Cons. Stato Sez. VI sent.1945 del 16 aprile 2003 Nuova pagina 1

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sui ricorsi in appello proposti:

1) dal Comune di Montebelluna, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dagli avv. Ivone e Chiara Cacciavillani e Luigi Manzi ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. Manzi in Roma, via Confalonieri, n. 5;

Contro

La Sabbia del Brenta s.r.l., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avv. Franco Zambelli e Mario Ettore Verino e presso lo studio del secondo elettivamente domiciliata in Roma, via Lima, n. 15;

-resistente e appellante incidentale-

E nei confronti

Della Regione Veneto, in persona del Presidente p.t. della Giunta, non costituita;

Nonché

2) dalla Regione Veneto, in persona del Presidente p.t. della Giunta, rappresentata e difesa dagli avv. Romano Morra, Franca Caprioglio, Paola Furlanis e Cecilia Ligabue ed elettivamente domiciliata in Roma, via Confalonieri, n. 5 (studio Manzi);

Contro

La Sabbia del Brenta s.r.l., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avv. Franco Zambelli e Mario Ettore Verino e presso lo studio del secondo elettivamente domiciliata in Roma, via Lima, n. 15;

E nei confronti

dal Comune di Montebelluna, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dagli avv. Ivone e Chiara Cacciavillani e Luigi Manzi e presso lo studio di quest’ultimo elettivamente domiciliato in Roma, via Confalonieri, n. 5;

per l’annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, sez. II,  n. 3980 del 20.11.2001;

Visti gli atti tutti della causa;

Alla pubblica udienza del 20 dicembre 2002 relatore il Consigliere dott. Roberto Garofoli;

Uditi l’avv. Andrea Manzi per delega dell’avv. Luigi Manzi, e per delega dell’avv. Morra, l’avv. Cacciavillani Ivone, Cacciavillani Chiara, l’avv. Zimbelli e l’avv. Verino;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.

FATTO

Con il ricorso proposto in primo grado la società La Sabbia del Brenta ha impugnato la deliberazione della Giunta regionale 4 agosto 2000 n. 2558 che ha negato alla ricorrente l’autorizzazione all’apertura ed alla coltivazione della cava di ghiaia denominata "Campilonghi" in Comune di Montebelluna.

Il diniego è stato pronunciato all’esito del procedimento durante il quale sono stati acquisiti i pareri, tutti negativi, del Consiglio comunale di Montebelluna, della Commissione tecnica provinciale per le attività di cava (C.T.P.A.C.) e della Commissione tecnica regionale per le attività estrattive (C.T.R.A.E.).

Il diniego, però, è basato esclusivamente sulla motivazione espressa dalla C.T.R.A.E. nel proprio parere sorretto dai seguenti quattro argomenti: 1) la domanda fu presentata da un’altra ditta nel 1987 e rigettata nel 1991; 2) l’area di cava è esterna alle zone estrattive individuate dal Comune di Montebelluna con la deliberazione del Consiglio comunale 24.7.1987 n. 259; 3) l’area di cava è “all’interno di una particolare zona del comune, delimitata da strade comunali, dove sono in atto colture a frutteto e cerealicole. La zona è integra, ben coltivata, dotata di una adeguata rete irrigua e di strade interpoderali”; 4) altre ditte hanno presentato domanda di autorizzazione all’attività estrattiva nella stessa zona con progetti non coordinati circa la profondità di scavo, le modalità di ricomposizione e la viabilità di servizio, mentre “l’attività di cava è bene sia il più possibile concentrata e svolta con progetti unitari o coordinati ..”. La concentrazione ... comporta anche la salvaguardia dell’attività agricola che, nel caso in esame, appare preminente rispetto alle esigenze produttive e alla necessità di fornire materiale al mercato degli inerti”.  

A sostegno del ricorso di primo grado sono stati  dedotti i seguenti motivi:

1) eccesso di potere sotto vari profili, nel rilievo che è inconferente il richiamo ad un precedente diniego di autorizzazione ad altra ditta, per un diverso progetto;

2) violazione dell’art. 8 L.R. 44/82 ed eccesso di potere sotto vari profili, in quanto il piano provinciale dell’attività di cava, non la sola deliberazione comunale, avrebbe potuto vietare l’attività estrattiva sull’area agricola in questione;

3) violazione dell’art. 13 L.R. 44/82 ed eccesso di potere sotto vari profili, nel rilievo che il territorio agricolo è naturalmente destinato all’attività di cava, entro il limite del 3 per cento (per l’estrazione di sabbia e ghiaia);

4) violazione degli artt. 26 e 44, lett. e) e f) L.R. 44/82 ed eccesso di potere sotto vari profili, in quanto la presentazione di progetti unitari per bacini estrattivi non è prevista dalla legge regionale;

5) sviamento di potere perché la Giunta regionale avrebbe dovuto dissociarsi dall’illegittimo parere della C.T.R.A.E.;

6) eccesso di potere per violazione della procedura e violazione dell’art. 7 l. 241/90, per omissione del contraddittorio.

7) eccesso di potere sotto vari profili, nel rilievo che i pareri del Comune di Montebelluna e della C.T.P.A.C. sono pure viziati.

