conseguente mancata formazione del silenzio-assenso su di esse.

7.2.1. Al riguardo, in disparte la non pertinenza (e anche la genericità) delle deduzioni con le quali gli istanti assumono di non aver omesso l’indicazione, nei confronti dell’Amministrazione comunale, di alcun elemento rilevante per la definizione della pratica edilizia, ciò che rileva nella specie è l’artificiosità dell’intera operazione di “ortopedia” che essi hanno compiuto con le domande di condono in questione, sotto un duplice profilo:

a) ritenendo di poter assumere a termine di riferimento per le valutazioni sulla sanabilità degli abusi eseguiti non già lo stato dei luoghi preesistente, ma quello (asseritamente) riveniente da un precedente titolo autorizzatorio mai portato a esecuzione;

b) frazionando l’intervento abusivo eseguito in tre separate istante di condono, presentate formalmente da soggetti diversi, in modo da aggirare il limite di 750 mc stabilito dall’art. 39, comma 1, della legge nr. 724 del 1994 per la sanabilità degli interventi di nuova costruzione.

7.2.2. Con riguardo a quest’ultimo aspetto, non merita condivisione l’assunto degli appellanti secondo cui proprio la possibilità di deroga al summenzionato limite, prevista dalla legge in caso di interventi di nuova costruzione, consentirebbe di calcolare la volumetria de qua per ciascuna singola richiesta di concessione edilizia in sanatoria.

Sul punto, l’interpretazione della norma fornita dalla Corte costituzionale (sent. 23 luglio 1996, nr. 302) non avalla affatto la tesi suindicata.

E, difatti, è vero che la norma in esame, mentre per gli ampliamenti di edifici già esistenti fissa nei citati 750 mc il limite massimo di volumetria condonabile, per le nuove costruzioni precisa che lo stesso limite vada computato “per singola richiesta di concessione edilizia in sanatoria”: ma ciò non significa affatto che in tal modo sia stato autorizzato il “frazionamento” degli interventi abusivi al fine di eludere il limite de quo, essendosi il legislatore solo preoccupato di precisare che, laddove all’interno di un unico compendio immobiliare sia possibile individuare abusi ontologicamente diversi, è possibile per essi presentare distinte richieste di condono (ciascuna delle quali soggiacerà al ridetto limite volumetrico), mentre in tutti gli altri casi resta fermo che dovranno essere le plurime istanze, sommate assieme, a non eccedere la volumetria di 750 mc (in tal senso, cfr. Cass. pen., sez. III, 13 marzo 1996, nr. 358).

7.3. In considerazione di quanto fin qui esposto, assume carattere recessivo ogni ulteriore argomentazione di parte appellante in ordine alla riconducibilità degli interventi abusivi effettuati all’una o all’altra delle tipologie di cui alla tabella allegata alla legge nr. 47 del 1985, come pure all’invocata applicazione dell’art. 43 della stessa legge per le opere non portate a compimento a causa dei provvedimenti repressivi e interdittivi sopravvenuti.

8. L’infondatezza dell’appello, per le evidenziate ragioni sostanziali, esonererebbe il Collegio dall’esame dell’ulteriore questione, evocata dal terzo motivo di impugnazione, in ordine alla sussistenza o meno di legittimazione degli odierni appellanti signori Irene Scola e Ciro Siani a formulare la domanda di condono.

Tuttavia, anche ai fini di eventuali future nuove determinazioni dell’Amministrazioni comunali all’esito del presente giudizio, non è fuori luogo rilevare l’infondatezza del gravame anche sotto tale profilo.

In particolare, gli appellanti sostengono che la titolarità del potere di presentare l’istanza di condono edilizio, ex art. 31 della legge nr. 47/1985 (laddove, con formula generica “di chiusura”, fra i soggetti legittimati è ricompreso anche “ogni altro soggetto interessato al conseguimento della sanatoria medesima”), debba ormai essere intesa in senso estensivo, ricomprendendo fra i legittimati anche i portatori di interessi di mero fatto.

Tuttavia, della disposizione testé richiamata occorre dare una lettura improntata a canoni di ragionevolezza: in particolare, in giurisprudenza è ormai pacifico che la facoltà di instare per la sanatoria non può essere più attribuita esclusivamente al titolare del diritto dominicale, ma deve essere estesa anche a soggetti portatori di interessi qualificati e tutelati dalla legge (titolari di diritti reali minori e/o personali di godimento, creditori, soci), e, secondo una lettura più largheggiante, anche ai titolari di un interesse di mero fatto (per un quadro panoramico delle tesi esistenti in giurisprudenza in subiecta materia, cfr. Cons. Stato, sez. V, 8 novembre 2011, nr. 5894).

E però, anche nella più ampia e “liberale” delle prospettive, l’interesse legittimante la richiesta di condono deve pur sempre essere oggettivamente apprezzabile alla stregua di una situazione di collegamento con l’abuso oggetto di condono, e non essere semplicemente affermato da chi propone l’istanza sulla base di una propria visione soggettiva.

