Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 32, del 8 gennaio 2013
Urbanistica. Differenza tra “densità edilizia territoriale” e “densità edilizia fondiaria”

La “densità edilizia territoriale” è riferita a ciascuna zona omogenea e definisce il carico complessivo di edificazione che può gravare sull’intera zona; viceversa, la “densità edilizia fondiaria” è riferita alla singola area e definisce il volume massimo su di essa edificabile. La densità edilizia territoriale, riferendosi a ciascuna zona omogenea dello strumento di pianificazione, definisce il complessivo carico di edificazione che può gravare su ciascuna zona stessa, per cui il relativo indice è rapportato all’intera superficie della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli destinati alla viabilità, ecc.; viceversa, la densità edilizia territoriale, concernendo la singola area e definendo il volume massimo edificabile sulla stessa, implica che il relativo indice sia rapportato all’effettiva superficie suscettibile di edificazione.
I “volumi tecnici” sono essenzialmente destinati ad ospitare impianti aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzazione dell’immobile ad esempio, gli impianti idrici, gli impianti termici, gli ascensori e i macchinari in genere. Non possono rientrare in tale nozione i volumi che assolvano ad una funzione diversa, sia pur necessaria al godimento dell’edificio stesso e delle sue singole porzioni di proprietà individuale, come la cupola e la galleria coperta, in quanto inoppugnabilmente trattasi di elementi che sono posti a servizio dei singoli esercizi che costituiscono, nel loro insieme, il centro commerciale, il quale a sua volta trova la ragione della propria realizzazione proprio nella comune utilizzazione degli spazi (parcheggi, gallerie coperte, ecc.) che consentono agli utenti di accedere contestualmente e comodamente ad una pluralità di negozi di variegata tipologia. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

N. 00032/2013REG.PROV.COLL.

N. 08898/2004 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8898 del 2004, proposto da: 
L’Alco S.p.a., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avv. Gianfranco Fontana, dall’Avv. Cesare Zonca e dall’Avv. Gabriele Pafundi, con elezione di domicilio presso lo studio di quest’ultimo in Roma, viale Giulio Cesare. 14a/-4;

contro

Regione Lombardia, in persona del Presidente della Giunta Regionale pro tempore, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avv. Piera Pujatti e dall’Avv. Pio Dario Vivone , dall’Avvocatura Regionale, nonché dall’Avv. Federico Tedeschini, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, largo Messico, 7; Comune di Braone (Bs), in persona del suo legale rappresentante pro tempore, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avv. Mauro Ballerini e dall’Avv. Giuseppe Ramadori, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Marcello Prestinari, 13; Sermark S.p.a., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avv. Silvano Canu, con domicilio eletto in Roma presso lo studio dell’Avv. Massimo Lauro, via Ludovisi, 35;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia, n. 870 dd. 23 giugno 2003, resa tra le parti e concernente piano di lottizzazione e conseguenti titoli edilizi.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Braone;

Visto l’atto di costituzione della Regione Lombardia;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della Sermark S.p.a., con contestuale appello incidentale;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 aprile 2012 il Cons. Fulvio Rocco e uditi per l’appellante L’Alco S.p.a. l’Avv. Gabriele Pafundi, per la Regione Lombardia l’Avv.Pierpaolo Pugliano in sostituzione dell’Avv. Federico Tedeschini, per il Comune di Braone l’Avv.Fausto Buccellato in sostituzione dell’Avv. Mauro Ballerini e per la Sermark S.p.a. l’Avv. Gabriele Pirocchi in sostituzione dell’Avv. Silvano Canu;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO e DIRITTO

1.1. Con deliberazione n. 28 dd. 9 marzo 1994 la Giunta Comunale di Braone (Bs) ha approvato in via definitiva il piano di lottizzazione denominato “Alco/Habitat-Legno”, avente ad oggetto la costruzione di un vasto complesso commerciale.

In esecuzione di tale piano di lottizzazione è stata rilasciata alla Alco S.p.a. la concessione edilizia n. 6/94 dd. 23 novembre 1994.

1.2. Con esposto pervenuto alla Regione Lombardia in data 6 luglio 1995, la Sermark S.p.a ha chiesto a’ sensi a’ sensi dell’art. 27 della L. 17 agosto 1942 n. 1150 l’annullamento sia del piano di lottizzazione che della concessione edilizia anzidetti.

Con nota dd. 31 luglio 1995 il Servizio giuridico amministrativo della Regione Lombardia ha trasmesso al Comune di Barone una relazione evidenziante i profili di illegittimità del piano di lottizzazione e della concessione, chiedendo di fornire spiegazioni e documentazione integrativa.

Il Sindaco ha riscontrato tale richiesta con nota dd. 25 ottobre 1995.

I risultati del complesso degli accertamenti compiuti dei funzionari istruttori regionali, dott. Alberto Galazzetti e Arch. Giovanni Floris, sono stati rassegnati, con relazione datata 31 luglio 1996, al Dirigente del competente Settore regionale.

In esito a tale relazione, tale Dirigente, con lettera dd.10 ottobre 1996 ha invitato il Sindaco di Braone a disporre l’annullamento del piano di lottizzazione e della concessione edilizia dianzi citati, avvertendo che in caso di inerzia l’Amministrazione regionale avrebbe proceduto ai sensi dell’art. 27 della L. 1150 del 1942.

1.3. La Regione,inoltre, con note Prot. n. 43.669 e n. 43.670 dd. 23 ottobre 1996 - rispettivamente indirizzate a L’Alco in qualità di titolare della concessione edilizia e all’Ing. Giuseppe Baldissera, in qualità di progettista dell’opera – ha trasmesso la relazione istruttoria con invito a. sensi del terzo comma dell’art. 27 della L. 1150 del 1942 a controdedurre entro il termine di 60 giorni.

L’Alco ha inoltrato le proprie osservazioni con memoria dd. 20 dicembre 1996, pervenuta alla Regione il 30 dicembre 1996).

L’Ing. Baldissera ha replicato a sua volta ai rilievi con proprio scritto dd.18 dicembre 1996, pervenuto alla Regione in data 2 gennaio 1997.

Con nota Prot. n. 2.966 dd. 23 dicembre 1996 il Sindaco di Braone ha riconosciuto la sussistenza solo di alcuni dei vizi contestati, ma ha respinto l’invito dell’anzidetto Dirigente regionale indicando le ragioni che – a suo dire - inducevano a ritenere insussistente o comunque non preminente, rispetto all’affidamento formatosi in capo al privato, l’interesse pubblico giustificante l’annullamento degli atti.

In data 31 ottobre 1997, le conclusioni istruttorie venivano trasmesse dal Dirigente del Settore all’attenzione dell’Assessore competente perché proponesse alla Giunta l’adozione dell’atto.

1.4. In data 31 ottobre 1997, le conclusioni istruttorie venivano trasmesse, dal Dirigente del Settore, all’attenzione dell’Assessore competente perché proponesse alla Giunta l’adozione del provvedimento di annullamento; il che, per l’appunto, è avvenuto con deliberazione dell Giunta Regionale n. 34.426 dd. 30 gennaio 1998.

2.1. L’Alco ha pertanto proposto sub R.G. 481 del 1998 ricorso innanzi al T.A.R. per la Lombardia, Sezione chiedendo l’annullamento di tale provvedimento della Giunta Regionale, nonché della concessione edilizia n. 6/94 dd. 23 novembre 1994 rilasciata in esecuzione del piano di lottizzazione impugnato e di ogni altro atto presupposto e conseguente.

In tale primo grado di giudizio L’Alco ha dedotto le censure qui appresso descritte.

1) Violazione dell’art. 7 e ss. della L. 7 agosto 1990 n. 241.

L’Alco ha in tal senso rimarcato che l’Amministrazione Regionale non ha provveduto a notiziarla dell’avvio del procedimento, limitandosi ad affettuare la mera contestazione contemplata al riguardo dall’art. 27 della L. 1150 del 1942; e in dipendenza di ciò L’Alco ha affermato di non aver potuto partecipare, attraverso la presentazione di memorie e documenti a tutta quella fase della procedura che si è svolta a far tempo dalla data di presentazione dell’esposto alla Regione da parte di Sermark e che si è conclusa il 23 ottobre 1998 con la formulazione della contestazione nei suoi confronti.

2) Violazione dell’art. 27 della L. 1150 del 1942.

Alco ha denotato che la deliberazione della Giunta Regionale recante l’annullamento del piano di lottizzazione è stata assunta dopo il decorso il termine di diciotto mesi dall’accertamento della violazione, stabilito dallo stesso articolo.

Più in dettaglio, rileverebbero in proposito i seguenti due aspetti:

a) dalla lettura deliberazione della Giunta Regionale n. 13.524 in data 24 maggio 1996 risulterebbe che i contestati profili di legittimità a tale data erano già stati accertati, tanto da determinare la Giunta medesima ad emettere un provvedimento di modifica del piano regolatore in itinere;

b) anche a voler assumere come termine a quo la data del 31 luglio 1996, nella quale è stata redatta dagli uffici regionali la relazione istruttoria, risultavano decorsi comunque i diciotto mesi, non essendosi entro tale lasso di tempo perfezionata anche la comunicazione ai destinatari del provvedimento;

3) Illegittimità della deliberazione della Giunta Regionale n. 13.524 dd. 24 maggio 1996 sotto il profilo della carenza dell’interesse pubblico e della totale assenza della motivazione in relazione allo stesso;

L’Alco, dopo aver premesso che il provvedimento di autotutela notoriamente integra l’esercizio di un’attività discrezionale, ha affermato che nella fattispecie l’interesse pubblico sarebbe stato valutato in modo astratto, ossia con esclusivo riguardo alla materiale violazione della disposizione normativa e quindi senza effettuare alcuna comparazione con l’affidamento ingeneratosi nel privato per effetto del rilascio del titolo edilizio, con conseguente e quanto mai consistente danno economico per il privato medesimo.