La ricorrente ha inoltre chiesto, ex art. 7 l. 205/00, il risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo diniego dell’autorizzazione richiesta, quantificato in lire 50 miliardi (o somma diversa da quantificarsi previa c.t.u.) .

Avverso la sentenza con cui il primo Giudice ha in parte accolto il ricorso insorgono le Amministrazioni appellanti sostenendone l’erroneità e  chiedendone quindi l’annullamento.

Avverso la stessa sentenza propone invece, appello incidentale la società La Sabbia del Brenta  limitatamente alla parte in cui, da un lato, si riconosce in capo all’Amministrazione regionale, in assenza della pianificazione di settore prevista dagli artt. 4 e seguenti, L.R.V. 44/82, un margine di discrezionalità in sede di definizione delle istanze di apertura di nuove cave, dall’altro si rigetta l’istanza risarcitoria proposta dalla stessa società.

All’udienza del 20.12. 2002 la causa è stata ritenuta per la decisione.

DIRITTO

1. Gli appelli proposti dal Comune di Montebelluna e dalla Regione Veneto, preliminarmente riuniti, sono infondati e vanno pertanto respinti, sicché può essere pretermessa la valutazione delle dedotte eccezioni di inammissibilità

1.1. Giova preliminarmente ricostruire il quadro normativo di riferimento, la vicenda amministrativa portata al vaglio del giudice, nonché, infine, il percorso logico seguito dal Tribunale periferico nell’accogliere il ricorso con cui in primo grado la Sabbia del Brenta s.r.l. ha impugnato la deliberazione regionale di reiezione dell’istanza di autorizzazione all’apertura ed alla coltivazione della cava di ghiaia denominata "Campilonghi" in Comune di Montebelluna.

Quanto alla disciplina di riferimento, va considerata la legge della Regione Veneto 7 settembre 1982, n. 44, che espressamente enuncia, tra i principi ispiratori dell’intero sistema normativo e amministrativo delineato, quello  della “rigorosa salvaguardia dell’ambiente nelle sue componenti fisiche, pedologiche, paesaggistiche, monumentali” (art. 1, co. 1): il soddisfacimento delle descritte esigenze di salvaguardia ambientale, del resto, lungi dal rappresentare enunciazione di mero principio, è destinato ad orientare le scelte amministrative, in specie quelle di pianificazione, ferma la necessaria armonizzazione che in questa sede va assicurata rispetto ad altre e talvolta conflittuali ragioni, tra cui quelle della produzione (artt. 5, 8 e 9).

Ciò posto, appare utile in primo luogo considerare che l'art. 8, L.R.V. 7 settembre 1982, n. 44, demanda ai Comuni interessati dalla presenza dei materiali di gruppo A (com’è la ghiaia: vd. la classificazione dell’art. 3 della stessa L.R. 44/82), ai fini della formazione del piano provinciale dell'attività di cava (Ppac), l'individuazione delle aree con particolare vocazione agricola che devono essere assoggettate al vincolo di interdizione da qualsiasi attività estrattiva.

In seno all’iter procedimentale delineato dalla legislazione regionale, quindi, la determinazione cui è rimesso il compito di individuare le aree sottratte ad ogni forma di utilizzabilità estrattiva è solo quella conclusiva, costituita dall’approvazione del piano provinciale dell’attività di cava.

Proseguendo nella sintetica illustrazione dei parametri normativi di riferimento, va menzionato l'art. 13 della stessa L. R. V.  7 settembre 1982, n. 44, che, nell’individuare le aree suscettibili di utilizzazione a fini estrattivi, ha riguardo alle zone con destinazione agricola, prevedendo che la superficie del territorio comunale interessato dall'attività di estrazione di ghiaia e sabbia non superi la quota del 3% sulla superficie totale della zona agricola.

Limitazione quantitativa, questa, all’evidenza finalizzata ad evitare che le cave compromettano l'equilibrio naturale della zona stessa e ne sottraggano una porzione eccessiva all'attività agricola (Cons. Stato, sez. VI, 9 settembre 1997, n. 1308).

La disposizione da ultimo citata assume rilievo, quindi, in sede di valutazione delle istanze di autorizzazione all’apertura di nuove cave, anche e soprattutto quando, come nel caso di specie, non sia ancora intervenuta la pianificazione di settore prevista dagli artt. 4 e ss. della L.R. 44/82 (piano regionale delle attività di cava e piano provinciale delle attività di cava).

Ed invero, in assenza di tale pianificazione, le determinazioni sulle domande di autorizzazione sono assunte dalla Giunta regionale in base al citato art. 13 ed ai criteri transitori stabiliti dall’art. 44 della stessa L.R. 44/82 che espressamente prevede, alla lett. d), il rispetto dell’art. 13; in uno ad altri parametri, quindi, l’amministrazione regionale deve tenere conto delle indicazioni tipologiche e quantitative fornite dalla citata disposizione della normativa regionale.

