Consiglio di Stato Sez. II n.985 del 7 febbraio 2020
Urbanistica.Finalità opere di urbanizzazione e spazi a parcheggio

Le opere di urbanizzazione sono preordinate alla fruizione collettiva indifferenziata e alla soddisfazione di interessi generali, tanto più allorché siano realizzate a soddisfazione dei necessari standard urbanistici: in tale prospettiva, pertanto, gli spazi a parcheggio concretanti opere di urbanizzazione vanno ritenuti per definizione pubblici, o comuni, palesandosi come del tutto abusiva ed illecita la pretesa di una loro fruizione riservata e limitata.

Pubblicato il 07/02/2020

N. 00985/2020REG.PROV.COLL.

N. 05383/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5383 del 2011, proposto da signori Giovanni Meni e Paolo Meni, rappresentati e difesi dagli avvocati Goffredo Gobbi e Yvonne Messi, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via Maria Cristina, n. 8,

contro

il signor Libero Trapletti, rappresentato e difeso dagli avvocati Giorgio Allocca, Italo Luigi Ferrari e Gianfranco Fontana, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via Giovanni Nicotera, 29,

nei confronti

del Comune di Grone, non costituitosi in giudizio,

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia (Sezione Prima) n. 395/2011, resa tra le parti, concernente accertamento dell’inefficacia della d.i.a.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del signor Libero Trapletti;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 15 ottobre 2019, il Consigliere Fulvio Rocco e uditi per le parti gli l’avvocato Goffredo Gobbi per gli appellanti, nonché l’avvocato Sonia Allocca su delega dell’avvocato Giorgio Allocca e l’avvocato Italo Luigi Ferrari per la parte intimata;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1.1. Gli attuali appellanti, signori Giovanni Meni e Paolo Meni, sono proprietari di un fabbricato a destinazione residenziale ubicato nel centro storico di Grone, piccolo Comune della Provincia di Bergamo ubicato in Val Cavallina, alla sinistra orografica del fiume Cherio.

La proprietà dei signori Meni è catastalmente identificata al foglio n. 13, mappali nn. 309 e 310.

Secondo il Piano regolatore generale del Comune vigente all’epoca dei fatti di causa tale area ricadeva in Zona B2 (zone di contenimento allo stato di fatto residenziali).

Gli attuali appellanti espongono di aver presentato in data 2 marzo 2006, in conformità a quanto allora previsto dall’art. 25 delle Norme tecniche di attuazione del predetto Piano regolatore, una denuncia d’inizio di attività assunta al protocollo comunale al n. 780/2006 e avente ad oggetto la realizzazione di un’autorimessa fuori terra nel cortile antistante l’anzidetto fabbricato (cfr. doc.ti 1 e 3 della parte controinteressata nel procedimento di primo grado).

Al protocollo comunale n. 2624/2006 i medesimi signori Meni hanno quindi presentato in data 20 luglio 2006 una prima denuncia d’inizio di attività in variante, avente ad oggetto modifiche interne al manufatto in costruzione e, successivamente, al protocollo comunale n. 4239/2006 un’ulteriore denuncia d’inizio di attività in variante dd. 1 dicembre 2006 avente ad oggetto la riduzione dell’altezza del manufatto medesimo a m. 2,20 (cfr. ibidem, doc.ti nn. 4 e 5).

Gli attuali appellanti riferiscono – altresì – che i lavori di costruzione dell’autorimessa sono stati realizzati in economia, sono stati iniziati in data 17 agosto 2006 (cfr. ibidem, doc. n. 6) e sono stati completati al rustico nel mese di agosto del 2006, essendo stati consegnati in data 14 agosto 2006 i solai di copertura (cfr. ibidem, doc. n. 7).

1.2. Con ricorso proposto sub R.G. 1639 del 2006 innanzi al T.A.R. per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia, il sig. Libero Trapletti, proprietario di un edificio con giardino adiacente alla proprietà dei Meni, catastalmente identificato al foglio n. 13, mappale n. 304, e parimenti ricadente nell’anzidetta Zona B2, ha chiesto l’annullamento della denuncia d’inizio di attività presentata dai signori Meni il 2 marzo 2006, nonché dell’anzidetta variante dai medesimi presentata il 20 luglio 2006.

Tale impugnativa è stata estesa - ove fosse occorso – anche all’anzidetto art. 25 delle Norme tecniche di attuazione del Piano regolatore generale del Comune di Grone.

Con motivi aggiunti il Trapletti ha – altresì – chiesto l’annullamento sia della seconda variante presentata l’1 dicembre 2006, sia della nota Prot. n. 2248 dd. 2 luglio 2007 con la quale l’Amministrazione comunale ha denegato l’esercizio del potere di autotutela da lui sollecitato in ordine a tutte le anzidette denunce d’inizio di attività presentate dai signori Meni.

