Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sui ricorsi in appello proposti:
1)
dal Comune di Montebelluna, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso
dagli avv. Ivone e Chiara Cacciavillani e Luigi Manzi ed elettivamente
domiciliata presso lo studio dell’avv. Manzi in Roma, via Confalonieri, n. 5;
Contro
La Sabbia del Brenta s.r.l., in persona del legale
rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avv. Franco Zambelli e Mario
Ettore Verino e presso lo studio del secondo elettivamente domiciliata in Roma,
via Lima, n. 15;
-resistente e appellante incidentale-
E nei confronti
Della Regione Veneto, in persona del Presidente
p.t. della Giunta, non costituita;
Nonché
2)
dalla Regione Veneto, in persona del Presidente p.t. della Giunta, rappresentata
e difesa dagli avv. Romano Morra, Franca Caprioglio, Paola Furlanis e Cecilia
Ligabue ed elettivamente domiciliata in Roma, via Confalonieri, n. 5 (studio
Manzi);
Contro
La Sabbia del Brenta s.r.l., in persona del legale
rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avv. Franco Zambelli e Mario
Ettore Verino e presso lo studio del secondo elettivamente domiciliata in Roma,
via Lima, n. 15;
E nei confronti
dal Comune di Montebelluna, in persona del Sindaco
p.t., rappresentato e difeso dagli avv. Ivone e Chiara Cacciavillani e Luigi
Manzi e presso lo studio di quest’ultimo elettivamente domiciliato in Roma,
via Confalonieri, n. 5;
per l’annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo
Regionale per il Veneto, sez. II, n.
3980 del 20.11.2001;
Visti gli atti tutti
della causa;
Alla pubblica udienza
del 20 dicembre 2002 relatore il Consigliere dott. Roberto Garofoli;
Uditi l’avv. Andrea
Manzi per delega dell’avv. Luigi Manzi, e per delega dell’avv. Morra,
l’avv. Cacciavillani Ivone, Cacciavillani Chiara, l’avv. Zimbelli e l’avv.
Verino;
Ritenuto e considerato
in fatto e in diritto quanto segue.
FATTO
Con
il ricorso proposto in primo grado la società La Sabbia del Brenta ha impugnato
la deliberazione della Giunta regionale 4 agosto 2000 n. 2558 che ha negato alla
ricorrente l’autorizzazione all’apertura ed alla coltivazione della cava di
ghiaia denominata "Campilonghi" in Comune di Montebelluna.
Il
diniego è stato pronunciato all’esito del procedimento durante il quale sono
stati acquisiti i pareri, tutti negativi, del Consiglio comunale di Montebelluna,
della Commissione tecnica provinciale per le attività di cava (C.T.P.A.C.) e
della Commissione tecnica regionale per le attività estrattive (C.T.R.A.E.).
Il
diniego, però, è basato esclusivamente sulla motivazione espressa dalla
C.T.R.A.E. nel proprio parere sorretto dai seguenti quattro argomenti: 1) la
domanda fu presentata da un’altra ditta nel 1987 e rigettata nel 1991; 2)
l’area di cava è esterna alle zone estrattive individuate dal Comune di
Montebelluna con la deliberazione del Consiglio comunale 24.7.1987 n. 259; 3)
l’area di cava è “all’interno di una particolare zona del comune,
delimitata da strade comunali, dove sono in atto colture a frutteto e
cerealicole. La zona è integra, ben coltivata, dotata di una adeguata rete
irrigua e di strade interpoderali”; 4) altre ditte hanno presentato domanda di
autorizzazione all’attività estrattiva nella stessa zona con progetti non
coordinati circa la profondità di scavo, le modalità di ricomposizione e la
viabilità di servizio, mentre “l’attività di cava è bene sia il più
possibile concentrata e svolta con progetti unitari o coordinati ..”. La
concentrazione ... comporta anche la salvaguardia dell’attività agricola che,
nel caso in esame, appare preminente rispetto alle esigenze produttive e alla
necessità di fornire materiale al mercato degli inerti”.