1.2. Ciò posto, a sostegno della determinazione impugnata in primo grado e del sottostante parere della C.T.R.A.E. sono stati addotti quatto ordini di ragioni: 1) la domanda fu presentata da un’altra ditta nel 1987 e rigettata nel 1991; 2) l’area di cava è esterna alle zone estrattive individuate

dal Comune di Montebelluna con la deliberazione del Consiglio comunale 24.7.1987 n. 259; 3) l’area di cava è “all’interno di una particolare zona del comune, delimitata da strade comunali, dove sono in atto colture a frutteto e cerealicole. La zona è integra, ben coltivata, dotata di una adeguata rete irrigua e di strade interpoderali”; 4) altre ditte hanno presentato domanda di autorizzazione all’attività estrattiva nella stessa zona con progetti non coordinati circa la profondità di scavo, le modalità di ricomposizione e la viabilità di servizio, mentre “l’attività di cava è bene sia il più possibile concentrata e svolta con progetti unitari o coordinati ..”. La concentrazione ... comporta anche la salvaguardia dell’attività agricola che, nel caso in esame, appare preminente rispetto alle esigenze produttive e alla necessità di fornire materiale al mercato degli inerti”.  

Ragioni tutte non condivise dal Giudice di prima istanza al cui approccio argomentativo il Collegio ritiene di aderire.

2. Ed invero, nella sua assolutezza appare non il linea con il descritto quadro normativo il riferimento che il provvedimento impugnato in primo grado contiene alla deliberazione del Consiglio comunale 24.7.1987 n. 259, di individuazione delle aree interdette all’attività estrattiva.

Come correttamente osservato dal primo Giudice, infatti, la deliberazione comunale si inserisce quale mero atto di iniziativa nell’ambito di un iter procedimentale destinato tuttavia a concludersi solo con l’approvazione del piano provinciale delle attività di cava: unico atto, questo, cui è consentito riconoscere l’attitudine alla individuazione  delle aree con particolare vocazione agricola da assoggettare al vincolo di interdizione da qualsiasi attività estrattiva.

Come già osservato da questa Sezione, infatti, la indicata deliberazione comunale, in quanto a carattere solo propositivo ed endoprocedimentale, priva di attitudine modificativa della destinazione urbanistica del terreno, non può costituire, ex se, elemento ostativo al rilascio dell’autorizzazione richiesta finchè non tradottasi in un’efficace previsione del Ppac (19 febbraio 1993 n. 180).

In assenza della necessaria conclusione procedimentale, quindi, quella deliberazione comunale non poteva essere addotta a sostegno della reiezione dell’istanza di autorizzazione, salva la possibilità dell’Amministrazione regionale di far proprie talune delle ragioni evidenziate dall’ente locale, ma in seno alla più ampia e complessa valutazione discrezionale e comparativa di cui si dirà in sede di esame dell’appello incidentale proposto dalla società La Sabbia del Brenta.

Va quindi respinto il primo motivo di gravame.

3. Parimenti infondato risulta il secondo motivo di appello con cui si lamenta che il Giudice di primo grado, pur avendo riconosciuto all’amministrazione regionale, in assenza della indicata pianificazione, margini di discrezionalità in sede di valutazione delle istanze di autorizzazione e di bilanciamento, quindi, degli interessi pubblici e privati coinvolti, ha tuttavia ritenuto illogica e carente di motivazione la determinazione impugnata e il sottostante parere del C.T.R.A.E. nella parte in cui si limitano ad osservare che quella interessata è “una particolare zona del comune, delimitata da strade comunali, dove sono in atto colture a frutteto e cerealicole. La zona è integra, ben coltivata, dotata di una adeguata rete irrigua e di strade interpoderali”.

Il Collegio condivide, al riguardo, la valutazione espressa dal primo Giudice in merito alla insufficienza della riportata motivazione ad evidenziare quella specialità della zona e quel suo particolare pregio ambientale -diverso dall’ordinario territorio agricolo pur rispondente a normali esigenze produttive- che soli possono giustificare un rigetto di istanze di autorizzazione all’apertura di cave presentate nel sostanziale rispetto dei parametri di cui all’art. 13, L.R.V. n. n. 44/82, oltre che dei criteri transitori di cui al citato art. 44.

Non va obliterato, infatti, che, pur riconoscendo una discrezionalità valutativa in capo all’amministrazione regionale, la mera destinazione agricola della zona non costituisce impedimento all'esplicazione dell'attività estrattiva. Anzi, le zone agricole sono quelle naturalmente destinate dal citato art. 13 ad ospitare l’attività estrattiva di ghiaia e sabbia, pur se contingentata nel limite percentuale del 3 per cento (Cons.  Stato, sez. VI, 9 novembre 1994 n. 1596).

Una diversa valutazione, intesa a valorizzare la specificità dell’area e non la sua mera vocazione agricola o la sua sola attuale utilizzazione a fini produttivi, richiede, pertanto, una ben più ponderata comparazione di cui occorre dare atto con un apparato motivazionale di ben altra consistenza.

Con maggiore impegno esplicativo, può dirsi che ove la Regione intenda tener conto, oltre che del limite del 3 per cento prefissato dalla legge regionale a tutela della superficie agraria (art. 13 e lett. d) dell’art. 44) anche di altri preminenti interessi pubblici, pure considerati tra le finalità della legge regionale, ma valorizzabili solo discrezionalmente in assenza della pianificazione di settore, deve esplicitarli con una motivazione appropriata e particolarmente esauriente, non ravvisabile certo nel provvedimento contestato in primo grado.