Secondo Alco, pertanto, la Giunta Regionale non solo non avrebbe valutato la sussistenza di un pubblico interesse all’annullamento, ma avrebbe addirittura disatteso totalmente la relazione dei propri uffici tecnici, nella quale esplicitamente era stata evidenziata l’insussistenza di alcun interesse di natura edilizio-urbanistica, diverso da quello al ripristino della legalità violata, all’annullamento del piano di lottizzazione e del titolo edilizio conseguente.

4) Eccesso di potere sotto il profilo della carenza di motivazione per mancato esame delle controdeduzioni presentate dalla medesima L’Alco.

L’Alco ha in tal senso rilevato di aver prodotto all’Amministrazione Regionale una complessa relazione di controdeduzioni predisposta dall’Avv. Gianfranco Fontana, recante in dettaglio i motivi per i quali dovevano considerarsi inesatte ed infondate le contestazioni fatte dalla Regione medesima: controdeduzioni che, a suo dire, non sarebbero state di fatto disaminate.

5) Eccesso di potere sotto il profilo dell’illogicità del provvedimento.

Secondo L’Alco, dopo che il Sindaco del Comune di Braone si era motivatamente rifiutato di adottare il provvedimento di annullamento del titolo edilizio confermando i precedenti provvedimenti adottati in precedenza, la Giunta Regionale sarebbe stata a sua volta priva del potere di pronunciare l’annullamento;

6) Eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento di potere.

L’Alco ha affermato che la finalità in concreto perseguita dalla Giunta Regionale mediante l’annullamento in autotutela non sarebbe quella della cura degli aspetti urbanistico-edilizi - ai quali, per l’appunto, deve essere finalizzato il provvedimento di annullamento ex art. 27 della L.1150 del 1942 - ma quella di tutelare le ragioni di ordine commerciale poste alla base della denuncia presentata da Sermark, con conseguente utilizzo sviato del relativo procedimento rispetto al fine tipico legislativamente previsto.

7) Infondatezza nel merito.

In via subordinata, Alco ha dettagliatamente disaminato le motivazioni addotte dalla Giunta Regionale a fondamento dell’annullamento da essa disposto nei confronti del piano di lottizzazione e del conseguente titolo edilizio.

Tali motivazioni pertengono, segnatamente, alla destinazione d’uso, alle quantità complessive, all’altezza, agli accessi e ai parcheggi contemplati dal piano di lottizzazione.

In particolare va sin d’ora evidenziato quanto segue.

a) Sulla destinazione d’uso, L’Alco ha rimarcato che nella deliberazione adottata dalla Giunta Regionale si afferma che “la destinazione d’uso commerciale non risultava contemplata, per la zona omogenea produttiva-industriale-artigianale (D) del Piano di Fabbricazione” e che l’art. 33 di quest’ultimo prevede, per contro, fra le destinazioni ammesse in zona D“attrezzature industriali, artigianali, depositi commerciali, residenze dirigenti e custodi, commercio”.

b) Sulle quantità complessive, L’Alco ha sostenuto che non sussisterebbe affatto l’eccedenza di 3.000 mq. affermata dalla Giunta Regionale, dovendosi ritenere semmai erroneo il riferimento alla densità fondiaria in luogo di quella territoriale.

c) Per quanto attiene al superamento dei limiti posti dal regolamento edilizio L’Alco ha reputato tale circostanza insussistente, posto che la cupola piramidale e la copertura della galleria dovrebbero semmai considerarsi volumi tecnici, non computabili.

d) Per quanto riguarda invece gli accessi, secondo L’Alco il mancato rispetto delle prescrizioni poste dal P.R.G. in itinere risultava del tutto fuori luogo, posto che la Giunta Regionale, in sede di approvazione definitiva del piano medesimo ha riportato la zona in questione allo stato previsto dal precedente Piano di Fabbricazione.

e) Da ultimo, per quanto concerne la mancanza di parcheggi affermata nel provvedimento della Giunta Regionale, L’Alco ha evidenziato che una parte dei parcheggi stessi sarebbe stata monetizzata e che tale scelta è stata ritenuta dalla Giunta Regionale non già illegittima ma inopportuna, e che l’inopportunità – proprio poiché concettualmente diversa dall’illegittimità – non potrebbe ex se essere invocata a fondamento di un provvedimento di annullamento in autotutela.

1.3. Si è costituita in tale primo grado di giudizio la Regione Lombardia, replicando puntualmente alle censure de L’Alco e concludendo per la reiezione del ricorso.

1.4. Si è parimenti costituita in giudizio Sermark, dispiegando intervento adesivo ad opponendum, affermando di essere titolare quantomeno di un interesse di fatto al mantenimento del provvedimento regionale di annullamento del piano di lottizzazione e del titolo edilizio emanato nella vigenza di quest’ultimo: e ciò nella propria veste di soggetto economico operante nel medesimo settore con particolare riferimento ad un identico bacino di utenza.

1.5. Con ordinanza n. 515 dd. 19 giugno 1998 l’adito giudice ha respinto la domanda di sospensione cautelare degli atti impugnati proposta da L’Alco.

1.6. In prossimità dell’udienza di discussione del merito di causa la Regione Lombardia ha prospettato la sussistenza di circostante di fatto che facevano venire meno l’interesse de L’Alco alla decisione del ricorso, posto che in data 4 novembre 1999 il Comune di Braone ha sottoposto alla Giunta Regionale l’approvazione di una variante al P.R.G. al fine di sanare la situazione urbanistica ed edilizia dell’insediamento commerciale realizzato sulla base degli atti fatti oggetto di annullamento, e che la Giunta Regionale aveva a sua volta chiesto al Comune di Braone di apportare alla variante medesima una serie di modifiche ed integrazioni, recepite con deliberazione consiliare n. 25 dd. 26 settembre 2000; tale variante è stata quindi approvata definitivamente con deliberazione della Giunta Regionale n. 2225 dd. 31 maggio 2002.

Secondo la difesa della Regione, tale variante allo strumento urbanistico primario di Braone presentava “contenuti e previsioni tali da consentire di considerare sostanzialmente superati i principali profili di illegittimità posti illo tempore a fondamento dell’annullamento regionale, relativi... a destinazioni funzionali ammissibili, quantità edificatorie complessive, dotazioni di standard, in particolare di parcheggi, accessibilità alla struttura”, con la conseguenza che le pretese azionate da L’Alco dovevano reputarsi integralmente soddisfatte con la cessazione della materia del contendere.

1.7. Alla pubblica udienza di trattazione del ricorso Sermark ha per contro evidenziato che la variante anzidetta poneva in essere un assetto urbanistico differente rispetto ai precedenti strumenti urbanistici, con la conseguenza che necessitava comunque l’adozione di un nuovo piano di lottizzazione al fine di legittimare – ove del caso – l’insediamento de L’Alco.

Sermark ha inoltre precisato di aver proposto innanzi allo stesso T.A.R. ricorso sub R.G. 991 del 2002 avverso la predetta deliberazione della Giunta Regionale n. 2225 del 2002, chiedendo quindi al giudice adito verificare l’eventuale sussistenza al riguardo di un rapporto di pregiudizialità tra le due cause.

1.8. Il patrocinio de L’Alco ha negato, a sua volta, l’esistenza al riguardo di un rapporto di pregiudizialità e, anche in dissenso rispetto alla tesi della difesa della Regione, ha affermato il permanere dell’interesse dell’Alco medesima dell’interesse alla decisione del proprio ricorso,, derivante dalla mancanza di effetti retroattivi della variante anzidetta.

1.9. Con sentenza n. 870 dd. 23 giugno 2003 l’adito T.A.R., previa affermazione della permanenza de L’Alco alla decisione del ricorso da essa proposto, lo ha respinto compensando integralmente tra le parti le spese di tale primo grado di giudizio.

2.1. Con l’appello in epigrafe L’Alco chiede ora la riforma di tale sentenza, riproponendo integralmente le censure già da essa dedotte innanzi al giudice di primo grado.

2.2. Si è costituita nel presente grado di giudizio la Regione Lombardia, concludendo per la reiezione dell’appello.

2.3. Si è parimenti costituita nel presente grado di giudizio Sermark., parimenti concludendo per la reiezione dell’appello.

Sermark, peraltro, ha anche proposto appello incidentale per quanto segnatamente attiene al secondo motivo di appello dedotto da L’Alco e riproduttivo del secondo motivo di ricorso in primo grado, affermando che, ove dovesse essere accolta la tesi della ricorrente principale circa la tardività della notificazione del provvedimento di annullamento rispetto ai 18 mesi contemplati al riguardo dall’art. 27 della L.1150 del 1942, comunque la notificazione medesima risulterebbe idonea allo scopo anche se il dies a quo venisse a cadere nel mese di ottobre del 1996; e ciò, senza sottacere che la stessa L’Alco avrebbe comunque probatamente conosciuto in data 4 febbraio 1998 l’intero testo del provvedimento di annullamento adottato dalla Giunta Regionale e che tale circostanza esimerebbe pertanto ex se l’Amministrazione Regionale dall’adempimento di notificazione di quest’ultimo.

2.4. Si è infine costituito nel presente grado di giudizio il Comune di Braone, concludendo per l’accoglimento dell’appello principale.

3. Alla pubblica udienza del 17 aprile 2012 la causa è stata trattenuta per la decisione.

4. Va preliminarmente precisato che il Collegio condivide la tesi del giudice di primo grado secondo la quale sussiste a tutt’oggi l’interesse de L’Alco alla decisione della presente causa.