A
sostegno del ricorso di primo grado sono stati
dedotti i seguenti motivi:
1)
eccesso di potere sotto vari profili, nel rilievo che è inconferente il
richiamo ad un precedente diniego di autorizzazione ad altra ditta, per un
diverso progetto;
2)
violazione dell’art. 8 L.R. 44/82 ed eccesso di potere sotto vari profili, in
quanto il piano provinciale dell’attività di cava, non la sola deliberazione
comunale, avrebbe potuto vietare l’attività estrattiva sull’area agricola
in questione;
3)
violazione dell’art. 13 L.R. 44/82 ed eccesso di potere sotto vari profili,
nel rilievo che il territorio agricolo è naturalmente destinato all’attività
di cava, entro il limite del 3 per cento (per l’estrazione di sabbia e
ghiaia);
4)
violazione degli artt. 26 e 44, lett. e) e f) L.R. 44/82 ed eccesso di potere
sotto vari profili, in quanto la presentazione di progetti unitari per bacini
estrattivi non è prevista dalla legge regionale;
5)
sviamento di potere perché la Giunta regionale avrebbe dovuto dissociarsi
dall’illegittimo parere della C.T.R.A.E.;
6)
eccesso di potere per violazione della procedura e violazione dell’art. 7 l.
241/90, per omissione del contraddittorio.
7)
eccesso di potere sotto vari profili, nel rilievo che i pareri del Comune di
Montebelluna e della C.T.P.A.C. sono pure viziati.
La
ricorrente ha inoltre chiesto, ex art. 7 l. 205/00, il risarcimento del danno
ingiusto derivante dall’illegittimo diniego dell’autorizzazione richiesta,
quantificato in lire 50 miliardi (o somma diversa da quantificarsi previa c.t.u.)
.
Avverso
la sentenza con cui il primo Giudice ha in parte accolto il ricorso insorgono le
Amministrazioni appellanti sostenendone l’erroneità e
chiedendone quindi l’annullamento.
Avverso
la stessa sentenza propone invece, appello incidentale la società La Sabbia del
Brenta limitatamente alla parte in
cui, da un lato, si riconosce in capo all’Amministrazione regionale, in
assenza della pianificazione di settore prevista dagli artt. 4 e seguenti,
L.R.V. 44/82, un margine di discrezionalità in sede di definizione delle
istanze di apertura di nuove cave, dall’altro si rigetta l’istanza
risarcitoria proposta dalla stessa società.
All’udienza
del 20.12. 2002 la causa è stata ritenuta per la decisione.
DIRITTO
1.
Gli appelli proposti dal Comune di Montebelluna e dalla Regione Veneto,
preliminarmente riuniti, sono infondati e vanno pertanto respinti, sicché può
essere pretermessa la valutazione delle dedotte eccezioni di inammissibilità
1.1.
Giova preliminarmente ricostruire il quadro normativo di riferimento, la vicenda
amministrativa portata al vaglio del giudice, nonché, infine, il percorso
logico seguito dal Tribunale periferico nell’accogliere il ricorso con cui in
primo grado la Sabbia del Brenta s.r.l. ha impugnato la deliberazione regionale
di reiezione dell’istanza di autorizzazione all’apertura ed alla
coltivazione della cava di ghiaia denominata "Campilonghi" in Comune
di Montebelluna.
Quanto
alla disciplina di riferimento, va considerata la legge della Regione Veneto 7
settembre 1982, n. 44, che espressamente enuncia, tra i principi ispiratori
dell’intero sistema normativo e amministrativo delineato, quello
della “rigorosa salvaguardia dell’ambiente nelle sue componenti
fisiche, pedologiche, paesaggistiche, monumentali” (art. 1, co. 1): il
soddisfacimento delle descritte esigenze di salvaguardia ambientale, del resto,
lungi dal rappresentare enunciazione di mero principio, è destinato ad
orientare le scelte amministrative, in specie quelle di pianificazione, ferma la
necessaria armonizzazione che in questa sede va assicurata rispetto ad altre e
talvolta conflittuali ragioni, tra cui quelle della produzione (artt. 5, 8 e 9).
Ciò
posto, appare utile in primo luogo considerare che l'art. 8, L.R.V. 7 settembre
1982, n. 44, demanda ai Comuni interessati dalla presenza dei materiali di
gruppo A (com’è la ghiaia: vd. la classificazione dell’art. 3 della stessa
L.R. 44/82), ai fini della formazione del piano provinciale dell'attività di
cava (Ppac), l'individuazione delle aree con particolare vocazione agricola che
devono essere assoggettate al vincolo di interdizione da qualsiasi attività
estrattiva.