Per quanto attiene alle impugnative proposte con l’atto introduttivo del ricorso in primo grado, il Trapletti ha formulato i seguenti ordini di censure.

a) violazione dell’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, e dell’art. 24 delle Norme tecniche di attuazione del Piano regolatore generale, essendo l’autorimessa collocata ad una distanza inferiore ai 10 metri dalle pareti antistanti di altrui proprietà, dotate di finestre;

b) in subordine, illegittimità dell’art. 25 delle medesime Norme tecniche nel caso in cui, per il tramite dello stesso e in contrasto con la disciplina contenuta nell’anzidetto art. 24, fosse consentito di realizzare costruzioni a confine di proprietà, ed in ogni caso per ingiusta prevalenza di regolamenti locali;

c) violazione sotto altri profili del citato art. 25 e dell’art. 42 della l.r. 11 marzo 2005, n. 12, stante il supero di altezza consentita.

Con i motivi aggiunti di ricorso sono state viceversa dedotte le seguenti, ulteriori censure.

a) per quanto segnatamente attiene alla predetta nota Prot. n. 2248 dd. 2 luglio 2007 recante il diniego di esercizio del potere di autotutela, violazione dell’art. 3 della l. 7 agosto 1990, n. 241, nonché eccesso di potere stante il suo contenuto palesemente apodittico;

b) sempre per quanto attiene alla medesima nota, violazione dell’art. 27 del t.u. approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, posto che il richiamo all’esercizio della discrezionalità amministrativa in essa contenuto risultava palesemente inconferente e inadatto a sancire l’inesistenza di ben evidenziate illegittimità;

c) per quanto attiene alla variante dd. 1 dicembre 2006, violazione dell’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, e dell’art. 24 delle Norme di attuazione del Piano regolatore generale comunale, illegittimità dell’art. 25 delle medesime Norme tecniche e – ancora – violazione dell’art. 46 delle Norme stesse essendo stata l’autorimessa realizzata a confine con l’altrui proprietà.

1.3. Il Trapletti ha – altresì – chiesto il risarcimento dei danni da lui asseritamente subiti per effetto degli atti impugnati.

1.4. In tale primo grado di giudizio si sono costituiti sia il Comune di Grone, sia i signori Giovanni e Paolo Meni, eccependo in via preliminare l’irricevibilità e l’inammissibilità del ricorso e, in subordine, concludendo comunque per la sua reiezione.

1.5. Con ordinanza collegiale n. 17 dd. 27 gennaio 2010 la Sezione I^ dell’adito T.A.R. ha “rilevata la necessità di conoscere lo stato di fatto antropomorfico (sic) di quella parete di quell’edificio di proprietà dei ricorrenti direttamente antistante la parete dell’autorimessa in questione, con descrizione puntuale di entrambe le relative facciate, della dimensione superficiaria delle relative aperture tutte, della potenzialità delle stesse non solo di “inspicere in alieno” e della loro collocazione in altezza a partire dal piano di campagna ed altresì, con annotazione di tutti i medesimi aspetti, delle altre facciate di edifici poste ai lati di tale prima facciata”, e ha – altresì – reputato “necessario conoscere la esatta distanza lineare tra i due primi manufatti”.

A tale riguardo il T.A.R. ha pertanto disposto una verificazione incaricando al riguardo il Dirigente pro tempore preposto al Settore edilizia privata del Comune di Bergamo, ovvero un “funzionario idoneo” da lui delegato, precisando che la verificazione stessa doveva consistere “nella riproduzione grafica di tutto quanto sopra richiesto accompagnata dalle indicazioni di proprietà e, se del caso, con breve relazione” nell’ambito della quale il verificatore medesimo doveva esprimere “il suo giudizio finale una volta sentite e verbalizzate le conclusioni tecniche delle parti”.

Con susseguente ordinanza collegiale n. 68 dd. 16 marzo 2010 la medesima Sezione I^ dell’adito T.A.R., stante la sopravvenuta indisponibilità del verificatore originariamente nominato, ha affidato il medesimo incombente al Dirigente pro tempore preposto al Settore edilizia privata del Comune di Brescia, ovvero ad un funzionario da lui delegato e individuato nella persona dell’arch. Franco Claretti.

Questi ha proceduto in data 22 luglio 2010 ad un sopralluogo effettuando il rilievo della distanza tra la parete dell’autorimessa direttamente antistante alla parete dell’edificio di proprietà del Tripletti (m. 5,37), nonché il rilievo delle dimensioni della facciata stessa (m. 7,63 di lunghezza e m. 4,95 di altezza).