Come infatti ha ben evidenziato il T.A.R., è ius receptum che la cessazione della materia del contendere si verifica quando l’amministrazione elimina ex tunc il provvedimento impugnato in aderenza alle pretese del ricorrente, con la conseguenza che quest’ultimo realizza in via amministrativa l’interesse che voleva ottenere in via giudiziale, rendendosi pertanto inutile la pronuncia del giudice (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 30 maggio 2005 n. 2772, nonché la più risalente pronuncia di Cons. Stato, Sez. V, 16 settembre 1994 n. 994, laddove espressamente si precisa – tra l’altro – che nel caso in cui gli effetti dell’atto lesivo vengano meno in dipendenza dell’adozione di un altro provvedimento privo di effetti retroattivi, la cessazione del contendere non può intendersi realizzata).

Nel caso di specie va in effetti evidenziato che la variante allo strumento urbanistico primario comunale, ancorchè approvata mediante deliberazione della Giunta Regionale, non reca alcuna espressa disciplina di rimozione della deliberazione della medesima Giunta Regionale qui impugnata, la quale dunque seguita a dispiegare effetto per il passato; e, del resto, risulta pure assodato che le modifiche della disciplina urbanistica non hanno effetto retroattivo: e ciò in applicazione del più generale principio dell’irretroattività degli atti amministrativi, il quale a sua volta discende dal fondamentale principio di legalità, deputato a garantire la certezza delle situazioni giuridiche in atto (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, 26 novembre 2001 n. 5949).

Né, comunque, la disciplina introdotta dalla variante urbanistica è tale da consentire la convalida dell’anzidetto piano di lottizzazione, se non altro in considerazione della circostanza che con la variante medesima vengono introdotte ben più elevate dotazioni di aree a standard.

Va anche soggiunto che il mero sopravvenire di una nuova destinazione urbanistica non può ex se dispiegare un effetto sanante sulle opere realizzate in forza del titolo edilizio annullato, posto che a ciò osta l’art.13 della L. 28 febbraio 1985 n. 47, vigente all’epoca dei fatti di causa e ora riprodotto sul punto dall’art. 36, comma 1, del T.U. approvato con D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 nel testo integrato per effetto dell’art. 1 del D.L.vo 27 dicembre 2002 n. 301, laddove segnatamente dispone che il titolo edilizio è rilasciato “in sanatoria allorquando la relativa opera risulta conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati, sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda”.

A ragione il giudice di primo grado, pertanto, ha evidenziato che in presenza dei requisiti testè descritti (c.d. “doppia conformità”) il rilascio del titolo edilizio in sanatoria costituisce atto dovuto, nel mentre ove ciò non fosse l’Amministrazione Comunale è vincolata all’adozione del provvedimento di diniego (cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 2 novembre 2009

n. 6784).

Il giudice di primo grado non ha dunque condiviso al riguardo la giurisprudenza minoritaria che reputa sufficiente la sussistenza della conformità edilizia all’atto dell’avvenuto mutamento della disciplina di piano, e la cui ratio ad essa sottesa è da individuarsi nell’esigenza di non imporre la demolizione di un’opera che, in quanto conforme alla disciplina urbanistica attuale, dovrebbe essere successivamente autorizzata su semplice presentazione di istanza di rilascio, in tal modo evitando uno spreco di attività inutili, sia per l’Amministrazione, che per il privato autore dell’abuso: indirizzo, questo, contraddistinto peraltro da una concezione antinomica tra principio di efficienza e principio di legalità e che – per l’appunto – assegna la prevalenza al primo rispetto al secondo (cfr., ad es., Cons.Stato, Sez. V, 21 ottobre 2003 n. 6498 e 13 febbraio 1995 n. 238).

Il giudice di primo grado ha rettamente denotato in tal senso che tale figura pretoria di sanatoria trovava apparentemente fondamento nell’art. 15, comma 12, della L. 28 gennaio 1977 n. 10, il quale peraltro si limitava – a ben vedere - a liberalizzare la realizzazione di alcune varianti di importanza secondaria a progetti edilizi assentiti ma senza disciplinare la complessiva problematica della sanatoria amministrativa degli interventi abusivi, solo susseguentemente affrontata sul punto dall’anzidetto art. 13 della L. 47 del 1985 ma in termini che anche sotto l’immediato profilo letterale divergono da quello dell’anzidetto indirizzo giurisprudenziale rimasto minoritario.

In tale contesto il giudice di primo grado ha dunque esattamente inteso il titolo edilizio in sanatoria quale provvedimento tipico che elimina l’antigiuridicità dell’abuso estinguendo il reato ed il potere repressivo dell’Amministrazione, con la conseguenza che la sua applicazione ed i suoi limiti non possono che essere specificamente disciplinati dalla legge, non essendo con ciò possibile l’esercizio, da parte dell’amministrazione, di un potere di sanatoria che si estenda oltre i limiti imposti dal legislatore: anche perché non sarebbe ammissibile una interpretazione finalizzata alla protezione di interessi privati scaturenti da comportamenti antigiuridici, che permetterebbe, oltretutto, la possibilità di usufruire delle modifiche della disciplina urbanistica idonee a legittimare l’edificazione abusiva, addirittura, fino alla esecuzione della definitiva sanzione della demolizione; e, se così è, il principio di cui all’art. 97 della Cost., laddove farebbe ritenere illogica la demolizione dell’opera quando la stessa potrebbe essere assentita sulla base della sopravvenuta strumentazione urbanistica primaria,deve comunque intendersi recessivo rispetto al principio di legalità, il quale impone invece la necessaria e stretta osservanza della disciplina dettata dalla legge per la sanatoria delle opere abusive.

Concludendo sul punto, il T.A.R. ha pertanto a ragione ricusato di dichiarare nella specie la cessazione della materia del contendere, in quanto l’operato dell’Amministrazione susseguente alla proposizione della causa non si configura integralmente satisfattivo dell’interesse azionato (così, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 18 ottobre 2011 n. 5595).

5. Sempre a ragione il giudice di primo grado ha nella specie ricusato di sospendere il giudizio a’ sensi dell’art. 295 cod. proc.civ., posto che la sospensione stessa presuppone un nesso di stretta dipendenza e di consequenzialità logica tra due controversie nel senso che il merito dell’una non può essere esaminato prima che venga definita la questione pregiudiziale(cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 10 settembre 2009 n.5456); e nel caso in esame tale situazione non sembra in effetti sussistere, non ravvisandosi una necessaria presupposizione tra il procedimento di variante e quello di annullamento ex art. 27 della l. 17 agosto 1942 n. 1150.

6.1. Tutto ciò premesso, l’appello in epigrafe va respinto per quanto qui appresso specificato.

6.2. Va innanzitutto evidenziato che nella deliberazione della Giunta Regionale n. 34.426 dd. 30 gennaio 1998 è richiamato in primo luogo il contenuto qui rilevante della strumentazione urbanistica in vigore nel Comune di Braone alla data di approvazione del piano di lottizzazione e di emanazione della concessione edilizia, con la precisazione che a’ sensi del piano di fabbricazione approvato in data 22 giugno 1978 la destinazione urbanistica dell’area in questione era in parte zona omogenea “produttiva-industriale-artigianale D” (cfr. articolo 33 del regolamento edilizio) e per il resto sottoposta a piano di lottizzazione con preesistenza, sulla zona esterna a quest’ultimo, di un fabbricato avente una volumetria di 42.000 mc. circa.

Nella stessa deliberazione si afferma quindi che secondo il nuovo P.R.G. adottato con deliberazione consiliare n. 18 dd. 17 luglio 1993 la parte già ricompresa nella lottizzazione, così come individuata dal piano di fabbricazione, è classificata come zona D2 “industriale e commerciale di espansione” (cfr. art. 28 delle relative norme tecniche di attuazione), nel mentre la restante parte è classificata come zona D1 “industriale e commerciale esistente” (fr. ibidem, art. 27); e che, peraltro, lo stesso P.R.G. così come approvato con la deliberazione della Giunta Regionale n. 18.660 dd. 27 settembre 1996 ha ricondotto l’area interessata dall’insediamento alla destinazione di zona a suo tempo prevista dal piano di fabbricazione, e ciò – segnatamente – “nell’attesa di specifico provvedimento urbanistico adottato dall’Amministrazione Comunale ai sensi della vigente legislazione”.

Ciò posto, la Giunta Regionale afferma di determinarsi nel senso dell’annullamento del piano di lottizzazione e del titolo edilizio conseguentemente rilasciato, dopo aver disaminato il responso dato dal Sindaco di Braone, le controdeduzioni de L’Alco e dell’Ing. Baldissera, nonché le ulteriori deduzioni di Sermark, esplicitando quindi i diversi profili di illegittimità rilevati, riferiti sia al piano di lottizzazione, sia al titolo edilizio e segnatamente attinenti alla destinazione d’uso, alle quantità complessive, alle altezze, agli accessi, nonché alla dotazione di parcheggi.

In particolare, la Giunta Regionale ha evidenziato quanto segue.