In
seno all’iter procedimentale delineato dalla legislazione regionale, quindi,
la determinazione cui è rimesso il compito di individuare le aree sottratte ad
ogni forma di utilizzabilità estrattiva è solo quella conclusiva, costituita
dall’approvazione del piano provinciale dell’attività di cava.
Proseguendo
nella sintetica illustrazione dei parametri normativi di riferimento, va
menzionato l'art. 13 della stessa L. R. V.
7 settembre 1982, n. 44, che, nell’individuare le aree suscettibili di
utilizzazione a fini estrattivi, ha riguardo alle zone con destinazione
agricola, prevedendo che la superficie del territorio comunale interessato
dall'attività di estrazione di ghiaia e sabbia non superi la quota del 3% sulla
superficie totale della zona agricola.
Limitazione
quantitativa, questa, all’evidenza finalizzata ad evitare che le cave
compromettano l'equilibrio naturale della zona stessa e ne sottraggano una
porzione eccessiva all'attività agricola (Cons. Stato, sez. VI, 9 settembre
1997, n. 1308).
La
disposizione da ultimo citata assume rilievo, quindi, in sede di valutazione
delle istanze di autorizzazione all’apertura di nuove cave, anche e
soprattutto quando, come nel caso di specie, non sia ancora intervenuta la
pianificazione di settore prevista dagli artt. 4 e ss. della L.R. 44/82 (piano
regionale delle attività di cava e piano provinciale delle attività di cava).
Ed
invero, in assenza di tale pianificazione, le determinazioni sulle domande di
autorizzazione sono assunte dalla Giunta regionale in base al citato art. 13 ed
ai criteri transitori stabiliti dall’art. 44 della stessa L.R. 44/82 che
espressamente prevede, alla lett. d), il rispetto dell’art. 13; in uno ad
altri parametri, quindi, l’amministrazione regionale deve tenere conto delle
indicazioni tipologiche e quantitative fornite dalla citata disposizione della
normativa regionale.
1.2.
Ciò posto, a sostegno della determinazione impugnata in primo grado e del
sottostante parere della C.T.R.A.E. sono stati addotti quatto ordini di ragioni:
1) la domanda fu presentata da un’altra ditta nel 1987 e rigettata nel 1991;
2) l’area di cava è esterna alle zone estrattive individuate
dal
Comune di Montebelluna con la deliberazione del Consiglio comunale 24.7.1987 n.
259; 3) l’area di cava è “all’interno di una particolare zona del comune,
delimitata da strade comunali, dove sono in atto colture a frutteto e
cerealicole. La zona è integra, ben coltivata, dotata di una adeguata rete
irrigua e di strade interpoderali”; 4) altre ditte hanno presentato domanda di
autorizzazione all’attività estrattiva nella stessa zona con progetti non
coordinati circa la profondità di scavo, le modalità di ricomposizione e la
viabilità di servizio, mentre “l’attività di cava è bene sia il più
possibile concentrata e svolta con progetti unitari o coordinati ..”. La
concentrazione ... comporta anche la salvaguardia dell’attività agricola che,
nel caso in esame, appare preminente rispetto alle esigenze produttive e alla
necessità di fornire materiale al mercato degli inerti”.
Ragioni
tutte non condivise dal Giudice di prima istanza al cui approccio argomentativo
il Collegio ritiene di aderire.
2.
Ed invero, nella sua assolutezza appare non il linea con il descritto quadro
normativo il riferimento che il provvedimento impugnato in primo grado contiene
alla deliberazione del Consiglio comunale 24.7.1987 n. 259, di individuazione
delle aree interdette all’attività estrattiva.
Come
correttamente osservato dal primo Giudice, infatti, la deliberazione comunale si
inserisce quale mero atto di iniziativa nell’ambito di un iter procedimentale destinato tuttavia a concludersi solo con
l’approvazione del piano provinciale delle attività di cava: unico atto,
questo, cui è consentito riconoscere l’attitudine alla individuazione
delle aree con particolare vocazione agricola da assoggettare al vincolo
di interdizione da qualsiasi attività estrattiva.
Come
già osservato da questa Sezione, infatti, la indicata deliberazione comunale,
in quanto a carattere solo propositivo ed endoprocedimentale, priva di
attitudine modificativa della destinazione urbanistica del terreno, non può
costituire, ex se, elemento ostativo
al rilascio dell’autorizzazione richiesta finchè non tradottasi in
un’efficace previsione del Ppac (19 febbraio 1993 n. 180).