Il verificatore ha inoltre accertato la presenza di una serie di aperture sulla parete, segnatamente costituite da due finestre collocate a m. 2,30 dal piano di campagna qualificabili come “vedute” a’ sensi dell’art. 905 e ss. c.c., nonché di tre ulteriori aperture qualificabili come “luci” a’ sensi dell’art. 901 del medesimo codice.

Il verificatore ha quindi concluso nel senso che “le aperture presenti … nel muro rivolto verso l’autorimessa (che non presenta aperture) sono giuridicamente qualificate finestre e sono esclusivamente di due tipi: le luci (quelle del piano seminterrato, ossia sono le aperture oscurate con un tamponamento opaco poste a mt. 0,36 dal piano di campagna) e le vedute (quelle del piano rialzato … descritte in precedenza)”.

1.6. Con sentenza n. 395 dd. 11 marzo 2011 la medesima Sezione I^ dell’adito T.A.R. ha parzialmente accolto l’impugnazione del Tripletti annullando la denuncia di inizio di attività dell’1 dicembre 2006, dichiarando le residue impugnative in parte improcedibili e in parte inammissibili.

Va sin d’ora rilevato che il giudice di primo grado ha reputato in tal senso assorbente la fondatezza della censura di violazione dell’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, laddove fissa la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, e la cui disciplina prevale per motivi di ordine igienico–sanitario sulle prescrizioni eventualmente diverse contenute nei regolamenti e nelle norme di pianificazione adottati dalle amministrazioni comunali.

La domanda di risarcimento del danno è stata respinta, “pur rilevando che i formali comportamenti della P.A. sono risultati ingiusti e, come tali, passibili di determinare un danno ingiusto”: e ciò in quanto il danno “non risulta(va) punto provato sotto nessun profilo né oggettivo, né soggettivo” (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata).

Il T.A.R. ha – altresì – condannato il Comune di Grone e i signori Paolo e Giovanni Meni al pagamento in solido e per metà ciascuno delle spese e degli onorari di tale primo grado di giudizio, complessivamente liquidandole nella misura di € 7.000,00 (settemila/00) oltre ad I.V.A. e diritti della Cassa di previdenza forense e suddividendo allo stesso modo il pagamento delle spese di verificazione.

2.1. Con l’appello in epigrafe i signori Paolo e Giovanni Meni chiedono ora la riforma di tale sentenza, deducendo al riguardo i seguenti motivi.

1) Inammissibilità del ricorso proposto in primo grado per omessa notificazione dello stesso alla Regione Lombardia.

La parte appellante afferma che la Regione era al tempo dell’entrata in vigore dello strumento urbanistico primario del Comune di Grone una delle amministrazioni che avevano concorso alla sua formazione, posto che a’ sensi dell’allora vigente art. 27 della l.r. 15 aprile 1975, n. 51, la Giunta Regionale provvedeva all’approvazione del Piano regolatore comunale e che a’ sensi dell’art. 3, comma 5, della l.r. 15 gennaio 2001, n. 1, tale assetto delle competenze al riguardo esercitate dal Consiglio Comunale e dalla stessa Giunta Regionale è rimasto in vigore sino al 28 luglio 2004, ossia alla data di entrata in vigore del Piano territoriale di coordinamento provinciale (PTCP) della Provincia di Bergamo.

Né a tale inammissibilità dell’impugnazione della disciplina contenuta nell’art. 25 delle Norme tecniche di attuazione del Piano medesimo potrebbe ovviarsi mediante la disapplicazione ermeneuticamente disposta dal giudice di primo grado della disciplina stessa in quanto confliggente con la superiore norma contenuta nell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, poiché risulterebbe nella specie comunque violato da parte del giudice medesimo il generale principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.

In tal senso gli appellanti rimarcano che il petitum del ricorso proposto in primo grado si identificava nella richiesta di annullamento dell’anzidetto art. 25 e che anche la mera disapplicazione della relativa disciplina presupponeva la completezza del contraddittorio mediante l’evocazione in giudizio di tutte le amministrazioni che avevano concorso alla sua formazione.

2) Difetto di motivazione della sentenza impugnata, nonché eccesso di potere per travisamento dei fatti e violazione dei principi di logica e ragionevolezza.

Gli appellanti contestano la disapplicazione dell’art. 25 delle Norme di attuazione del Piano regolatore generale di Grone, disposta nella specie dal giudice di primo grado, rilevando innanzitutto che sia l’autorimessa da loro realizzata, sia l’edificio di proprietà del Trapletti insistono nel centro storico di Grone, tanto che il cortile che li divide è chiuso da un lato dal Municipio, e ricadrebbero pertanto a’ sensi dell’art. 9, primo comma, del d.m. n. 1444 del 1968 nella Zona omogenea A, nella quale non vige l’obbligo della distanza di m. 10 tra pareti finestrate, restando pertanto applicabile al riguardo la disciplina contenuta nell’art. 873 c.c., salvo diverse prescrizioni contenute nella disciplina regolamentare e pianificatoria di fonte comunale.