1) Per quanto attiene alla destinazione d’uso, secondo il piano di lottizzazione “la destinazione prevista è di tipo commerciale” (cfr. la relazione tecnica illustrativa del piano medesimo); peraltro la destinazione d’uso commerciale non risultava a quel tempo contemplata dall’allora vigente programma di fabbricazione con riferimento alla zona omogenea “produttiva-industriale-artigianale (D)”, posto che per tale zona omogenea la voce “commercio” risulta citata unicamente a chiusura dell’elenco delle destinazioni ammesse, ossia “con chiaro significato di accessorietà rispetto alle principali destinazione di carattere industriale-artigianale, come si evince anche dalla prescrizione relativa allo standard connesso, stabilito solo nella quota del 20% e non anche in quella del 80% all’epoca operante per le destinazioni commerciali (D.M. 2 aprile 1968). Tale valutazione di incompatibilità era già stata anticipata al Comune in sede di restituzione, con nota regionale in data 7 agosto 1992 Prot. n. 32.900, della specifica variante al medesimo piano di fabbricazione - al fine di mutare in commerciale la destinazione dell’ambito in questione - dallo stesso adottata, con la motivazione, seppur sussidiaria, che trattavasi di “ ripianificazione del territorio (da zona produttiva a zone commerciali)” (cfr. deliberazione della Giunta Regionale cit.).

2) Per quanto concerne le quantità complessive, la Giunta Regionale afferma che “in sede di concessione edilizia, richiesta rilasciata per l’intero complesso (ricadente parte sul lotto 1 del piano di lottizzazione, parte sul lotto contiguo), per una superficie lorda di pavimento complessiva pari a mq. 17.958, si è verificato un trasferimento di superficie lorda di pavimento dal piano di lottizzazione al lotto contiguo, senza previo adeguamento del piano di lottizzazione stesso in termini di convezionamento della capacità residua offerta dal P.R.G. in salvaguardia. In termini di quantità complessive, dai calcoli effettuati sulla base dei dati della concessione edilizia n. 6 del 1994 risulta comunque concessionata una quantità di superficie lorda di pavimento non giustificabile, sia nel caso di calcoli effettuati sulla base di indici di utilizzazione posti dal piano regolatore adottato, senza tener conto dell’edificato esistente (+ 3.243 mq.) sia nel caso di calcoli effettuati tenendo conto delle superfici preesistenti (+ 3456, 56 mq.)” (cfr. ibidem).

3) In ordine alle altezze, la Giunta Regionale afferma che “il complesso edilizio assentito con la concessione edilizia raggiunge, per alcune strutture, un’altezza di metri 14,40 e, per altre, di metri 11,60, in contrasto sia con l’articolo 47 del Regolamento Edilizio che prevedeva, per la zona D, un’altezza massima di metri 9, sia con la normativa di piano di lottizzazione che riduceva a soli metri 7,43 l’altezza ammissibile. Al riguardo, la tesi per la quale la cupola piramidale e la copertura della galleria centrale vanno assimilate a lucernari, espressamente esclusi dalla verifica dell’altezza massima, non può essere condivisa per due motivi: perché tali strutture, così come autorizzate e realizzate, non si configurano certo, per dimensioni caratteristiche tecniche, quali volumi tecnici, bensì come elementi architettonici autonomi; in secondo luogo, perché non soddisfano comunque l’ulteriore requisito, richiesta dalla norma del Regolamento Edilizio, di non visibilità “dal lato opposto della strada verso cui prospetta il fabbricato” (cfr. ibidem).

4) Per quanto attiene agli accessi, la Giunta Regionale ha rilevato che “come si evince dalla tavola 3b della concessione edilizia, la strada di servizio appare localizzata su aree che il piano regolatore adottato destinava a standards;la non conformità con le previsioni dello strumento in itinere riguarda altresì gli accessi, parimenti ricavati in ambiti destinati al rispetto della strada provinciale e a standard urbanistico” (cfr. ibidem).

5) Per quanto poi da ultimo segnatamente attiene ai parcheggi, la Giunta Regionale ha affermato che per quanto concerne “alla necessaria dotazione ex art. 41 sexies della legge urbanistica” (rectius: art. 41 sexies della L. 17 agosto 1942 n. 1150, come aggiunto dall’art. 18 della L. 6 agosto 1967 n. 765 e successivamente sostituito dall’art. 2 della L. 24 marzo 1989 n. 122 nel testo vigente all’epoca dei fatti di causa) di parcheggi a servizio dell’insediamento, pur aderendo alla tesi, sostenuto dalla società promotrice dell’intervento, dell’avvenuto reperimento di una parte degli stessi all’interno del piano esecutivo, non è accettabile che, per la restante quota, tale parcheggi, che sono di natura privata, vadano a occupare aree destinate a standard dal piano regolatore.

Relativamente alla dotazione di aree a standard, della convenzione stipulata (peraltro difforme dalla bozza provata) si evince che le stesse sono state oggetto di monetizzazione, scelta questa, se non illegittima, palesemente inopportuna e non coerente con le finalità cui presiede la disciplina degli standards urbanistici dettata dall’articolo 22 della L.R. 15 aprile 1975 n. 51, dal momento che il piano regolatore non localizza ambiti a standards commerciali, con conseguente deficit di tali servizi” (cfr. ibidem) .

La Giunta Regionale ha quindi espressamente “preso atto del parere formulato, dietro richiesta del servizio componente, dal comitato legislativo nella seduta del 26 gennaio 1998, che evidenzia, tra l’altro, la sussistenza, a livello di giurisprudenza amministrativa, a partire dalla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, 30 settembre 1980 n. 801, di un orientamento per il quale l’esercizio del potere regionale di annullamento ex articolo 27 della L. 1150 del 1942 “è finalizzato allo scopo di ricondurre le amministrazioni comunali al rigoroso rispetto della normativa in materia edilizia, onde l’interesse pubblico all’annullamento regionale è in esso implicito... e non sono richieste valutazioni in ordine al sacrificio del privato, all’affidamento od all’opportunità, essendo i suddetti interesse pubblico di carattere indisponibile” (T.A.R. Piemonte, Sez. I, 5 giugno 1996 n. 448). Ritenuto di uniformarsi all’orientamento giurisprudenziale testé richiamato, dando atto conseguentemente che, nel caso di specie, essendo stata accertata una situazione di gravi legittimità, determinatasi a più riprese e sotto svariati profili, ricorre presupposti per l’esercizio del predetto potere regionale.

Ritenuto di controdedurre, nei termini seguenti, in merito ad alcune delle considerazioni svolte dal Sindaco di Braone a supporto della sua determinazione, sopra richiamata, di non procedere all’annullamento, in via di autotutela, degli atti de quibus: quanto al“ragionevole concreto affidamento” che si sarebbe formato “in capo al privato circa la futura realizzazione dell’opera”, si rileva come, secondo autorevole giurisprudenza (cfr. ad es. Cons. Stato, Sez. V, 19 settembre 1992 n. 844), il breve lasso di tempo intercorso tra il rilascio di una concessione edilizia e il suo annullamento non può determinare stratificazioni di diritti e aspettative; … quanto ai presunti benefici che l’intervento produrrebbe sotto il profilo occupazionale si evidenzia che l’Amministrazione Regionale per due volte ha negato i richiesti nullaosta commerciali pertanto il fabbricato non potrebbe comunque, allo stato attuale, essere adibito alla prevista destinazione commerciale. Considerato che l’entità delle difformità urbanistico-edilizia come sopra dettagliate è tale da compromettere l’assetto urbanistico del territorio comunale; Rilevato che, in relazione alle carenze sono evidenziate in merito agli accessi al centro commerciale, l’intervento in questione non risulta adeguatamente inserito nel sistema della viabilità”.

6.3. Prima della disamina del contenuto delle censure dedotte in primo grado, il T.A.R. ha correttamente ricostruito i presupposti e le modalità procedimentali del potere regionale di annullamento dei provvedimenti comunali che risultano non conformi agli strumenti urbanistici: il che giova non solo sotto il mero profilo descrittivo delle peculiarità della disciplina di diritto positivo che è stata applicata nella specie, ma risulta utile anche - e soprattutto - al fine di confutare la tesi de L’Alco secondo la quale la Giunta Regionale non avrebbe potuto disporre l’annullamento dopo che il Sindaco del Comune di Braone, mediante il proprio provvedimento dd. 23 dicembre 1996 si era a sua volta motivatamente rifiutato di annullare gli atti in questione, con la conseguenza che - sempre secondo la prospettazione dell’attuale appellante - il potere regionale di annullamento, avendo carattere sostitutivo, presupporrebbe necessariamente l’assoluta inerzia da parte del Comune quale titolare dell’originario potere di annullamento.

Giova quindi evidenziare, innanzitutto, che l’art. 27, primo comma, della L. 17 agosto 1942 n. 1150, intitolato“annullamento di autorizzazione comunali”, nel testo sostituito dall’art. 7 della L. 6 agosto 1967 n. 765 dispone al primo comma che “entro dieci anni dalla loro adozione le deliberazioni ed i provvedimenti comunali che autorizzano opere non conformi a prescrizioni del piano regolatore o del programma di fabbricazione od a norme del regolamento edilizio, ovvero in qualsiasi modo costituiscano violazione delle prescrizioni o delle norme stesse possono essere annullati, ai sensi dell’art. 6 del testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con R.D. 3 marzo 1934, n. 383, con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro per i lavori pubblici di concerto con quello per l’interno”.

Tale potere è stato trasferito alle Regioni a’ sensi dell’art. 1, lett. o) del D.P.R. 15 gennaio 1972 n. 8, laddove segnatamente si prevede, nell’effettuare il trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di urbanistica, la clausola d’ordine generale che ricomprende nel trasferimento medesimo “ogni ulteriore funzione amministrativa esercitata dagli organi centrali e periferici dello Stato …” (cfr. in tal senso la dianzi citata decisione di Cons. Stato Sez. V, 30 settembre 1980 n. 801).

Il terzo comma dello stesso art. 27 dispone quindi che il provvedimento di annullamento “è preceduto dalla contestazione delle violazioni stesse al titolare della licenza, al proprietario della costruzione e al progettista, nonché alla Amministrazione comunale con l’invito a presentare controdeduzioni entro un termine all’uopo prefissato”.