In
assenza della necessaria conclusione procedimentale, quindi, quella
deliberazione comunale non poteva essere addotta a sostegno della reiezione
dell’istanza di autorizzazione, salva la possibilità dell’Amministrazione
regionale di far proprie talune delle ragioni evidenziate dall’ente locale, ma
in seno alla più ampia e complessa valutazione discrezionale e comparativa di
cui si dirà in sede di esame dell’appello incidentale proposto dalla società
La Sabbia del Brenta.
Va
quindi respinto il primo motivo di gravame.
3.
Parimenti infondato risulta il secondo motivo di appello con cui si lamenta che
il Giudice di primo grado, pur avendo riconosciuto all’amministrazione
regionale, in assenza della indicata pianificazione, margini di discrezionalità
in sede di valutazione delle istanze di autorizzazione e di bilanciamento,
quindi, degli interessi pubblici e privati coinvolti, ha tuttavia ritenuto
illogica e carente di motivazione la determinazione impugnata e il sottostante
parere del C.T.R.A.E. nella parte in cui si limitano ad osservare che quella
interessata è “una particolare zona del comune, delimitata da strade
comunali, dove sono in atto colture a frutteto e cerealicole. La zona è
integra, ben coltivata, dotata di una adeguata rete irrigua e di strade
interpoderali”.
Il
Collegio condivide, al riguardo, la valutazione espressa dal primo Giudice in
merito alla insufficienza della riportata motivazione ad evidenziare quella
specialità della zona e quel suo particolare pregio ambientale -diverso
dall’ordinario territorio agricolo pur rispondente a normali esigenze
produttive- che soli possono giustificare un rigetto di istanze di
autorizzazione all’apertura di cave presentate nel sostanziale rispetto dei
parametri di cui all’art. 13, L.R.V. n. n. 44/82, oltre che dei criteri
transitori di cui al citato art. 44.
Non
va obliterato, infatti, che, pur riconoscendo una discrezionalità valutativa in
capo all’amministrazione regionale, la mera destinazione agricola della zona
non costituisce impedimento all'esplicazione dell'attività estrattiva. Anzi, le
zone agricole sono quelle naturalmente destinate dal citato art. 13 ad ospitare
l’attività estrattiva di ghiaia e sabbia, pur se contingentata nel limite
percentuale del 3 per cento (Cons. Stato,
sez. VI, 9 novembre 1994 n. 1596).
Una
diversa valutazione, intesa a valorizzare la specificità dell’area e non la
sua mera vocazione agricola o la sua sola attuale utilizzazione a fini
produttivi, richiede, pertanto, una ben più ponderata comparazione di cui
occorre dare atto con un apparato motivazionale di ben altra consistenza.
Con
maggiore impegno esplicativo, può dirsi che ove la Regione intenda tener conto,
oltre che del limite del 3 per cento prefissato dalla legge regionale a tutela
della superficie agraria (art. 13 e lett. d) dell’art. 44) anche di altri
preminenti interessi pubblici, pure considerati tra le finalità della legge
regionale, ma valorizzabili solo discrezionalmente in assenza della
pianificazione di settore, deve esplicitarli con una motivazione appropriata e
particolarmente esauriente, non ravvisabile certo nel provvedimento contestato
in primo grado.
4.
Infine, il Collegio condivide il
giudizio di illegittimità dal primo Giudice espresso con riguardo al passaggio
della parte motiva del provvedimento negativo impugnato in prima istanza nel
quale si osserva che altre ditte hanno presentato domanda di autorizzazione
all’attività estrattiva nella stessa zona con progetti non coordinati circa
la profondità di scavo, le modalità di ricomposizione e la viabilità di
servizio, mentre “l’attività di cava è bene sia il più possibile
concentrata e svolta con progetti unitari o coordinati ..”. La concentrazione
... comporta anche la salvaguardia dell’attività agricola che, nel caso in
esame, appare preminente rispetto alle esigenze produttive e alla necessità di
fornire materiale al mercato degli inerti”.
L’Amministrazione
regionale, quindi, rigetta l’istanza di autorizzazione sul rilievo del mancato
coordinamento del progetto della società ricorrente in primo grado con quello
presentato da altre ditte su ambiti territoriali vicini.
Giova,
al riguardo, ribadire che alla salvaguardia dell’attività agricola provvede
già l’art. 13 della L.R. n. 44 del 1982 che, nel destinare proprio le zone
agricole ad ospitare le attività estrattive, introduce tuttavia in via generale
il limite del 3 per cento (per l’estrazione di sabbia e ghiaia).