4. Infine,  il Collegio condivide il giudizio di illegittimità dal primo Giudice espresso con riguardo al passaggio della parte motiva del provvedimento negativo impugnato in prima istanza nel quale si osserva che altre ditte hanno presentato domanda di autorizzazione all’attività estrattiva nella stessa zona con progetti non coordinati circa la profondità di scavo, le modalità di ricomposizione e la viabilità di servizio, mentre “l’attività di cava è bene sia il più possibile concentrata e svolta con progetti unitari o coordinati ..”. La concentrazione ... comporta anche la salvaguardia dell’attività agricola che, nel caso in esame, appare preminente rispetto alle esigenze produttive e alla necessità di fornire materiale al mercato degli inerti”.

L’Amministrazione regionale, quindi, rigetta l’istanza di autorizzazione sul rilievo del mancato coordinamento del progetto della società ricorrente in primo grado con quello presentato da altre ditte su ambiti territoriali vicini.

Giova, al riguardo, ribadire che alla salvaguardia dell’attività agricola provvede già l’art. 13 della L.R. n. 44 del 1982 che, nel destinare proprio le zone agricole ad ospitare le attività estrattive, introduce tuttavia in via generale il limite del 3 per cento (per l’estrazione di sabbia e ghiaia).

Ciò posto, il Collegio non può che osservare come la mera opportunità di un coordinamento dei progetti di apertura di cave incidenti in zone non può essere addotta a giustificazione di una determinazione di segno negativo in assenza di esplicita previsione normativa o pianificatoria  che imponga la presentazione di progetti estrattivi unitari: l’unica prescrizione contenuta nella legge regionale è infatti quella riguardante la formazione di consorzi, anche obbligatori, a condizione tuttavia che la coltivazione delle cave sia stata già  avviata (art. 26).

Al più, come rilevato nella sentenza gravata, l’Amministrazione avrebbe potuto adottare una pronuncia interlocutoria ovvero imporre, in sede di rilascio dell’autorizzazione, particolari condizioni idonee a rendere uniformi la profondità di scavo, le modalità di ricomposizione e la viabilità di servizio.

Alla stregua delle esposte argomentazioni vanno dunque respinti gli appelli principali.

5. Va parimenti respinto l’appello incidentale proposto dalla società La Sabbia del Brenta  limitatamente alla parte della sentenza in cui, da un lato, si riconosce in capo all’Amministrazione regionale, in assenza della pianificazione di settore prevista dagli artt. 4 e seguenti, L.R.V. 44/82, un margine di discrezionalità in sede di definizione delle istanze di apertura di nuove cave, dall’altro si rigetta l’istanza risarcitoria proposta dalla stessa società

5.1. Va in primo luogo ribadito quanto sostenuto dal primo Giudice in merito alla permanenza, in assenza della pianificazione di settore prevista dagli artt. 4 e seguenti, L.R.V. 44/82, di un margine di valutazione discrezionale in capo alla Regione deputata alla disamina delle istanze di apertura di nuove cave.

Discrezionalità di tipo amministrativo in senso classico, destinata a tradursi, in particolare, nella comparazione  e nella successiva composizione degli interessi pubblici (non solo quello allo sfruttamento dei giacimenti per le esigenze dell’economia, ma anche quello alla tutela dell’ambiente) e privati in gioco, che la pianificazione di settore avrebbe dovuto garantire, preventivamente ed in via generale.

Si tratta, in particolare di discrezionalità non assorbita dalla semplice osservanza dei  criteri transitori e non esaustivi, fissati dall’art. 44 della L.R. 44/82, non idonei ad esaurire le molteplici finalità espresse nella legge regionale, tra cui la “rigorosa salvaguardia dell’ambiente nelle sue componenti fisiche, pedologiche, paesaggistiche, monumentali” (art. 1, co. 1) e la pluralità degli interessi, anche ambientali, che dovrebbero costituire oggetto del Prac e del Ppac (artt. 5, 8 e 9): diversamente opinando, infatti, tali finalità ed interessi, non ancora presi in considerazione in via generale per effetto della rilevata assenza di pianificazione di settore, resterebbero privi di protezione.

Come rilevato dal primo Giudice, quindi, l’amministrazione regionale non è vincolata ad accogliere la domanda sul solo rilievo della destinazione agricola dell’area interessata e del rispetto del citato limite generale del 3 per cento di territorio agricolo, potendo al contrario tener conto, in modo ponderato e comparato, degli altri interessi pubblici indicati, dando naturalmente conto in modo adeguato degli esiti di tale valutazione in sede motivazionale.

5.2. E’ proprio il riconoscimento di tali margini di discrezionalità che l’amministrazione conserva nel valutare l’istanza di autorizzazione proposta dall’odierna appellante incidentale ad indurre il Collegio a non ritenere allo stato ammissibile la domanda di risarcimento per equivalente respinta in prima grado.

Giova premettere che la individuazione del danno ristorabile è destinata ad essere consistentemente condizionata dall’approccio che si ritiene di dover seguire con riguardo al complesso tema della natura giuridica della responsabilità dell’amministrazione.