Inoltre Cons. Stato, Sez. IV, 20 febbraio 1998 n. 315 ha rimarcato la differenza dell’istituto in esame rispetto al potere di annullamento d’ufficio delle concessioni di costruzione illegittime viceversa conferito al Sindaco dall’art. 10 della L. 6 agosto 1967 n. 765 e dall’art. 1 della L. 28 gennaio 1977 n. 10, posto che l’Amministrazione Regionale è soltanto titolare di poteri di vigilanza e di controllo ma è priva della facoltà di sostituirsi al Comune nell’adottare determinate scelte ed è tenuta a valutare l’ interesse pubblico con riferimento esclusivo alla conservazione della situazione esistente; viceversa il Sindaco deve valutare l’interesse pubblico alla rimozione dell’ atto invalido alla stregua delle altre possibilità di eliminare, in via alternativa, il vizio riscontrato, ossia mediante la modifica agli strumenti urbanistici, l’offerta di integrazione delle opere di urbanizzazione, ecc.

L’annullamento disposto dall’Amministrazione Regionale è configurato dal legislatore quale adattamento del generale potere di annullamento d’ufficio contemplato dall’allora vigente art. 6 del R.D. 3 marzo 1934 n. 383 (ora riferibile all’art. 2, comma 3, lett. p), della L. 23 agosto 1988 n. 400, nonché all’art. 138 del T.U. approvato con D.L.vo 18 agosto 2000 n. 267).

A ragione il giudice di primo grado ha rimarcato in tal senso che l’esercizio del potere sostitutivo da parte dell’Amministrazione Regionale, a differenza del potere di autotutela riconosciuto sempre in via generale al Comune, non comporta un riesame del precedente operato da parte del soggetto titolare del potere di annullamento, ma è essenzialmente finalizzato ad assicurare da parte delle Amministrazioni comunali il rigoroso rispetto della normativa in materia edilizia.

Discende dunque da tutto ciò l’infondatezza, sia sotto il profilo letterale che sistematico, della ricostruzione dell’istituto proposta da L’Alco e secondo la quale l’esercizio del potere di annullamento da parte della Regione risulterebbe subordinato alla mancanza di un provvedimento espresso da parte del Comune: come ora rilevato, infatti, il presupposto per l’esercizio del potere di annullamento d’ ufficio dei titoli edilizi attribuito al Sindaco diverge sensibilmente da quello conferito alla Regione, né l’esercizio di quest’ultimo è subordinato al mancato esercizio del primo: ossia, la decisione da parte del Comune di non esercitare il proprio potere di autotutela non può, se non a pena dell’inefficienza del “sistema”, dispiegare un effetto preclusivo all’esercizio del differente potere riconosciuto alla Regione.

6.4. Ciò posto, sia in primo grado di giudizio, sia nella presente sede d’appello L’Alco ha dedotto l’avvenuta violazione dell’art. 7 della L. 7 agosto 1990 n. 241, rimarcando che l’Amministrazione Regionale si sarebbe limitata ad effettuare la comunicazione prevista dall’articolo 27, terzo comma, della L. 1150 del 1942, omettendo per contro di comunicarle l’avvio del procedimento di annullamento.

L’Alco afferma che in dipendenza di ciò essa non avrebbe potuto partecipare, attraverso la presentazione di memorie e documenti a tutta quella fase della procedura che si è svolta a far tempo dalla data di presentazione dell’esposto alla Regione da parte di Sermark sino alla data del 23 ottobre 1998, allorquando è stata per l’appunto formulata la contestazione contemplata dallo stesso terzo comma dell’art. 27.

A ragione il giudice di primo grado ha respinto tale primo ordine di censure evidenziando, a sua volta, che i principi complessivamente desumibili dall’art. 7 della L. 241 del 1990 garantiscono la partecipazione di tutti i soggetti interessati al processo di formazione della volontà dell’amministrazione che esercita l’azione amministrativa, garantendo ai soggetti interessati dall’azione stessa l’inoltro della tempestiva notizia dell’avvenuto avvio del procedimento, e che – nella specie – tale finalità risulta ex se assicurata dalla procedura di constatazione di cui al predetto terzo comma dell’art. 27.

Semmai – ha correttamente denotato lo stesso giudice – L’Alco ha inteso mediante la propria censura attrarre nella medesima garanzia procedimentale anche la precedente fase di svolgimento delle indagini meramente preliminari compiute dalla Regione a fronte della presentazione dell’esposto di Sermark: ma in tal senso va ribadito che le norme in materia di partecipazione al procedimento amministrativo non vanno applicate in via meramente formale, ma debbono essere interpretate in base a un criterio di realistica valutazione sull’effettiva conoscenza o conoscibilità di una sequenza e dei suoi probabili effetti lesivi (così, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 30 settembre 2002, n. 5058) e che il principio di democraticità del procedimento amministrativo, cui sono preordinati l’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990, va assicurato dal “sistema” nella sostanza e non già nella mera forma, con la conseguenza che ogni qualvolta l’interessato sia stato informato dell’esistenza di un procedimento diretto ad incidere sulla propria sfera giuridica e sia stato messo in condizione di utilmente rappresentare le sue deduzioni, così da integrare la nozione di partecipazione, non può ritenersi violato alcun canone del giusto procedimento. (cfr. sul punto Cons. Stato, Sez. V, 18 novembre 2002 n. 6389).

In considerazione di ciò, quindi, la fase procedimentale antecedente alla contestazione di cui all’art. 27, comma 3, della L. 1150 del 1942 è – come a ragione affermato dal giudice di primo grado – meramente istruttoria, e tale quindi da non richiedere la partecipazione al procedimento da parte del soggetto o dei soggetti cui l’eventuale contestazione va rivolta: ossia in tale fase preliminare l’Amministrazione Regionale va lasciata assolutamente libera di apprezzare autonomamente la fattispecie, non essendo l’eventuale formulazione della contestazione preclusiva per qualsivoglia argomento defensionale che il destinatario o i destinatari della stessa intenderanno dedurre.

Detto altrimenti, è proprio la contestazione che assolve alla necessaria funzione di avvio del procedimento a’ sensi dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990 e che pone i suoi destinatari in grado di tutelare pe proprie ragioni nel conseguente procedimento.

Nella specie, oltre a tutto, anche ove si volesse accedere alla tesi dell’appellante principale non è comunque ravvisabile alcuna violazione del principio partecipativo, posto che, come già documentato in primo grado dalla difesa di Sermark (cfr. i doc.ti nn. 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11 e 12 del relativo fascicolo) anche nella fase preliminare della procedura, e pur non essendo stata ancora formulata dalla Regione la contestazione di cui all’art. 27, terzo comma, della L. 1150 del 1942, è stato comunque attivato da parte del Comune di Braone un contraddittorio sia con L’Alco, sia con il progettista Ing. Baldissera, i quali hanno avuto così modo di interloquire e di dedurre già oin tale fase meramente istruttoria i propri argomenti a difesa, forniti quindi dal Comune medesimo alla Regione.

Tra l’altro, come ha sempre denotato lo stesso giudice di primo grado, proprio in dipendenza di tali deduzioni la stessa Regione ha mutato avviso sull’ammontare delle superfici in esubero, da essa infatti ab origine stimate pari a mq. 7.463 nella propria relazione dd. 31 luglio 1995 e poi quantificate in mq. 3.465 nella susseguente contestazione ex art. 27: ma - giova ribadire - nulla peraltro sarebbe mutato nella sostanza ove L’Alco avesse dedotto la relativa circostanza dopo la contestazione medesima.

6.5. L’Alco ha anche dedotto sotto altro profilo la violazione del terzo comma dell’art. 27 della L. 1150 del 1942, sostenendo che la deliberazione della Giunta Regionale impugnata in primo grado è stata adottata allorquando era già decorso il termine di diciotto mesi dall’accertamento della violazione, per l’appunto contemplato ex lege.

In particolare, secondo L’Alco, dalla deliberazione della Giunta Regionale n. 13.524 in data 24 maggio 1996 consterebbe che i contestati profili di legittimità a tale data erano già stati accertati, tanto da determinare la Giunta medesima ad emettere un provvedimento di modifica del piano regolatore in itinere, e che anche ove si volesse assumere come termine a quo la data del 31 luglio 1996, nella quale è stata redatta da parte della stessa Amministrazione Regionale la relazione istruttoria, risulterebbe comunque decorso l’anzidetto termine di diciotto mesi, non essendosi perfezionata entro tale lasso di tempo la comunicazione ai destinatari del provvedimento;

Anche tale prospettazione dell’appellante principale non può essere accolta.

A ragione il giudice di primo grado ha innanzitutto rimarcato che per consolidato orientamento (cfr, per tutti, Cons. Stato, A. P., 25 febbraio 1980 n. 8 ) il termine di diciotto mesi contemplato dall’art. 27 della L. 1150 del 1942 è riferito non già alla data di adozione del provvedimento di annullamento, ma alla data della sua comunicazione ai destinatari del provvedimento medesimo.

Né va sottaciuto che il ragionamento de L’Alco si fonda su di un erroneo presupposto: l’anzidetto termine di diciotto mesi è sì perentorio e decorre dall’accertamento della violazione, ma l’accertamento medesimo si perfeziona non già quando avviene la presa di cognizione da parte dell’Amministrazione Regionale dei necessari elementi di fatto, ma solamente allorquando è effettuato l’esame ragionato di tali elementi mediante le appropriate valutazioni tecnico-giuridiche: ossia, l’accertamento non va per certo riferito all’atto della ricezione delle eventuali segnalazioni pervenute da privati o da altre autorità.