Ciò
posto, il Collegio non può che osservare come la mera opportunità di un
coordinamento dei progetti di apertura di cave incidenti in zone non può essere
addotta a giustificazione di una determinazione di segno negativo in assenza di
esplicita previsione normativa o pianificatoria
che imponga la presentazione di progetti estrattivi unitari: l’unica
prescrizione contenuta nella legge regionale è infatti quella riguardante la
formazione di consorzi, anche obbligatori, a condizione tuttavia che la
coltivazione delle cave sia stata già avviata
(art. 26).
Al
più, come rilevato nella sentenza gravata, l’Amministrazione avrebbe potuto
adottare una pronuncia interlocutoria ovvero imporre, in sede di rilascio
dell’autorizzazione, particolari condizioni idonee a rendere uniformi la
profondità di scavo, le modalità di ricomposizione e la viabilità di
servizio.
Alla
stregua delle esposte argomentazioni vanno dunque respinti gli appelli
principali.
5.
Va parimenti respinto l’appello incidentale proposto dalla società La Sabbia
del Brenta limitatamente alla parte
della sentenza in cui, da un lato, si riconosce in capo all’Amministrazione
regionale, in assenza della pianificazione di settore prevista dagli artt. 4 e
seguenti, L.R.V. 44/82, un margine di discrezionalità in sede di definizione
delle istanze di apertura di nuove cave, dall’altro si rigetta l’istanza
risarcitoria proposta dalla stessa società
5.1.
Va in primo luogo ribadito quanto sostenuto dal primo Giudice in merito alla
permanenza, in assenza della pianificazione di settore prevista dagli artt. 4 e
seguenti, L.R.V. 44/82, di un margine di valutazione discrezionale in capo alla
Regione deputata alla disamina delle istanze di apertura di nuove cave.
Discrezionalità
di tipo amministrativo in senso classico, destinata a tradursi, in particolare,
nella comparazione e nella
successiva composizione degli interessi pubblici (non solo quello allo
sfruttamento dei giacimenti per le esigenze dell’economia, ma anche quello
alla tutela dell’ambiente) e privati in gioco, che la pianificazione di
settore avrebbe dovuto garantire, preventivamente ed in via generale.
Si
tratta, in particolare di discrezionalità non assorbita dalla semplice
osservanza dei criteri transitori e
non esaustivi, fissati dall’art. 44 della L.R. 44/82, non idonei ad esaurire
le molteplici finalità espresse nella legge regionale, tra cui la “rigorosa
salvaguardia dell’ambiente nelle sue componenti fisiche, pedologiche,
paesaggistiche, monumentali” (art. 1, co. 1) e la pluralità degli interessi,
anche ambientali, che dovrebbero costituire oggetto del Prac e del Ppac (artt.
5, 8 e 9): diversamente opinando, infatti, tali finalità ed interessi, non
ancora presi in considerazione in via generale per effetto della rilevata
assenza di pianificazione di settore, resterebbero privi di protezione.
Come
rilevato dal primo Giudice, quindi, l’amministrazione regionale non è
vincolata ad accogliere la domanda sul solo rilievo della destinazione agricola
dell’area interessata e del rispetto del citato limite generale del 3 per
cento di territorio agricolo, potendo al contrario tener conto, in modo
ponderato e comparato, degli altri interessi pubblici indicati, dando
naturalmente conto in modo adeguato degli esiti di tale valutazione in sede
motivazionale.
5.2.
E’ proprio il riconoscimento di tali margini di discrezionalità che
l’amministrazione conserva nel valutare l’istanza di autorizzazione proposta
dall’odierna appellante incidentale ad indurre il Collegio a non ritenere allo
stato ammissibile la domanda di risarcimento per equivalente respinta in prima
grado.
Giova
premettere che la individuazione del danno ristorabile è destinata ad essere
consistentemente condizionata dall’approccio che si ritiene di dover seguire
con riguardo al complesso tema della natura giuridica della responsabilità
dell’amministrazione.
Diverso,
infatti, può essere il danno risarcibile e il concreto procedimento da seguire
per il suo accertamento a seconda che si qualifichi la responsabilità
dell’amministrazione come aquiliana, contrattuale da contatto o, ancora,
precontrattuale.