In tal senso gli appellanti affermano che, se è vero che l’allora vigente Piano regolatore generale del Comune aveva classificato la zona in questione come B, per la corretta applicazione dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 necessiterebbe comunque individuare le Zone omogenee sulla base dei criteri individuati dall’art. 2 del decreto medesimo, e non già sulla base degli enunciati contenuti nella strumentazione urbanistica vigente nel Comune: il che, sempre secondo gli appellanti, risulterebbe del resto confermato anche dalla circostanza che la susseguente l.r. 11 marzo 2005, n. 12, non contemplerebbe più, ai fini della formazione dei nuovi strumenti di pianificazione territoriale dei Comuni (Piani di governo del Territorio, PGT) la suddivisione del territorio comunale in zone omogenee.

Inoltre, secondo gli appellanti l’art. 25 delle Norme di attuazione del Piano regolatore generale all’epoca vigenti avrebbero comunque fatto salvo il loro diritto acquisito di edificare l’autorimessa in questione “a confine e fuori terra” a’ sensi dell’art. 7, ultimo alinea, del Piano di recupero approvato dal Consiglio Comunale di Grone con deliberazione n. 17 dd. 23 settembre 1993 e reso oggetto della convenzione stipulata in data 17 marzo 1994 con la medesima Amministrazione comunale: atti, questi, in alcun modo impugnati dal Trapletti.

In tal senso gli appellanti si richiamano alla ben nota giurisprudenza, anche di questo Consiglio di Stato, in forza della quale la scadenza del Piano di recupero nonché di ogni altro strumento urbanistico attuativo, non travolge le prescrizioni dello strumento urbanistico primario che hanno costituito il presupposto per la formazione della pianificazione territoriale di rango secondario e che pertanto permangono pienamente operanti e vincolanti senza limiti di tempo.

Gli appellanti affermano inoltre che, essendo la materia del “Governo del territorio” riservata a’ sensi dell’art. 117 Cost. come sostituito dall’art. 3 della l. cost. 18 ottobre 2001, n. 2, alla competenza concorrente delle Regioni “salvo che per la determinazione dei principi fondamentali , riservata alla legislazione dello Stato”, dovrebbe concludersi che la disciplina dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 si configurerebbe non già quale principio fondamentale della legislazione urbanistica, bensì quale parametro edilizio la cui disciplina non può che essere devoluta, anche in senso di possibili deroghe, alla potestà amministrativa comunale da esercitarsi nel rispetto della legislazione regionale di settore.

Se così è, secondo gli appellanti, l’art. 25 delle Norme di attuazione del Piano regolatore generale del Comune di Grone non poteva essere disapplicato.

Né andrebbe sottaciuto che la disciplina in esso contenuta, nell’ammettere la costruzione di autorimesse anche a confine, avrebbe tenuto in considerazione anche il favor legislativo della realizzazione di opere suscettive di contenere il dilagante fenomeno delle autovetture parcheggiate sulle strade pubbliche (cfr. al riguardo l’art. 41–sexies della l. 17 agosto 1942, n. 1150, come aggiunto dall’art. 18 della l. 6 agosto 1967, n. 765, e successive modifiche).

In particolare gli appellanti si richiamano in tal senso all’art. 69, comma 1, della l.r. n. 12 del 2005 e – prima ancora – all’art. 2, comma 2, della l.r. 19 novembre 1999, n. 22, a’ sensi dei quali “i parcheggi pertinenziali e non pertinenziali” (e, quindi, contrariamente a quanto affermato dal giudice di primo grado, anche i parcheggi fuori terra e anche i parcheggi diversi da quelli di cui all’art. 66 della medesima l.r. 12 del 2005) “realizzati anche in eccedenza rispetto alla quota minima richiesta per legge, costituiscono opere di urbanizzazione”.

2.2. Non si è costituito nel presente grado di giudizio il Comune di Grone.

2.3. Si è viceversa costituito in giudizio l’intimato Libero Trapletti, concludendo per la reiezione dell’appello.

2.4. Con ordinanza n. 3257 dd. 27 luglio 2011 la Sezione IV^ di questo Consiglio di Stato ha sospeso a’ sensi dell’art. 98 c.p.a. l’esecutività della sentenza impugnata, “ritenuto che le questioni sollevate dagli appellanti appaiono meritevoli di approfondimento in sede di merito, e che nelle more va accordata prevalenza all’esigenza di evitare ogni alterazione dei luoghi, dalla quale potrebbe derivare un irreversibile pregiudizio per le parti appellanti qualora l’Amministrazione si risolvesse ad adottare provvedimenti demolitori in esecuzione della sentenza impugnata”.