A tale conclusione si perviene avuto riguardo a Cons. Stato, A.P., 20 maggio 1980 n. 18, laddove infatti si afferma – tra l’altro, e per quanto qui segnatamente interessa – che l’accertamento della violazione è sostanziato non solo dalla presa di cognizione degli elementi di fatto costitutivi della violazione stessa, ma dallo “svolgimento dell’esame ragionato”degli elementi medesimi e delle “pertinenti valutazioni tecniche e giuridiche”

Il dies a quo è stato quindi correntemente individuato dalla giurisprudenza nella data di deposito della relazione del funzionario che ha svolto i necessari accertamenti tecnici, e ciò in considerazione che da tale momento l’Amministrazione Regionale è in grado di esercitare il potere conferitole dalla legge (cfr. in tal senso, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 20 febbraio 1998 n. 315; Sez. V, 7 novembre 2003 n. 7101 e 29 ottobre 1992, n. 1082); ed in tal senso va pure evidenziato che nel “sistema” dell’art. 27 della L. 1150 del 1942 la contestazione formale non va confusa con un’eventuale e del tutto prodromica richiesta di chiarimenti e notizie e che – soprattutto – la contestazione medesima non è strumentale all’accertamento, posto che non lo precede ma lo presuppone, identificandosi nell’atto che – anche per tutto quanto evidenziato nel precedente § 6.4 - costituisce il vero e proprio avvio del procedimento deputato all’eventuale annullamento.

Discende quindi da tutto ciò che nel caso di specie il dies a quo per l’utile computo dei diciotto mesi contemplati dall’art. 27, terzo comma, della L. 1150 del 1942 va essenzialmente identificato nella data del 31 ottobre 1997, ossia allorquando è stata redatta e trasmessa alla Giunta Regionale da parte della Commissione tecnica regionale la“relazione tecnica conclusiva” sulla questione (cfr. doc. 4 del fascicolo Sermark di primo grado) ; e, poichè il provvedimento di annullamento è stato notificato ai suoi destinatari in data 2 marzo 1998, il termine utilizzato per la conclusione del procedimento risulta nella specie ampiamente capiente rispetto alla previsione di legge.

6.6. Con il terzo motivo d’appello L’Alco ha in sostanza dedotto una carenza di motivazione della deliberazione della Giunta Regionale recante l’annullamento; carenza che si incentrerebbe su di un duplice profilo, ossia sull’asseritamente omessa valutazione dell’esistenza dell’interesse pubblico all’esercizio del potere di autotutela (e, quindi, sulla mancata comparazione dell’interesse pubblico con l’interesse del privato già reso titolare della concessione edilizia annullata) e sull’omessa valutazione delle controdeduzioni redatte dal patrocinio de L’Alco, posto che nessuna considerazione risulterebbe contenuta a quest’ultimo riguardo nella deliberazione medesima.

Per quanto attiene al primo profilo, anche nel presente grado di giudizio L’Alco ha insistito nel sostenere che la Giunta Regionale avrebbe nella specie valutato il pubblico interesse in modo astratto, ossia con esclusivo riguardo alla violazione del diritto positivo e senza quindi comparare l’esigenza del ripristino della legalità violata con l’affidamento ingeneratosi in capo al privato mediante il rilascio del titolo edilizio e l’ingente pregiudizio economico da lui subito in dipendenza dell’annullamento del titolo medesimo.

Sempre in tal senso L’Alco ha anche rimarcato che la Giunta Regionale avrebbe con ciò disatteso l’avviso dei propri uffici tecnici, secondo i quali – per l’appunto – risulterebbe nella specie insussistente un interesse di natura edilizio-urbanistica all’annullamento del piano di lottizzazione e del titolo edilizio diverso da quello al ripristino della legalità violata.

A tale proposito va innanzitutto rimarcato che il provvedimento di annullamento emesso dalla Giunta Regionale a’ sensi dell’art. 27 della L. 1150 del 1942 pertiene essenzialmente ad una funzione di vigilanza sul corretto esercizio della competenza urbanistico-edilizia da parte delle amministrazioni comunali, e che in dipendenza di ciò esso persegue il solo scopo di ricondurre queste ultime alla rigorosa osservanza della disciplina di settore; e, in conseguenza di ciò, l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata è “in re ipsa” e non richiede una specifica motivazione in tal senso (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 16 marzo 1998 n. 443); e, del resto, anche di recente questa stessa Sezione, con sentenza n. 6873 dd. 27 dicembre 2011 ha rimarcato che l’abuso edilizio costituisce un illecito permanente in relazione al quale l’amministrazione preposta alla vigilanza del rispetto della normativa urbanistico-edilizia non può non emettere, una volta accertato, come avvenuto nella specie, il carattere abusivo dell’opus, gli atti volti a ripristinare lo stato dei luoghi e a sanzionare la condotta contra legem tenuta dall’autore dell'abuso.

Da ciò pertanto discende, in subiecta materia, la concettuale impraticabilità di qualsivoglia ipotesi di comparazione tra l’interesse del privato a conservare gli effetti dell’attività edilizia svolta contra legem e l’interesse pubblico sotteso viceversa alla garanzia dell’effettività della disciplina dell’assetto del territorio che è stata adottata a tutela della generalità della popolazione ivi insediata.

Il provvedimento di annullamento adottato a’ sensi dell’art. 27 della L. 1150 del 1942 è dunque per certo contraddistinto dall’esercizio di un potere discrezionale che - di per sé - non ammette la considerazione dell’interesse del privato opposto all’interesse pubblico, nel mentre richiede comunque, in conformità al generale principio discendente dall’art. 3 della L. 241 del 1990, la diffusa esplicitazione delle ragioni per cui l’annullamento medesimo è stato disposto: e, dalla stessa lettura della motivazione della deliberazione giuntale in esame, riassunte nel § 6.2. della presente sentenza, consta che la decisione di annullamento si fonda nella specie su di un ampio corredo motivazionale sia in fatto che in diritto del tutto esaustivo al fine di comprendere la scelta compiuta dalla Giunta Regionale.

Oltre a tutto, e fuoriuscendo quindi dalla stessa e testè descritta tesi dell’impraticabilità nella materia di cui trattasi della comparazione tra l’interesse pubblico e privato, va rimarcato che nella specie la Giunta Regionale si è comunque fatta parzialmente carico anche di tale profilo laddove ha testualmente affermato nel proprio provvedimento che “quanto al “ragionevole concreto affidamento” che si sarebbe formato “in capo al privato circa la futura realizzazione dell’opera” si rileva come … il breve lasso di tempo intercorso tra il rilascio di una concessione edilizia e il suo annullamento non può determinare stratificazioni di diritti e aspettative”.

Circa il secondo profilo, rappresentato dall’asseritamente omessa considerazione degli argomenti proposti dal patrocinio de L’Alco nel procedimento conseguente alla contestazione di cui al terzo comma dell’art. 27 della L. 1150 del 1942, va evidenziato che la funzione della partecipazione al procedimento amministrativo accordata al privato dall’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990 si identifica nella rappresentazione degli interessi coinvolti dall’azione amministrativa, e che in tale contesto non sussiste per l’amministrazione procedente l’onere di una meticolosa confutazione di tutte le controdeduzioni formulate dall’interessato, essendo a tal fine sufficiente che esse siano nel loro complesso disaminate (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 22 ottobre 2004 n. 69); e, del resto, come a ragione rilevato dal giudice di primo grado, nella specie la stessa e ben analitica motivazione svolta dalla Giunta Regionale circa le ragioni poste a base dell’affermata sussistenza delle plurime violazioni urbanistiche (culminata con il complessivo giudizio per cui “l’entità delle difformità urbanistico-edilizia … è tale da compromettere l’assetto urbanistico del territorio comunale” e che l’intervento in questione, per effetto delle carenze degli accessi al centro commerciale, non risulta adeguatamente inserito nel sistema della viabilità) costituisce comunque, ove letta a contrario, puntuale disamina e reiezione delle argomentazioni svolte nella memoria procedimentale presentata da L’Alco.

6.7. Né può condividersi la tesi de L’Alco secondo la quale la finalità perseguita dalla Giunta Regionale mediante l’annullamento da essa disposto non sarebbe in realtà deputata alla tutela dell’interesse alla legittimità dei provvedimenti urbanistico-edilizi, ma alla surrettizia protezione degli interessi strettamente commerciali che sono stati posti alla base della segnalazione pervenuta alla Giunta medesima da parte di Sermark.

Come a ragione ha affermato il giudice di primo grado, il vizio di eccesso di potere per sviamento consiste nell’effettiva e comprovata divergenza fra l’atto e la sua funzione tipica, ovvero – detto altrimenti – allorquando il potere è stato esercitato per finalità diverse da quelle enunciate dal legislatore con la norma attributiva del potere medesimo e, in particolare, allorquando l’atto posto in essere sia stato determinato da un interesse diverso da quello pubblico (cfr. sul punto, ex plurimis e tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. V, 25 maggio 2010 n. 3321).

Tuttavia, la censura di eccesso di potere per sviamento deve essere supportata da precisi e concordanti elementi di prova, idonei a dar conto delle divergenze dell’atto dalla sua tipica funzione istituzionale, non essendo a tal fine sufficienti semplici supposizioni o indizi che non si traducano nella dimostrazione dell’illegittima finalità perseguita in concreto dall’organo amministrativo (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. V, 11 marzo 2010 n. 1418 e 15 ottobre 2009 n. 6332); né il vizio in questione è ravvisabile allorquando l’atto asseritamene viziato risulta comunque adottato nel rispetto delle norme che ne disciplinano la forma e il contenuto e risulta in piena aderenza al fine pubblico al quale è istituzionalmente preordinato, anche se, attraverso la sua emanazione, l’amministrazione ha indirettamente consentito il perseguimento da parte di terzi di ulteriori finalità secondarie, lecite e non in contrasto con quella principale (così Cons. Stato, Sez. IV, 17 dicembre 2003 n. 8306).