La
prima soluzione è quella accolta nella sentenza n. 500/99 con la quale le
Sezioni Unite di Cassazione, rilevato che ‘‘la lesione dell’interesse
legittimo e` condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela
risarcitoria ex art. 2043 c.c.”, attesa la necessità che risulti
leso, per effetto dell’attivita` illegittima e colpevole della P.A.,
l’interesse “al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla,
e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce
dell’ordinamento positivo’’, hanno ritenuto di dover distinguere tra
interessi oppositivi, incondizionatamente risarcibili,
ed interessi pretensivi, in relazione ai quali, invece, hanno preteso il
giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita invano chiesto
all’amministrazione.
Si tratta di opzione ricostruttiva di recente rimeditata dalla stessa
Corte di Cassazione con sentenza 10
gennaio 2003, n. 157, pronunciata nella causa Vitali
c. Comune di Fiesole, nel corso della quale era già intervenuta, in sede di
regolamento di giurisdizione, la citata sentenza n. 500 del 1999.
Nel prendere le distanze dalla pronuncia n. 500 del 1999, la prima
Sezione della Corte di Cassazione osserva che “nel dibattito sull’eterno
problema del risarcimento da lesione dell’interesse legittimo s’insinua
probabilmente oggi, a differenza che in passato, il disagio di misurare il
contatto dei pubblici poteri con il cittadino secondo i canoni del principio di
autorità, della presunzione di legittimità dell’atto amministrativo, e in
definitiva emerge l’inadeguatezza del
paradigma della responsabilità aquiliana”.
In particolare, soggiunge la Corte di Cassazione, “il contatto del cittadino con l’Amministrazione è oggi
caratterizzato da uno specifico dovere di comportamento nell’ambito di un rapporto che in virtù delle garanzie che assistono
l’interlocutore dell’attività procedimentale, diviene specifico
e differenziato”.
“Tali interessi, di partecipare al procedimento, di vederlo concluso
tempestivamente e senza aggravamenti, di poter accedere ai documenti in possesso
dell’Amministrazione, di vedere prese in esame le osservazioni presentate, di
veder motivata la decisione che vanifica l’aspettativa, costituirebbero,
secondo una lettura estrema, veri e propri diritti soggettivi, tutelati in
quanto tali, e non situazioni strumentali alla soddisfazione di un interesse
materiale che verrebbe quindi protetto sub
specie di interesse legittimo”.
Da qui la conclusione secondo cui “il fenomeno, tradizionalmente noto
come lesione dell’interesse legittimo, costituisce in realtà inadempimento
alle regole di svolgimento dell’azione amministrativa, ed integra una
responsabilità che è molto più vicina alla responsabilità contrattuale nella
misura in cui si rivela insoddisfacente, e inadatto a risolvere con coerenza i
problemi applicativi dopo la sentenza Cassazione 500/99/SU, il modello, finora
utilizzato, che fa capo all’articolo 2043 cod.civ.: con le relative
conseguenze di accertamento della colpa”.
I Giudici della prima Sezione concludono, quindi, per la risarcibilità
del danno a prescindere dalla spettanza del bene della vita osservando che,
“l’interesse al rispetto di queste regole, che costituisce la vera essenza
dell’interesse legittimo, assume un carattere del tutto autonomo rispetto
all’interesse al bene della vita: l’interesse legittimo si riferisce a fatti
procedimentali. Questi a loro volta investono il bene della vita, che resta però
ai margini, come punto di riferimento storico”.
La Corte di Cassazione pare aderire, quindi, alla tesi dottrinale che
qualifica la responsabilità dell’Amministrazione per attività
provvedimentale come responsabilità contrattuale nascente dall’inadempimento
di una obbligazione senza prestazione, comunque non ricollegata alla lesione
dell’utilità finale cui aspira il privato ma derivante dalla sola
violazione di quei particolari obblighi stabiliti ex lege ed il cui rispetto è funzionale alla garanzia
dell’affidamento del privato sulla legittimità dell’azione amministrativa.
Tesi, per vero, già presa in considerazione dalla giurisprudenza
amministrativa e da questa stessa Sezione, che pure hanno talvolta ricollegato
la responsabilità dell’Amministrazione alla sola violazione degli obblighi di
correttezza comportamentale sulla stessa gravanti, ed alla compromissione,
quindi, della situazione soggettiva di affidamento vantata dal privato.