2.5. In data 9 aprile 2019 il patrocinio degli appellanti ha depositato un’attestazione del Comune di Grone rilasciata in pari data dalla quale risulta che il signor Giovanni Meni ha depositato – sempre in data 9 aprile 2009 – una domanda di accertamento di conformità a’ sensi dell’art. 36 del t.u. approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.

2.6. A sua volta in data 10 aprile 2009 il patrocinio dell’intimato Libero Trapletti ha depositato documentazione cartografica inerente alla particella catastale n. 304 di sua proprietà e all’anzidetto Piano di recupero a suo tempo adottato a’ sensi dell’art. 25 delle Norme tecniche di attuazione del Piano regolatore generale del Comune.

2.7. Alla pubblica udienza del 21 maggio 2009 il patrocinio della parte appellante, previa presentazione in tal senso di apposita istanza in data 18 aprile 2019, ha chiesto un breve rinvio della trattazione della causa stante la pendenza presso il Comune di Grone del predetto procedimento di accertamento di conformità.

Il rinvio è stato accordato dal Collegio con nuova fissazione della discussione alla pubblica udienza del 15 ottobre 2019.

2.8. All’odierna pubblica udienza il patrocinio della parte appellante ha chiesto un nuovo rinvio della trattazione della causa non essendo stato ancora definito da parte del Comune di Grone l’anzidetto procedimento di sanatoria, ma il Presidente del Collegio ha respinto tale istanza “in quanto nella fattispecie, trattasi di impugnazione di un permesso di costruire da parte di terzi, il cui interesse non verrebbe meno neanche in caso di accoglimento dell’istanza di sanatoria” (cfr. il relativo verbale di udienza).

La causa è stata quindi trattenuta per la decisione.

3.1. Tutto ciò premesso, l’appello in epigrafe va respinto.

3.2. Come è ben noto, l’articolo 2-bis del t.u. approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante la rubrica “Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricatili) ed ivi inserito dall’art. 30, comma 1, lett. 0a), del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. “decreto del fare”), convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, dispone al suo comma 1 che “fermo restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano possono prevedere con proprie leggi e regolamenti disposizioni derogatorie al d.m. 1444 del 1968 nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali ad un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.

A tale disciplina è stato recentemente aggiunto un comma 2 per effetto dell’art. 5, comma 1, lett. b), del d.l. 18 aprile 2019, n. 32 convertito con modificazioni dalla l. 14 giugno 2019, n. 55, in forza della quale si precisa che “le disposizioni del comma 1 sono finalizzate a orientare i Comuni nella definizione di limiti di densità edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti urbani consolidati del proprio territorio”.

L’insieme delle disposizioni surriportate, entrate in vigore in epoca ben successiva ai fatti di causa, possono in effetti riguardarsi quale postuma recezione legislativa della tesi espressa dalla parte appellante a pag. 7 e ss. dell’atto introduttivo del presente giudizio secondo cui “occorre… considerare che per il novellato art. 117 della Costituzione il ‘governo del territorio’ è materia di legislazione concorrente riservata alla potestà legislativa della Regione, ‘salvo che per la determinazione dei principi fondamentali riservata alla legislazione dello Stato’” e che “la norma sulle distanze fra costruzioni dettata dall’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 non costituisce un principio fondamentale della legislazione urbanistica, ma se mai un parametro edilizio, la cui disciplina non può che essere lasciata alla pianificazione del territorio riservata alla potestà dei Comuni nel rispetto della legislazione regionale”.

Peraltro, ancor prima dell’entrata in vigore della surriferita disciplina di fonte statuale che indiscutibilmente depotenzia pro futuro la valenza di principio sin qui assunta dal d.m. n. 1444 del 1968, lo stesso legislatore lombardo, mediante l’art. 103, comma 1-bis, della l.r. 11 marzo 2005, n. 12, così come aggiunto dall’art. 1, comma 1, lett. xxx), della l.r. 14 marzo 2008, n. 4, aveva disposto nel senso che “ai fini dell’adeguamento, ai sensi dell’art. 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765), fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci metri, derogabile all’interno di piani attuativi”.