Nel caso di specie, se è ben vero che Sermark mediante la presentazione del suo esposto ha inteso tutelare propri interessi di carattere eminentemente commerciale e non già di ordine urbanistico-edilizio, risulta altrettanto assodato che la Giunta Regionale non poteva che disporre l’annullamento del piano di lottizzazione e del titolo edilizio conseguentemente rilasciato proprio in dipendenza dell’oggettiva loro illegittimità rappresentata dall’esponente, e ciò - quindi - anche a prescindere dall’interesse individuale di quest’ultima.

6.8. Con riguardo all’ultimo ordine dei motivi di appello, L’Alco ha riproposto la propria particolareggiata disamina – già diffusamente illustrata nel giudizio di primo grado – di quelle che essa reputa ragioni di infondatezza dei profili di illegittimità del piano di lottizzazione e della conseguente concessione edilizia viceversa affermati dalla Giunta Regionale.

Come già rilevato al § 2.1 della presente sentenza, tali profili attengono alla destinazione d’uso, alle quantità complessive, all’altezza, agli accessi e ai parcheggi.

Nel dettaglio, L’Alco sostiene quanto segue.

A) sulla destinazione d’uso: mentre nella deliberazione della Giunta Regionale si afferma che “la destinazione d’uso commerciale non risultava contemplata, per la zona omogenea produttiva-industriale-artigianale (D) del P.di F.”, l’art. 33 del Piano di Fabbricazione all’epoca vigente contempla expressis verbis tra le destinazioni ammesse in zona D “attrezzature industriali, artigianali, depositi commerciali, residenze dirigenti e custodi, commercio”.

B) sulle quantità complessive: non sussisterebbe l’eccedenza di 3.000 mq. affermata nella deliberazione della Giunta Regionale, risultando ivi erroneo il riferimento alla densità fondiaria in luogo di quella territoriale.

C) sulle altezze:il superamento dei limiti posti dal regolamento edilizio non sussisterebbe, posto che la cupola piramidale e la copertura della galleria devono considerarsi volumi tecnici, non computabili.

D) sugli accessi: il mancato rispetto delle prescrizioni poste dal P.R.G. all’epoca in corso di approvazione risulterebbe in conferente, atteso che la stessa Giunta Regionale, in sede di approvazione definitiva del P.R.G. medesimo, avrebbe riportato la zona in questione allo stato contemplato dalla strumentazione urbanistica previgente.

E) sui parcheggi: risulterebbe inveritiero l’assunto della Giunta Regionale in ordine alla mancanza di parcheggi, posto che una parte di questi sarebbe stata monetizzata e che tale scelta è stata ritenuta dalla stessa Amministrazione Regionale non già illegittima ma inopportuna, e che pertanto l’annullamento di un provvedimento amministrativo non potrebbe essere disposto per ragioni di inopportunità, ma solo per motivi di illegittimità.

L’insieme di tali censure va respinta, confermando integralmente quanto già affermato dal giudice di primo grado.

A) Per quanto attiene alla compatibilità con la disciplina di piano pro tempore vigente della destinazione d’uso prevista dal piano di lottizzazione e della costruzione assentita mediante il titolo edilizio conseguentemente rilasciato, va denotato che la previsione contenuta nell’anzidetto art. 33 del Piano di Fabbricazione per certo ricomprende, fra le destinazione ammesse per tale zona, anche quella commerciale.

Nondimeno, dalla disamina dell’intero contesto dello stesso articolo di tale strumento di pianificazione ben emerge la natura del tutto accessoria e marginale di tale previsione, ove si consideri che il Piano di Fabbricazione medesimo riservava per la zona D un superficie a standard pari al 20% e non già quella dell’ 80% specificamente richiesta per le destinazioni commerciali dal D.M. 2 aprile 1968 n. 1444: il che, dunque, comprova ex se, sotto il profilo sistematico, che l’ammissibilità dell’intervento compatibile con la previsione urbanistica deve esser fatta avendo presente la ratiosottesa alla normativa di riferimento.

In tale contesto, quindi, la previsione di “commerciale” risultante in chiusura dell’elenco delle funzioni ammesse in zona D rispetto a quella principale ( “industriale”) andava e va reputata ammissibile soltanto come funzione integrativa rispetto alla destinazione d’uso principale, ossia – ad esempio – nel caso di vendita diretta al pubblico dei prodotti propri dell’attività industriale ivi insediata.

La fondatezza di tale conclusione si trae anche dalla circostanza per cui mediante una variante del Piano di Fabbricazione il Consiglio Comunale aveva infatti diversamente pianificato l’uso dell’area in questione mutandolo da industriale a commerciale, non ottenendo peraltro sul punto l’assenso della Giunta Regionale.

Né va sottaciuto che i centri commerciali richiamano un elevato numero di consumatori e che la previsione contenuta nel D.M. testè riferito - assodatamente inderogabile in sede di formazione degli strumenti urbanistici primari - persegue il fine di evitare disfunzioni e pericoli alla circolazione stradale e turbative alle proprietà che potrebbero essere causate dall’ingente numero di veicoli che in tali luoghi affluiscono, e pertanto impone la predisposizione nelle relative aree di un congruo numero di spazi destinati al parcheggio.

In tale contesto, risulta palese che in tale contesto l’inserimento di un centro commerciale non è per nulla compatibile con la previsione di superfici a standard propria della zona D; e va comunque rimarcato che la mancanza di una specifica previsione di zona per la localizzazione di centri commerciali nel territorio comunale non rappresenta un elemento a favore della soluzione positiva all’ammissibilità dell’insediamento ma va riguardato quale elemento ostativo in tal senso.

B) Per quanto segnatamente attiene alle quantità complessive, va rimarcato che la deliberazione della Giunta Regionale afferma a tale riguardo che “in termini di quantità complessive, dai calcoli effettuati sulla base dei dati della concessione edilizia n. 6 del 1994 risulta comunque concessionata una quantità di superficie lorda di pavimento non giustificabile, sia nel caso di calcoli effettuati sulla base di indici di utilizzazione posti dal piano regolatore adottato, senza tener conto dell’edificato esistente (+ 3.243 mq.) sia nel caso di calcoli effettuati tenendo conto delle superfici preesistenti (+3456, 56 mq.)”.

Nella propria relazione presentata all’Amministrazione Regionale dopo la contestazione di cui all’art. 27, comma 3, della L. 1150 del 1942 L’Alco si è particolarmente diffusa nell’illustrazione della tesi secondo la quale il riferimento alla superficie fondiaria discenderebbe da un mero errore terminologico, dovendosi per contro assumere come parametro da rispettare il diverso indice territoriale.

L’appellante ha ulteriormente insistito anche nel presente grado di giudizio su tale tesi, ma – come a ragione evidenziato lo stesso giudice di primo grado – l’insieme delle sue argomentazioni confligge con l’univoca chiarezza del dato testuale della disciplina che va applicata al caso di specie.

L’art. 33 del Piano individua infatti per la zona D la densità edilizia fondiaria in 2,5 mc/mq, nel mentre l’art. 12 delle N.T.A. del P.R.G. adottato contempla un indice di utilizzazione fondiaria in forza del quale è consentito realizzare nella zona industriale una superficie lorda di pavimento pari al 50% della superficie fondiaria.

Nel D.M. 2 aprile 1968, recante la fissazione degli standards di edificabilità delle aree, la densità edilizia si distingue in territoriale e fondiaria.

La “densità edilizia territoriale” è riferita a ciascuna zona omogenea e definisce il carico complessivo di edificazione che può gravare sull’intera zona; viceversa, la “densità edilizia fondiaria” è riferita alla singola area e definisce il volume massimo su di essa edificabile.

La differenza consiste nel fatto che la densità edilizia territoriale, riferendosi a ciascuna zona omogenea dello strumento di pianificazione, definisce il complessivo carico di edificazione che può gravare su ciascuna zona stessa, per cui il relativo indice è rapportato all’intera superficie della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli destinati alla viabilità, ecc.; viceversa, la densità edilizia territoriale, concernendo la singola area e definendo il volume massimo edificabile sulla stessa, implica che il relativo indice sia rapportato all’effettiva superficie suscettibile di edificazione (cfr. sul punto, tra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 22 marzo 1993 n. 182).

L’Alco muove quindi dalla premessa che gli estensori del Piano di Fabbricazione siano incorsi in un errore terminologico, scambiando le due tipologie di “densità edilizia” testè descritte e i relativi indici.

Il giudice di primo grado ha reputato tale assunto del tutto inverosimile, denotando al riguardo che esso si fonda sostanzialmente sulla coincidenza tra superficie territoriale e fondiaria contemplata dallo stesso strumento urbanistico per le zone C e che la relativa tesi è stata persuasivamente smentita da Sermark laddove quest’ultima ha dimostrato come non sussista alcuna analogia fra le previsioni poste per la zona D e quelle della zona C, con la conseguenza che deve dunque escludersi che là dove il redattore dello strumento urbanistico ha fatto riferimento all’indice di territoriale intendeva in realtà quello fondiario.

Del resto – denota sempre il giudice di primo grado - tutti gli standard indotti dagli insediamenti residenziali sono stati reperiti dallo stesso Piano di Fabbricazione all’esterno delle zone C, e da tale circostanza si ricava la giustificazione della conseguenza per cui la superficie territoriale della zona C non è soggetta a diminuzione per cessione di aree destinate a spazi pubblici.