Diverso, infatti, può essere il danno risarcibile e il concreto procedimento da seguire per il suo accertamento a seconda che si qualifichi la responsabilità dell’amministrazione come aquiliana, contrattuale da contatto o, ancora, precontrattuale.

La prima soluzione è quella accolta nella sentenza n. 500/99 con la quale le Sezioni Unite di Cassazione, rilevato che ‘‘la lesione dell’interesse legittimo e` condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c.”, attesa la necessità che risulti  leso, per effetto dell’attivita` illegittima e colpevole della P.A., l’interesse “al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo’’, hanno ritenuto di dover distinguere tra interessi oppositivi, incondizionatamente risarcibili,  ed interessi pretensivi, in relazione ai quali, invece, hanno preteso il giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita invano chiesto all’amministrazione.

          Si tratta di opzione ricostruttiva di recente rimeditata dalla stessa Corte di Cassazione con sentenza 10 gennaio 2003, n. 157, pronunciata nella causa Vitali c. Comune di Fiesole, nel corso della quale era già intervenuta, in sede di regolamento di giurisdizione, la citata sentenza n. 500 del 1999.

          Nel prendere le distanze dalla pronuncia n. 500 del 1999, la prima Sezione della Corte di Cassazione osserva che “nel dibattito sull’eterno problema del risarcimento da lesione dell’interesse legittimo s’insinua probabilmente oggi, a differenza che in passato, il disagio di misurare il contatto dei pubblici poteri con il cittadino secondo i canoni del principio di autorità, della presunzione di legittimità dell’atto amministrativo, e in definitiva emerge l’inadeguatezza del paradigma della responsabilità aquiliana”.

          In particolare, soggiunge la Corte di Cassazione, “il contatto del cittadino con l’Amministrazione è oggi caratterizzato da uno specifico dovere di comportamento nell’ambito di un rapporto che in virtù delle garanzie che assistono l’interlocutore dell’attività procedimentale, diviene specifico e differenziato”.

          “Tali interessi, di partecipare al procedimento, di vederlo concluso tempestivamente e senza aggravamenti, di poter accedere ai documenti in possesso dell’Amministrazione, di vedere prese in esame le osservazioni presentate, di veder motivata la decisione che vanifica l’aspettativa, costituirebbero, secondo una lettura estrema, veri e propri diritti soggettivi, tutelati in quanto tali, e non situazioni strumentali alla soddisfazione di un interesse materiale che verrebbe quindi protetto sub specie di interesse legittimo”.

          Da qui la conclusione secondo cui “il fenomeno, tradizionalmente noto come lesione dell’interesse legittimo, costituisce in realtà inadempimento alle regole di svolgimento dell’azione amministrativa, ed integra una responsabilità che è molto più vicina alla responsabilità contrattuale nella misura in cui si rivela insoddisfacente, e inadatto a risolvere con coerenza i problemi applicativi dopo la sentenza Cassazione 500/99/SU, il modello, finora utilizzato, che fa capo all’articolo 2043 cod.civ.: con le relative conseguenze di accertamento della colpa”.

          I Giudici della prima Sezione concludono, quindi, per la risarcibilità del danno a prescindere dalla spettanza del bene della vita osservando che, “l’interesse al rispetto di queste regole, che costituisce la vera essenza dell’interesse legittimo, assume un carattere del tutto autonomo rispetto all’interesse al bene della vita: l’interesse legittimo si riferisce a fatti procedimentali. Questi a loro volta investono il bene della vita, che resta però ai margini, come punto di riferimento storico”.

          La Corte di Cassazione pare aderire, quindi, alla tesi dottrinale che qualifica la responsabilità dell’Amministrazione per attività provvedimentale come responsabilità contrattuale nascente dall’inadempimento di una obbligazione senza prestazione, comunque non ricollegata alla lesione dell’utilità finale cui aspira il privato ma derivante dalla sola  violazione di quei particolari obblighi stabiliti ex lege ed il cui rispetto è funzionale alla garanzia dell’affidamento del privato sulla legittimità dell’azione amministrativa.

            Tesi, per vero, già presa in considerazione dalla giurisprudenza amministrativa e da questa stessa Sezione, che pure hanno talvolta ricollegato la responsabilità dell’Amministrazione alla sola violazione degli obblighi di correttezza comportamentale sulla stessa gravanti, ed alla compromissione, quindi, della situazione soggettiva di affidamento vantata dal privato.

In particolare, con decisione 8 luglio 2002, n. 3796, la quinta Sezione, pronunciandosi su domanda di risarcimento del danno asseritamente subito per effetto dell’aggiudicazione di un contratto di appalto a diversa impresa (aggiudicazione successivamente riconosciuta illegittima con sentenza passata in giudicato), ha riconosciuto che la responsabilità della p.a. presenta profili sui generis che ne consentirebbero, in taluni casi, l‘accostamento alla responsabilità per inadempimento contrattuale.