Nondimeno, in ordine a tale disciplina di fonte regionale Cons. Stato, Sez. I, nella propria adunanza n. 1480/2016 dd. 8 novembre 2017 ha sollevato a’ sensi dell’art. 23 della l. 11 marzo 1953, n. 87, questione incidentale di costituzionalità, a tutt’oggi pendente, per violazione dell’art. 117 Cost. come novellato dall’art. 3 della l. cost. 18 ottobre 2001, n. 2, posto che essa non affida “l’operatività dei suoi precetti a ‘strumenti urbanistici’ e, non essendo funzionale ad un ‘assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio’, riferisce la possibilità di deroga a qualsiasi ipotesi di intervento, quindi anche su singoli edifici, con la conseguenza che essa risulta assunta al di fuori dell’ambito della competenza regionale concorrente in materia di ‘governo del territorio’ in violazione del limite ‘dell’ordinamento civile’ assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato” (cfr. ivi).

Comunque, anche a prescindere da ciò, la circostanza che il surriportato comma 1-bis dell’art. 103 della l.r. n. 12 del 2005, fosse già vigente all’epoca dei fatti di causa, non implicava che la deroga ivi prevista in ordine all’applicazione del d.m. n. 1444 del 1968 potesse trovare applicazione nella presente fattispecie, posto che la deroga medesima risultava ivi comunque testualmente circoscritta all’adeguamento degli strumenti urbanistici “ai sensi dell’art. 26, commi 2 e 3”, della medesima l.r. 12 del 2005, ossia ai soli fini della formazione e dell’approvazione dei nuovi PGT (Piani di governo del territorio) comunali sostitutivi dei precedenti Piani regolatori generali, nel mentre per gli “interventi di nuova costruzione” - come per l’appunto nel caso di specie - l’inderogabilità della medesima disciplina contenuta nel d.m. n. 1444 del 1968 per quanto segnatamente attiene alle distanze tra edifici risultava e risulta puntualmente confermata, salvo che - come si vedrà appresso, ma in ogni caso con esito non favorevole per la tesi degli appellanti - “all’interno di piani attuativi”.

3.3. Premesso ciò, risulta quindi con ogni evidenza che, ratione temporis e comunque non vertendosi nel contesto della formazione di un nuovo strumento urbanistico, bensì dell’applicazione di una norma del Piano regolatore comunale a quel momento vigente, la natura inderogabile della disciplina contenuta nell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 risultava del tutto assodata.

Va precisato che, per quanto qui segnatamente interessa, l’art. 2 del medesimo decreto ministeriale menziona, agli effetti di quanto disposto dall’art. 17 della l. 6 agosto 1967, n. 765, quali zone territoriali omogenee, le Zone A (parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestano carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti, che possono considerarsi parte integrante, per tali caratteristiche, degli agglomerati stessi), le Zone B (le parti del territorio totalmente o parzialmente edificate, diverse dalle zone A e che si considerano parzialmente edificate se la superficie coperta degli edifici ivi esistenti non sia inferiore al 12,5%, ossia un ottavo, della superficie fondiaria della zona e nelle quali la densità territoriale sia superiore ad 1,5 mc/mq) e le Zone C (parti del territorio destinate a nuovi complessi insediativi, che risultino inedificate o nelle quali l'edificazione preesistente non raggiunga i limiti di superficie e densità delle zone B); e che, correlativamente a tale classificazione urbanistico - edilizia delle aree del territorio comunale, l’art. 9, primo comma, dello stesso decreto dispone che nelle Zone A “per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale”; per i “nuovi edifici ricadenti in altre zone … è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti” (cfr., segnatamente, il primo comma, n. 2, dell’art. 9 cit.) e che per le Zone C “è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all’altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12”.

Va precisato - altresì - che l’ultimo comma del medesimo art. 9 dispone - sempre per quanto qui segnatamente interessa - che “sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.

Orbene, un’unanime e del tutto consolidata giurisprudenza, a tutt’oggi applicata nei contesti non ancora normati per effetto delle disposizioni applicative della nuova disciplina di principio emergente dal surriportato art. 2-bis del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001, afferma che le surrichiamate previsioni di cui all’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 riguardanti la distanza minima da osservarsi tra edifici, essendo funzionali a garantire non tanto la riservatezza, quanto piuttosto l’igiene e la salubrità dei luoghi e la formazione di intercapedini dannose (cfr, ex plurimis, Cass. civ., Sez. II, 3 marzo 2008, n. 5741, e Cons. Stato, Sez. V, 26 ottobre 2006, n. 6399), debbono considerarsi inderogabili da parte dei Comuni, i quali sono obbligati ad attenersi ad esse in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici; inoltre, traendo le medesime norme del d.m. n. 1444 del 1968 la propria efficacia dall’art. 41-quinquies, comma 8, della l. 17 agosto 1942, n. 1150 - aggiunto dall’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765 e in tale parte non abrogato dal t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001 - le relative previsioni devono considerarsi dotate di un’efficacia immediatamente precettiva e tale da potersi pertanto automaticamente sostituire alle eventuali norme di piano regolatore ad esse non conformi (cfr., tra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 23 giugno 2017, n. 3093; 8 maggio 2017, n. 2086; 29 febbraio 2016, n. 856; 12 giugno 2007, n. 3094, e, più recentemente ancora, Sez. VI, 2 ottobre 2018, n. 5656).