In
particolare, con decisione 8 luglio
2002, n. 3796, la quinta Sezione, pronunciandosi su domanda di risarcimento del
danno asseritamente subito per
effetto dell’aggiudicazione di un contratto di appalto a diversa impresa
(aggiudicazione successivamente riconosciuta illegittima con sentenza passata in
giudicato), ha riconosciuto che la responsabilità della p.a. presenta profili sui
generis che ne
consentirebbero, in taluni casi, l‘accostamento alla responsabilità per
inadempimento contrattuale.
Ciò
in quanto, “la responsabilità aquiliana presuppone, di regola, una lesione
dall’esterno della posizione giuridica della parte interessata, ossia
derivante da condotte di soggetti non legati da una precedente relazione
giuridica, mentre la vicenda procedimentale destinata a concludersi con il
provvedimento che amplia la sfera giuridica del privato è caratterizzata dallo
svolgimento di un complesso rapporto amministrativo, nel quale sono
individuabili particolari obblighi di comportamento del soggetto pubblico”.
Ancora,
più di recente, con decisione 20 gennaio 2003, n. 204, la sesta Sezione,
chiamata a pronunciarsi su una domanda di risarcimento del danno provocato dalla
Soprintendenza per i beni ambientali che aveva annullato, per vizi di merito, il
nulla-osta paesistico rilasciato dalla Regione, ha
rilevato che “allorché il privato sia titolare di un interesse
legittimo di natura pretensiva, il contatto che si stabilisce fra lui e
l’Amministrazione dà vita ad una relazione giuridica di tipo relativo, nel
cui ambito il diritto al risarcimento del danno ingiusto, derivante
dall’adozione di provvedimenti illegittimi presenta una fisionomia sui
generis, non riducibile al modello aquiliano dell’articolo 2043 del codice
civile, in quanto, al contrario, caratterizzata da alcuni tratti della
responsabilità precontrattuale e di quella per inadempimento delle
obbligazioni”.
La
questione, come è noto, non è stata risolta dalla recente pronuncia
dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 14 febbraio 2003, n. 2, che ha
respinto l’appello proposto senza affrontare il tema relativo alla natura
della responsabilità della p.a.
L’adesione
all’una o all’altra impostazione teorica è foriera, peraltro, di
consistenti implicazioni di tipo applicativo.
Nel
dettaglio, l’accoglimento della tesi favorevole ad inferire la responsabilità
dalla sola violazione dell’obbligo di correttezza ed, in specie di quella che
la qualifica come contrattuale, ha molteplici conseguenze con riferimento, in
particolare, alla distribuzione tra le parti dall’onere di provare la colpa,
al termine di prescrizione, al calcolo di interessi e rivalutazione, nonché,
per quel che in questa sede più conta, alla possibilità di concedere il
risarcimento anche a prescindere dal giudizio prognostico sulla spettanza del
bene della vita.
A
quest’ultimo riguardo, in particolare, una volta ammesso che la responsabilità
sanzioni l’inadempimento di quel generico dovere sorto in relazione al
“contatto procedimentale”, il danno finisce per essere individuato nelle
perdite economiche subite in conseguenza dell’illegittimità, e, più in
generale, della scorrettezzza a prescindere dalla spettanza del bene della vita.
Mutano,
di conseguenza, i presupposti necessari affinché venga concessa tutela
risarcitoria: il danno non consiste più, come affermato la Cassazione nella
sentenza n. 500/1999, nella lesione dell’interesse a un bene della vita,
meritevole di tutela, al quale l’interesse legittimo si correla, ma
nell’inadempimento degli obblighi sorti da un “contatto amministrativo”
qualificato, tale, cioè, da ingenerare nel privato un obiettivo affidamento.
L’incertezza
circa la spettanza del bene della vita, che nella concezione accolta dalla
sentenza n. 500 preclude il risarcimento, perde quindi, almeno in parte, il suo
originario rilievo: il danno ristorabile, infatti, non è più ricondotto alla
sola perdita dell’utilità sostanziale cui il privato aspira, ma, prima
ancora, all’inadempimento del rapporto che si genera in relazione
all’obbligo imposto dalla norma.
Ciò
posto, non può essere obliterato che, non di rado, la pretesa risarcitoria, in
specie quando azionata da soggetti che entrano in contatto con
l’Amministrazione in quanto portatori di interessi economici di rilievo, non
ha ad oggetto il mero pregiudizio derivante dalla violazione dell’obbligo di
comportamento imposto all’amministrazione, a prescindere quindi dalla
soddisfazione dell’interesse finale, ma, al contrario, proprio il pregiudizio
connesso alla preclusione dall’Amministrazione frapposta alla realizzazione
del bene finale anelato.