Ciò in quanto, “la responsabilità aquiliana presuppone, di regola, una lesione dall’esterno della posizione giuridica della parte interessata, ossia derivante da condotte di soggetti non legati da una precedente relazione giuridica, mentre la vicenda procedimentale destinata a concludersi con il provvedimento che amplia la sfera giuridica del privato è caratterizzata dallo svolgimento di un complesso rapporto amministrativo, nel quale sono individuabili particolari obblighi di comportamento del soggetto pubblico”.

Ancora, più di recente, con decisione 20 gennaio 2003, n. 204, la sesta Sezione, chiamata a pronunciarsi su una domanda di risarcimento del danno provocato dalla Soprintendenza per i beni ambientali che aveva annullato, per vizi di merito, il nulla-osta paesistico rilasciato dalla Regione, ha  rilevato che “allorché il privato sia titolare di un interesse legittimo di natura pretensiva, il contatto che si stabilisce fra lui e l’Amministrazione dà vita ad una relazione giuridica di tipo relativo, nel cui ambito il diritto al risarcimento del danno ingiusto, derivante dall’adozione di provvedimenti illegittimi presenta una fisionomia sui generis, non riducibile al modello aquiliano dell’articolo 2043 del codice civile, in quanto, al contrario, caratterizzata da alcuni tratti della responsabilità precontrattuale e di quella per inadempimento delle obbligazioni”.

La questione, come è noto, non è stata risolta dalla recente pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 14 febbraio 2003, n. 2, che ha respinto l’appello proposto senza affrontare il tema relativo alla natura della responsabilità della p.a.

L’adesione all’una o all’altra impostazione teorica è foriera, peraltro, di consistenti implicazioni di tipo applicativo.

Nel dettaglio, l’accoglimento della tesi favorevole ad inferire la responsabilità dalla sola violazione dell’obbligo di correttezza ed, in specie di quella che la qualifica come contrattuale, ha molteplici conseguenze con riferimento, in particolare, alla distribuzione tra le parti dall’onere di provare la colpa, al termine di prescrizione, al calcolo di interessi e rivalutazione, nonché, per quel che in questa sede più conta, alla possibilità di concedere il risarcimento anche a prescindere dal giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita.

A quest’ultimo riguardo, in particolare, una volta ammesso che la responsabilità sanzioni l’inadempimento di quel generico dovere sorto in relazione al “contatto procedimentale”, il danno finisce per essere individuato nelle perdite economiche subite in conseguenza dell’illegittimità, e, più in generale, della scorrettezzza a prescindere dalla spettanza del bene della vita.

Mutano, di conseguenza, i presupposti necessari affinché venga concessa tutela risarcitoria: il danno non consiste più, come affermato la Cassazione nella sentenza n. 500/1999, nella lesione dell’interesse a un bene della vita, meritevole di tutela, al quale l’interesse legittimo si correla, ma nell’inadempimento degli obblighi sorti da un “contatto amministrativo” qualificato, tale, cioè, da ingenerare nel privato un obiettivo affidamento.

L’incertezza circa la spettanza del bene della vita, che nella concezione accolta dalla sentenza n. 500 preclude il risarcimento, perde quindi, almeno in parte, il suo originario rilievo: il danno ristorabile, infatti, non è più ricondotto alla sola perdita dell’utilità sostanziale cui il privato aspira, ma, prima ancora, all’inadempimento del rapporto che si genera in relazione all’obbligo imposto dalla norma.

Ciò posto, non può essere obliterato che, non di rado, la pretesa risarcitoria, in specie quando azionata da soggetti che entrano in contatto con l’Amministrazione in quanto portatori di interessi economici di rilievo, non ha ad oggetto il mero pregiudizio derivante dalla violazione dell’obbligo di comportamento imposto all’amministrazione, a prescindere quindi dalla soddisfazione dell’interesse finale, ma, al contrario, proprio il pregiudizio connesso alla preclusione dall’Amministrazione frapposta alla realizzazione del bene finale anelato.

In ipotesi siffatte, al Giudice non è consentito eludere la domanda, pena un’inammissibile vanificazione del principio di responsabilità dell’Amministrazione e un’inaccettabile banalizzazione della tutela risarcitoria; con maggiore impegno esplicativo, la ricostruzione della responsabilità dell’Amministrazione in termini di responsabilità derivante dalla mera violazione degli obblighi imposti a presidio dell’affidamento del privato, meritoria laddove consente di ristorare in via equitativa il pregiudizio anche nelle ipotesi in cui non si riesca a comprovare la spettanza dell’utilità finale, non può certo condurre ad un abbattimento della portata rimediale della tutela ristoratoria, precludendo al privato di invocare, dimostrandolo anche con riguardo al quantum, il risarcimento del danno pieno, subito per effetto del mancato conseguimento del bene della vita.

In queste ipotesi il giudice non può né eludere la domanda, nè tanto meno accoglierla a prescindere dalla formulazione di un giudizio, laddove possibile, sulla certa o statisticamente probabile spettanza del bene dell’utilità finale. Al più può sostenersi che siffatto giudizio finisca per attenere più direttamente alla quantificazione del danno ristorabile.

Ciò posto, ed in attesa di verificare i futuri approdi interpretativi ed applicativi dell’odierno Giudice del risarcimento, la Sezione ritiene che debba tenersi conto della specificità del caso di scecie nel quale l’appellante incidentale chiede il ristoro del danno inteso nella sua pienezza.