Va anche soggiunto che secondo Cass. civ., Sez. II, 16 ottobre 2018, n. 25833 e la consonante giurisprudenza ivi richiamata, “in tema di distanza tra costruzioni il d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, comma 2, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica”, con la conseguenza che “l’adozione, da parte degli Enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la citata norma fa sorgere l’obbligo per il giudice di merito non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma proprio di applicare immediatamente la disposizione del menzionato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico, in sostituzione della norma illegittima che è stata disapplicata”.

In tal modo, quindi, va evidenziato che anche il giudice di legittimità posto al vertice della giurisdizione ordinaria impone in consimili fattispecie al giudice di merito di ricorrere all’istituto della disapplicazione di cui agli artt. 4 e 5 della l. 20 marzo 165, n. 2248, all. E, con riguardo alla sussistenza di un vizio di violazione di legge così come attualmente codificato dall’art. 21-octies, comma 1, della l. 7 agosto 1990, n. 241.

Ma, con riguardo all’esercizio della giurisdizione amministrativa di legittimità (cfr. art. 7 c.p.a.), il risultato di sostanza non cambia se si pone mente alla circostanza che il d.m. n. 1444 del 1968 si configura quale provvedimento amministrativo ad efficacia generale che è presupposto da una disciplina di legge dello Stato al precipuo scopo di integrare il contenuto di quest’ultima e che - pertanto - esso, a’ sensi degli artt. 3 e 4 disp. prel. c.c., naturalmente prevale, proprio con riguardo alla necessaria gerarchia tra le fonti normative, nei confronti delle subordinate disposizioni che rinvengono dal “potere regolamentare di altre autorità”, diverse da quella governativa, il quale infatti “è esercitato nei limiti delle rispettive competenze, in conformità delle leggi particolari” (cfr. art. 3 cit.).

Agli effetti di quest’attività interpretativa non è quindi necessaria, come viceversa sostiene la parte appellante, l’evocazione nel contraddittorio processuale anche della Regione quale autorità partecipante alla formazione della norma che in sede di procedimento giurisdizionale è risultata recessiva rispetto alla fonte normativa sovraordinata.

Se è vero, infatti, che il ben noto e quanto mai risalente brocardo iura novit curia esprime il principio per cui il giudice è libero di applicare le norme di diritto che ritiene conferenti al caso concreto, ciò a maggior ragione vale per ogni operazione ermeneutica da lui compiuta in ordine alle disposizioni normative rilevanti ai fini del decidere e che permanga nel perimetro degli interessi delle parti titolate a partecipare al contraddittorio processuale.

In effetti la parte ricorrente in primo grado ha tuzioristicamente proposto anche (ma non solo) una domanda di annullamento dell’allora vigente art. 25 delle Norme tecniche ai attuazione del Piano regolatore generale del Comune di Grone: domanda che, di per sé, avrebbe potuto essere accolta dal giudice adito soltanto se la parte medesima avesse notificato l’atto introduttivo del relativo giudizio, a’ sensi dell’allora vigente art. 21, primo comma, della l. 6 dicembre 1971, n. 1034, anche alla Regione Lombardia quale soggetto che aveva materialmente approvato ed emanato, con deliberazione della propria Giunta Regionale, lo strumento urbanistico del quale il Comune si era dotato.

Tuttavia, la medesima parte ivi ricorrente ha potuto veder riconosciuto il proprio interesse all’inibizione dell’attività edilizia posta in essere da parte degli attuali appellanti anche senza l’annullamento della presupposta norma tecnica di attuazione dello strumento urbanistico che, nella prospettazione dell’Amministrazione comunale, viceversa la legittimava: ma, se così è stato, risultava pertanto del tutto ultronea agli effetti di questo satisfattivo risultato ottenuto dalla parte medesima l’evocazione in giudizio anche dell’Amministrazione regionale proprio in quanto la norma pur da essa emanata non è stata espunta dal testo delle norme di attuazione dello strumento urbanistico, bensì soltanto interpretata dal giudice adito con riguardo alle altre norme con esse concorrenti nella disciplina della fattispecie e rigorosamente permanendo nel circoscritto perimetro della sua applicazione alla presente causa.