L’orientamento estensivo della giurisprudenza, in definitiva, mira a garantire e rafforzare la posizione di individui che siano comunque titolari di una posizione giuridica “qualificata”, e non anche solamente apprezzabile dal punto di vista familiare-affettivo.

Nel caso che qui occupa, non è in discussione che l’abuso sia stato realizzato dal solo sig. Vincenzo Siani, in qualità di promissario acquirente dell’immobile, mentre gli altri due richiedenti risultano interessati soltanto in virtù di un “programma di convivenza”, elaborato dagli stessi istanti ed evidentemente modificabile ad nutum (ciò che è in fatto avvenuto, in occasione di una successiva istanza presentata alla stessa Amministrazione); inoltre, gli stessi appellanti, nel prospettare la propria tesi, fanno riferimento a leggi e circolari nelle quali espressamente viene posta l’attenzione sulle qualità giuridiche che debbono essere necessariamente possedute dal richiedente la sanatoria, da cui non può prescindersi se non ammettendo un’incontrollata e indeterminata potestà di domanda: con la conseguenza che neanche tali richiami giovano a sostenere la legittimazione dei due soggetti diversi dal promissario acquirente e responsabile degli abusi.

Né può avere rilevanza, al riguardo, il fatto che la signora Scola sia stata destinataria di un ordine di demolizione emesso dal Comune, tale circostanza potendo dipendere da svariati fattori anche casuali (p.es. la presenza in loco al momento del sopralluogo della Polizia Municipale) e non essendo ex se idonea a fondare la legittimazione alla richiesta di sanatoria.

9. Alla luce dei rilievi fin qui svolti, s’impone una pronuncia di reiezione dell’appello e di integrale conferma della sentenza impugnata.

Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 cod. pro. civ., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: cfr. explurimis, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., sez. II, 22 marzo 1995, nr. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16 maggio 2012, nr. 7663).

Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

10. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo tenuto conto dei parametri stabiliti dal regolamento 10 marzo 2014, n. 55.

11. Il Collegio rileva, inoltre, che la reiezione dell’appello si basa, come dianzi illustrato, su ragioni manifeste alla stregua di pacifica giurisprudenza, in modo da integrare i presupposti applicativi dell’art. 26, comma 1, cod. proc. amm. secondo l’interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. sez. V, 21 novembre 2014, nr. 5757; id., 11 giugno 2013, nr. 3210; id., 31 maggio 2011, nr. 3252; id., 26 marzo 2012, nr. 1733, cui si rinvia ai sensi degli artt. 74 e 88, comma 2, lettera d), cod. proc. amm. anche in ordine alle modalità applicative ed alla determinazione della misura indennitaria).

Le conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza del Consiglio di Stato sul punto in esame sono state, nella sostanza, recepite dalla novella recata all’art. 26 cod. proc. amm. dal decreto-legge 24 giugno 2014, nr. 90, e in particolare:

a) l’art. 26, comma 1, che rinviava (e rinvia) all’art. 96 cod. proc. civ., prevedeva la condanna, su istanza di parte, al risarcimento del danno se la parte ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (art. 96, comma 1, cod. proc. civ.), nonché la condanna anche d’ufficio in favore dell’altra parte, di una somma equitativamente determinata;

b) il d.l. nr. 90 del 2014 ha inciso sia sull’art. 26, comma 1, cod. proc. amm., in termini generali applicabile per tutti i riti davanti al giudice amministrativo, sia sull’art. 26, comma 2, cod. proc. amm., in termini specifici applicabile solo per il rito in materia di appalti;

c) sebbene l’art. 26, comma 1, cod. proc. amm. continui a richiamare l’art. 96 cod. proc. civ. in tema di lite temeraria, esso detta ora una regola più specifica, stabilendo che in ogni caso il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati.

La condanna dell’originario ricorrente ai sensi dell’art. 26 cod. proc. amm. rileva, infine, anche agli effetti di cui all’art. 2, comma 2-quinquies, lettere a) e f), della legge 24 marzo 2001, nr. 89, come da ultimo modificato dalla legge 28 dicembre 2015, nr. 208.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto:

- respinge l’appello principale;

- dà atto della rinuncia all’appello incidentale;

- per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.

Condanna gli appellanti al pagamento, in favore del Comune di Cava dei Tirreni, di spese e onorari del presente grado del giudizio che liquida equitativamente in € 4.000,00 (quattromila) oltre agli accessori di legge.

Condanna altresì gli appellanti, ai sensi dell’art. 26, comma 1, cod. proc. amm., al pagamento in favore del Comune di Cava dei Tirreni dell’ulteriore somma di € 1.000,00 (mille).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 26 maggio 2016 con l’intervento dei magistrati:

 

Vito Poli, Presidente

Nicola Russo, Consigliere

Raffaele Greco, Consigliere, Estensore

Fabio Taormina, Consigliere

Leonardo Spagnoletti, Consigliere

     
     
L'ESTENSORE   IL PRESIDENTE
     
     
     
     
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 17/06/2016

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)