Come agevolmente desumibile anche dalla entità del danno asseritamente patito (quantificato in 50 miliardi di lire), l’appellante incidentale si ritiene leso per non aver potuto esercitare un’attività imprenditoriale a seguito del mancato rilascio di un’autorizzazione, ritenuta, invece, dovuta.

Non è stato chiesto, quindi, il mero danno che può subirsi per effetto di una illegittimità procedimentale sintomatica di una modalità comportamentale non improntata alla regola della correttezza, ma l’intero pregiudizio derivante dal mancato conseguimento del bene della vita, costituito dalla richiesta autorizzazione all’apertura della cava.

Il Collegio, quindi, non può nel caso di specie attribuire autonomo rilievo risarcitorio alla mera violazione dell’obbligo di comportamento imposto all’amministrazione, indipendentemente dalla soddisfazione dell’interesse finale.

Non lo consente il doveroso rispetto del principio della domanda, oltre che di quello dispositivo cui il processo risarcitorio deve conformarsi.

Da un lato, infatti, come rilevato, la società La Sabbia del Brenta non chiede il danno da violazione dell’obbligo di comportamento imposto all’amministrazione, a prescindere quindi dalla soddisfazione dell’interesse finale, ma invoca il ristoro, per l’appunto, del pregiudizio causato dal mancato conseguimento del bene della vita cui aspira.

In ogni caso, pur a volere per mera ipotesi superare la preclusione processuale rilevata, non può il Collegio ignorare che, alla stregua del generale principio dell’onere della prova, destinato a trovare piena applicazione in materia, chi deduce di aver subito un danno deve fornire la prova dello stesso, sia in ordine all’an sia con riguardo al quantum dello stesso.

Principio la cui rilevanza nel processo risarcitorio è stata di recente ribadita da Cons. Stato, sez. V, 8 novembre 2002, n. 6393, secondo cui, con specifico riguardo alla quantificazione del pregiudizio ristorabile, la individuazione presuntiva della perdita di possibilità alternative, mediante l’applicazione dell’art. 345 della legge n. 2248 del 1865, all. F, e dell’art. 122 del D.P.R. n. 544 del 21.12.1999 (determinazione forfettaria del profitto normalmente conseguibile), non prescinde dalla necessità di fornire un principio di prova in ordine a tale perdita di possibilità  alternative. Il criterio indicato quindi, ha sostenuto la quinta Sezione, non è invocabile allorché il ricorrente non abbia fornito neanche un principio di prova in ordine alle opportunità alternative alle quali sostiene di avere rinunciato.

Orbene, nel caso di specie difetta la prova del danno risarcibile.

Nulla infatti è stato indicato dalla società appellante in merito alle possibili voci di un eventuale danno emergente, quali per esempio le spese sostenute per la predisposizione dell'istanza di autorizzazione o gli impegni assunti per l’approntamento del cantiere.

Quanto, invece,  al danno effettivamente richiesto, rapportato al mancato conseguimento del bene finale, l’accoglimento della domanda presuppone, come rilevato, la valutazione circa la spettanza dell’utilità finale cui aspira nel caso di specie l’appellante incidentale.

Si tratta, come è noto, di compito particolarmente delicato nel cui espletamento appare di ineludibile rilievo distinguere a seconda della tipologia dell’attività amministrativa dal cui concreto esercizio dipende il conseguimento del bene della vita: in concreto, il giudizio prognostico pone problemi diversi e si atteggia in modo differenziato a seconda che il soddisfacimento della pretesa sia correlato ad attività vincolata, tecnico-discrezionale o discrezionale pura.

Il rischio che il giudice abbia a sostituirsi all’amministrazione, sia pure in modo virtuale e nella sola prospettiva risarcitoria, diventa tanto più consistente quanto più sono intensi i margini di valutazione rimessi alla seconda nel riconoscere al privato, asseritamente leso, il bene della vita.

          L’ipotesi più problematica resta, tuttavia, quella, ricorrente nel caso di specie, connotata dal riconoscimento in capo all’amministrazione di margini di discrezionalità amministrativa pura, anziché solo tecnica: si prospetta, quindi, il rischio di un’ingerenza del giudice - chiamato a formulare il giudizio prognostico sulla spettanza del bene non ottenuto con la determinazione illegittima ed annullata- nella sfera davvero esclusiva dell’amministrazione, quella afferente il merito amministrativo e le valutazioni di pura opportunità e convenienza alla stessa spettanti nella prospettiva del più ottimale perseguimento dell’interesse pubblico.

          Come è noto, si sono registrate sul punto differenti posizioni.

          Alla stregua di una prima impostazione, andrebbe riconosciuta in ogni caso al privato la possibilità di seguire la via del solo giudizio risarcitorio, concentrando in tale sede la esplicitazione da parte della p.a. degli eventuali motivi ostanti al rilascio del provvedimento che avrebbe potuto esternare in sede di riesame dell’istanza.