3.4. Del tutto infondata è, inoltre, la prospettazione degli appellanti in forza della quale si pretenderebbe di fatto di sconvolgere radicalmente la zonizzazione disposta dallo strumento urbanistico comunale al fine di sostituirla, in via del tutto apodittica, con un’arbitraria e del tutto personale zonizzazione che gli appellanti medesimi intenderebbero ricavare dalla diretta applicazione delle sole descrizioni delle zone territoriali omogenee contenute nell’art. 2 del d.m. n. 1444 del 1968.

La parte appellante in tal senso afferma, di fatto, di essere lei stessa titolata ad individuare le zone omogenee sulla base dei criteri contenuti nel predetto art. 2; ma tale incombente, all’evidenza, compete soltanto all’Amministrazione comunale, la quale – per l’appunto – sulla base delle descrizioni contenute nel medesimo art. 2 elabora la propria pianificazione del territorio anche mediante ulteriori distinzioni funzionali discrezionalmente ricavate all’interno delle categorie generali indicate dal provvedimento ministeriale.

Come a ragione ha rimarcato la parte intimata, tale varietà di distinzioni operate all’interno delle anzidette categorie generali indicate dall’art. 2 del d.m. n. 1444 del 1968 costituisce il perno attorno al quale ruota la ricchezza di situazioni concrete e – allo stesso tempo – garantisce al sistema di pianificazione comunale il necessariamente elevato grado di duttilità che lo rende conforme alle esigenze del territorio su cui esso esplica la propria efficacia.

Nella fattispecie l’allora vigente strumento urbanistico aveva ricondotto sia la proprietà dei Meni, sia quella del Trapletti, alla zona omogenea B2: destinazione, questa, che i Meni mai hanno contestato giudizialmente e che, pertanto, non può essere ora da loro reputata come “incongrua” rispetto ad una del tutto soggettiva applicazione dell’art. 2 del d.m. n. 1444 del 1968.

3.5. Parimenti infondato risulta il rilievo degli appellanti secondo il quale troverebbe nella specie applicazione l’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 secondo il quale, come evidenziato dianzi, “sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi” - e, quindi, come nel caso in esame, inferiori ai 10 metri - “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”: deroga, questa, che si rinviene del resto, ancorché in termini ben meno descrittivi, pure nell’anzidetto comma 1-bis dell’art. 103 della l.r. n. 12 del 2005, laddove - come visto dianzi – si fa testuale riferimento con eguale effetto agli “interventi di nuova costruzione” realizzati “all’interno di piani attuativi”.

Come infatti ha puntualmente comprovato agli atti di causa il Trapletti, i fabbricati che nella specie si fronteggiano non sono inclusi nel medesimo comparto, non essendo la particella catastale n. 304 di proprietà della parte qui intimata ricompresa nella convenzione attuativa del Piano particolareggiato: quest’ultimo riguarda – infatti – la sola proprietà degli attuali appellanti, nel mentre la convenzione predetta individua all’art. 2 la proprietà del Trapletti quale terreno confinante sul lato est dell’intervento.

3.6. Da ultimo, risulta infondato anche l’assunto degli appellanti circa l’asserita natura di opera di urbanizzazione assunta dall’autorimessa in questione.

Secondo Cons. Stato, Sez. V, 13 settembre 2018, n. 5372, le opere di urbanizzazione sono infatti preordinate alla fruizione collettiva indifferenziata e alla soddisfazione di interessi generali, tanto più allorché siano realizzate a soddisfazione dei necessari standard urbanistici: in tale prospettiva, pertanto, gli spazi a parcheggio concretanti opere di urbanizzazione vanno ritenuti per definizione pubblici, o comuni, palesandosi come del tutto abusiva ed illecita la pretesa di una loro fruizione riservata e limitata.

Semmai, alle autorimesse in questione potrebbe riconoscersi la natura di pertinenza urbanistica di cui all’art. 9 della l. 24 marzo 1989, n. 122, che infatti ne ammette espressamente anche l’“uso esclusivo dei residenti” (cfr. ivi), ma la cui realizzazione, se invero può anche essere assentita anche “in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti” (cfr. ibidem), non può comunque contravvenire ad una norma di carattere generale sulle distanze tra le costruzioni che, per tutto quanto detto innanzi, è gerarchicamente sovraordinata a tali fonti normative locali e che pertanto si sostituisce automaticamente ad esse.

4. Il Collegio, pur respingendo il ricorso, reputa di compensare integralmente tra le parti le spese e gli onorari del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Compensa integralmente tra le parti le spese e gli onorari del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 ottobre 2019 con l’intervento dei magistrati:

Raffaele Greco, Presidente

Fulvio Rocco, Consigliere, Estensore

Giovanni Sabbato, Consigliere

Giovanni Orsini, Consigliere

Cecilia Altavista, Consigliere