L’appello de L’Alco non reca, sul punto, elementi persuasivi per una diversa soluzione ermeneutica; e, se così è, non può che concordarsi con la conclusione della Giunta Regionale secondo la quale, in sede di rilascio del titolo edilizio, è stato assentito un trasferimento di superficie lorda di pavimento complessiva dal lotto normato dal piano di lottizzazione a quello contiguo, in tal modo eccedendo le quantità complessive ammesse.

C) Per quanto riguarda il superamento delle altezze massime, va ribadito che l’avvenuto superamento dell’altezza massima contemplata dalla disciplina di zona non può essere giustificato dalla circostanza secondo la quale la cupola piramidale e la copertura della galleria costituirebbero meri volumi tecnici, in quanto tali non computabili anche per quanto attiene alla loro altezza.

I “volumi tecnici” sono infatti essenzialmente destinati ad ospitare impianti aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzazione dell’immobile (ossia, ad esempio, gli impianti idrici, gli impianti termici, gli ascensori e i macchinari in genere), nel mentre non possono rientrare in tale nozione i volumi che assolvano ad una funzione diversa, sia pur necessaria al godimento dell’edificio stesso e delle sue singole porzioni di proprietà individuale (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 4 marzo 2008 n. 918 e, più recentemente, anche Cons. Stato, Sez. IV, 8 febbraio 2011 n. 812).

Non possono pertanto ragionevolmente configurarsi volumi tecnici la cupola e la galleria coperta, in quanto inoppugnabilmente trattasi di elementi che sono posti a servizio dei singoli esercizi che costituiscono, nel loro insieme, il centro commerciale, il quale a sua volta trova la ragione della propria realizzazione proprio nella comune utilizzazione degli spazi (parcheggi, gallerie coperte, ecc.) che consentono agli utenti di accedere contestualmente e comodamente ad una pluralità di negozi di variegata tipologia.

D) Per quanto attiene agli accessi al centro commerciale, la Giunta Regionale ha rilevato che la strada di servizio, come ben emerge dalla tavola 3b della concessione edilizia, è stata localizzata su aree che il piano regolatore adottato destinava a standards, nel mentre gli accessi alla struttura risultano ricavati in ambiti destinati dal P.R.G. in corso di approvazione a fascia di rispetto della strada provinciale e a standard urbanistico.

Il giudice di primo grado ha correttamente rilevato, a sua volta che, pur dopo l’intervenuta modificazione in sede di approvazione del nuovo piano regolatore, parte delle opere riguardanti la viabilità interna, i parcheggi e le zone a verde seguitavano ad interferire con la localizzazione degli accessi dal lotto alle strada statale n. 42 e alla strada provinciale n. 89, con conseguente impedimento di predisposizione di corsie di servizio per la Strada Statale n. 42 (ora Regionale per il tratto in questione) del Tonale

E) Da ultimo, per quanto attiene agli spazi per parcheggi, va rilevato quanto segue.

Il D.M. 2 aprile 1968 n. 1444, adottato in attuazione dell’art. 41 quinquies, commi ottavo e nono della L. 1150 del 1942 come introdotto dall’art. 17 della L. 6 agosto 1967 n. 765 disciplina i cosiddetti standards urbanistici ed edilizi.

Per quanto qui segnatamente interessa, l’art. 5 di tale D.M. individua i rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti produttivi e gli spazi pubblici destinati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi, prescrivendo che:

1) nei nuovi insediamenti di carattere industriale o ad essi assimilabili compresi nelle zone D) la superficie da destinare a spazi pubblici o destinata ad attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi (escluse le sedi viarie) non può essere inferiore al 10% dell’intera superficie destinata a tali insediamenti;

2) nei nuovi insediamenti di carattere commerciale e direzionale, a 100 mq. di superficie lorda di pavimento di edifici previsti, deve corrispondere la quantità minima di 80 mq. di spazio, escluse le sedi viarie, di cui almeno la metà destinata a parcheggi (in aggiunta a quelli di cui al predetto art. 18 della L. 765 del 1967); tale quantità, per le zone A) e B) è ridotta alla metà, purché siano previste adeguate attrezzature integrative.

Gli spazi di parcheggi testè riferiti sono quindi aggiuntivi e non sostitutivi di quelli imposti dall’art. 18 della L. 765 del 1967, la cui misura è stata quindi modificata per effetto dell’art. 2 della L.

dalla L. 24 marzo 1898 n. 122 (cfr. ivi: “nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di costruzione”).

Si rinviene comprova di ciò dal differente contenuto dell’art. 41 quinquies, ottavo comma, della L. 1150 del 1942 e dell’art. 41 sexies della legge medesima.

Gli spazi di parcheggio di cui all’art. 41 quinquies costituiscono infatti aree pubbliche da conteggiarsi ai fini della dotazione di standard, nel mentre i parcheggi di cui al successivo art. 41 sexies sono qualificati come aree private pertinenziali alle nuove costruzioni, con la conseguenza che l’ art. 3, comma 2 lett. d) del D.M. 2 aprile 1968 n. 1444 espressamente li esclude dal computo nel calcolo della misura degli standards.

Ciò posto, l’allora vigente art. 22 della L.R. 15 aprile 1975 n. 51 disponeva nel senso che “la dotazione minima di standard funzionali ai nuovi insediamenti di carattere commerciale stabilita dall’art. 5 del D.M. n. 1444 in misura dell’ 80% della superficie lorda di pavimento è elevata al 100%. Di tali aree almeno la metà dovrà essere destinata a parcheggi di uso pubblico”.

La finalità complessivamente perseguita dalle disposizioni sin qui riferite risulta ben evidente, ed è stata dianzi già enunciata: poiché i centri commerciali richiamano un elevato numero di consumatori è necessario, onde evitare disfunzioni e pericoli alla circolazione stradale e turbative alle proprietà che potrebbero essere causate dall’ingente numero di veicoli, predisporre un congruo numero di spazi destinati al parcheggio.

L’Alco si è invero riferita nelle sue difese all’istituto della c.d. “monetizzazione degli standards”, il quale – come è ben noto - consiste nel versamento al comune di un importo alternativo alla cessione diretta delle stesse aree, ogni volta che tale cessione non venga disposta: in tal modo, pertanto, è consentito al lottizzante di corrispondere all’Amministrazione Comunale un corrispettivo in danaro per ogni metro quadrato non ceduto, con il conseguente obbligo del Comune medesimo di utilizzare quanto ottenuto dalla monetizzazione per la realizzazione di opere pubbliche da localizzarsi ove pianificato.

Va opportunamente rimarcato che mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata alla imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standardsessenzialmente pertiene al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione all’interno della specifica zona di intervento (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 16 febbraio 2011 n. 1013).

Nella Regione Lombardia l’istituto della monetizzazione è attualmente normato dall’art. 46, comma 2, lettera a), ultimo periodo, della L.R. 11 marzo 2005 n. 12, in forza del quale “qualora l’acquisizione di tali aree non risulti possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all’atto della stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune una somma commisurata all’utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell'acquisizione di altre aree”.

Non dissimilmente l’art. 12, lett. a), della L.R. 5 dicembre 1977 n. 60, vigente all’epoca dei fatti di causa, disponeva che, qualora l’acquisizione delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria e per le attrezzature pubbliche e di uso pubblico “non venga ritenuta opportuna dal Comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all’atto della stipula i lottizzanti corrispondano al comune una somma commisurata all’utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell’acquisizione di altre aree”.

La legislazione regionale subordinava e subordina pertanto la monetizzazione degli standards a ben precisi presupposti, e ciò nella considerazione che la monetizzazione presupponeva - e presuppone - comunque un’offerta di aree, restando in facoltà del Comune la commutazione sulla base di un apprezzamento complesso, che investe sia l’idoneità o meno delle aree offerte in funzione dell’uso pubblico cui verrebbero destinate, sia la possibilità di acquisire aree alternative (con monetizzazione, quindi, a carico del lottizzante) al fine mantenere invariato il livello di dotazione di standards fissato dal piano regolatore e che non può comunque scendere al di sotto del minimo contemplato dalla legge ovvero dalla fonte autorizzata dalla legge.

Da tutto ciò discende quindi che la monetizzazione si configura quale facoltà discrezionale eminentemente discrezionale dell’Amministrazione Comunale e non già quale diritto del privato, il quale non può pertanto ritenersi esente dall’onere di individuare le aree da computare in quota standard: e, se così è, deve ricavarsi la conseguenza che la Giunta Regionale, laddove ha affermato la sussistenza di una palese inopportunità della disposta monetizzazione, ha utilizzato il termine in senso improprio, avendo viceversa all’evidenza inteso censurare sotto il profilo della legittimità, segnatamente dell’eccesso di potere per illogicità, la mancanza dei presupposti nella per l’applicazione dell’istituto della monetizzazione, stante la mancata individuazione, da parte del Comune, di aree idonee ad integrare in altre parti del territorio comunale le superfici a standard rese necessarie dall’intervento de L’Alco.

7. L’appello in epigrafe va, pertanto, respinto.

Le spese e gli onorari del presente grado di giudizio possono peraltro essere integralmente compensati tra tutte le parti.

Va – altresì – dichiarato irripetibile il contributo unificato di cui all’art. 9 e ss. del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 e successive modifiche corrisposto per il presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Compensa integralmente tra tutte le parti le spese e gli onorari del presente grado di giudizio.

Dichiara irripetibile il contributo unificato di cui all’art. 9 e ss. del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 e successive modifiche corrisposto per il presente grado di giudizio

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 aprile 2012 con l’intervento dei magistrati:

Anna Leoni, Presidente FF

Sergio De Felice, Consigliere

Fabio Taormina, Consigliere

Diego Sabatino, Consigliere

Fulvio Rocco, Consigliere, Estensore

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 08/01/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)