          Il giudizio risarcitorio diverrebbe così la sede nella quale l’Amministrazione è chiamata ai fini processuali ad una riedizione dell’attività amministrativa, con la conseguenza che, laddove i motivi eventualmente esposti di fronte al giudice al fine di giustificare il diniego risultassero illegittimi, il giudice potrà concludere in senso positivo il giudizio prognostico per non essere stata la p.a., né in sede di risposta all’istanza dell’interessato, né in sede giudiziale, capace di prospettare motivi legittimi contrari all’attribuzione del bene richiesto dal privato.

          La tesi, da apprezzare per l’attenzione mostrata all’esigenza di assicurare l’effetto utile dell’affermata risarcibilità del danno, non pare per vero convincere attesa la difficoltà di imporre all’Amministrazione l’esercizio, in sede processuale ed in via solo virtuale, dei propri poteri discrezionali, da attivare e distintamente esercitare, poi, in modo questa volta reale, nella distinta sede procedimentale.

          Non può in concreto accogliersi, del resto, nel caso di specie, neanche quella che intende  valorizzare, con specifico riguardo alle ipotesi connotate da residua discrezionalità amministrativa, il ricorso alla teoria della chance.

          Si tratta dell’indirizzo secondo cui il giudizio prognostico andrebbe effettuato tenendo conto delle chances di realizzazione dell’interesse materiale del cittadino, riconoscendosi il risarcimento allorché si dimostri che il ricorrente avrebbe avuto chances sérieuses di conseguire il bene sperato.

          Ciò evidentemente sull’assunto secondo cui “connotato intrinseco della chance, intesa come concreta possibilità di conseguire un risultato utile è l’indimostrabilità della futura realizzazione della medesima: un fatto determina l’interruzione di una successione di eventi potenzialmente idonei a consentire il conseguimento di un vantaggio, producendo una situazione che ha carattere di assoluta immodificabilità, consolidata in tutti gli elementi che concorrono a determinarla, in modo tale che risulta impossibile verificare compiutamente se le probabilità di realizzazione del risultato si sarebbe poi tradotta o meno nel conseguimento dello stesso”.

          Come già sostenuto dalla Sezione, il risarcimento del danno da perdita di chance presuppone che sussista una consistente probabilità di successo, onde evitare che diventino ristorabili anche mere possibilità statisticamente non significative.

          In particolare, “la concretezza della probabilità deve essere statisticamente valutabile con un giudizio sintetico che ammetta – con un giudizio ex ante, secondo l’id quod plerumque accidit, sulla base degli elementi di fatto forniti dal danneggiato – che il pericolo di non verificazione dell’evento favorevole, indipendentemente dalla condotta illecita, sarebbe stato inferiore al cinquanta per cento” (Cons. Stato, sez. VI, n. 686 del 2002).

          Orbene, tale concretezza non sussiste nel caso di specie atteso quanto rilevato a proposito dei margini valutativi di cui l’amministrazione regionale dispone nella comparazione degli interessi antagonisti che è chiamata ad effettuare in sede di definizione di istanze di autorizzazione all’apertura di cave.

          Nel caso di specie, quindi, la pretesa risarcitoria non può essere accolta neanche ricorrendo alla tecnica della chance attesa la mancata emersione di concreti elementi attestanti la rilevanza del grado di probabilità del conseguimento del bene finale.

          Il Collegio ritiene, pertanto di dover aderire, anche in considerazione delle esposte peculiarità del caso concreto, alla tesi che, in ipotesi connotate dalla persistenza in capo all’amministrazione di significativi spazi di discrezionalità amministrativa pura, esclude l’indagine del giudice sulla spettanza del bene della vita, ammettendo il risarcimento solo dopo e a condizione che l’Amministrazione, riesercitato il proprio potere, come le compete per effetto del giudicato, abbia  riconosciuto all’istante il bene della vita: nel qual caso, il danno ristorabile non potrà che ridursi al solo pregiudizio determinato dal ritardo nel conseguimento del bene anelato.

          Si tratta, certo, di ricostruzione avente risvolti applicativi non sempre convincenti, soprattutto laddove impone al privato di chiedere all’amministrazione un provvedimento tardivo anche nei casi in cui per il decorso del tempo il bene della vita non sia più perseguibile o non interessi più.

          La non condivisibilità, per le ragioni esposte, delle tesi alternative, in uno alla constatazione della sicura persistenza in capo alla società appellante incidentale di un interesse attuale al conseguimento, ancora possibile, del bene della vita, induce tuttavia il Collegio ad aderire a siffatta impostazione.

          Il Collegio respinge il primo motivo dell’appello incidentale e, quanto al secondo, relativo alla domanda risarcitoria, lo dichiara inammissibile.

            Sussistono giustificate ragioni per compensare tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, riunisce e respinge gli appelli principali.

Respinge l’appello incidentale.

Sospende il processo in relazione alla domanda risarcitoria in attesa della rideterminazione del potere.

            Spese compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, il  20 dicembre 2002 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sez.VI - nella Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:

Giovanni RUOPPOLO                                                           Presidente

Alessandro PAJNO                                                                Consigliere

Luigi MARUOTTI                                                                  Consigliere

Chiarenza MILLEMAGGI COGLIANI                                  Consigliere

Roberto GAROFOLI