In
ipotesi siffatte, al Giudice non è consentito eludere la domanda, pena
un’inammissibile vanificazione del principio di responsabilità
dell’Amministrazione e un’inaccettabile banalizzazione della tutela
risarcitoria; con maggiore impegno esplicativo, la ricostruzione della
responsabilità dell’Amministrazione in termini di responsabilità derivante
dalla mera violazione degli obblighi imposti a presidio dell’affidamento del
privato, meritoria laddove consente di ristorare in via equitativa il
pregiudizio anche nelle ipotesi in cui non si riesca a comprovare la spettanza
dell’utilità finale, non può certo condurre ad un abbattimento della portata
rimediale della tutela ristoratoria, precludendo al privato di invocare,
dimostrandolo anche con riguardo al quantum, il risarcimento del danno pieno,
subito per effetto del mancato conseguimento del bene della vita.
In
queste ipotesi il giudice non può né eludere la domanda, nè tanto meno
accoglierla a prescindere dalla formulazione di un giudizio, laddove possibile,
sulla certa o statisticamente probabile spettanza del bene dell’utilità
finale. Al più può sostenersi che siffatto giudizio finisca per attenere più
direttamente alla quantificazione del danno ristorabile.
Ciò
posto, ed in attesa di verificare i futuri approdi interpretativi ed applicativi
dell’odierno Giudice del risarcimento, la Sezione ritiene che debba tenersi
conto della specificità del caso di scecie nel quale l’appellante incidentale
chiede il ristoro del danno inteso nella sua pienezza.
Come
agevolmente desumibile anche dalla entità del danno asseritamente patito
(quantificato in 50 miliardi di lire), l’appellante incidentale si ritiene
leso per non aver potuto esercitare un’attività imprenditoriale a seguito del
mancato rilascio di un’autorizzazione, ritenuta, invece, dovuta.
Non
è stato chiesto, quindi, il mero danno che può subirsi per effetto di una
illegittimità procedimentale sintomatica di una modalità comportamentale non
improntata alla regola della correttezza, ma l’intero pregiudizio derivante
dal mancato conseguimento del bene della vita, costituito dalla richiesta
autorizzazione all’apertura della cava.
Il
Collegio, quindi, non può nel caso di specie attribuire autonomo rilievo
risarcitorio alla mera violazione dell’obbligo di comportamento imposto
all’amministrazione, indipendentemente dalla soddisfazione dell’interesse
finale.
Non
lo consente il doveroso rispetto del principio della domanda, oltre che di
quello dispositivo cui il processo risarcitorio deve conformarsi.
Da
un lato, infatti, come rilevato, la società La Sabbia del Brenta non chiede il
danno da violazione dell’obbligo di comportamento imposto
all’amministrazione, a prescindere quindi dalla soddisfazione dell’interesse
finale, ma invoca il ristoro, per l’appunto, del pregiudizio causato dal
mancato conseguimento del bene della vita cui aspira.
In
ogni caso, pur a volere per mera ipotesi superare la preclusione processuale
rilevata, non può il Collegio ignorare che, alla stregua del generale principio
dell’onere della prova, destinato a trovare piena applicazione in materia, chi
deduce di aver subito un danno deve fornire la prova dello stesso, sia in ordine
all’an sia con riguardo al quantum dello stesso.
Principio
la cui rilevanza nel processo risarcitorio è stata di recente ribadita da Cons.
Stato, sez. V, 8 novembre 2002, n. 6393, secondo cui, con specifico riguardo
alla quantificazione del pregiudizio ristorabile, la individuazione presuntiva
della perdita di possibilità alternative, mediante l’applicazione dell’art.
345 della legge n. 2248 del 1865, all. F, e dell’art. 122 del D.P.R. n. 544
del 21.12.1999 (determinazione forfettaria del profitto normalmente
conseguibile), non prescinde dalla necessità di fornire un principio di prova
in ordine a tale perdita di possibilità alternative.
Il criterio indicato quindi, ha sostenuto la quinta Sezione, non è invocabile
allorché il ricorrente non abbia fornito neanche un principio di prova in
ordine alle opportunità alternative alle quali sostiene di avere rinunciato.
Orbene,
nel caso di specie difetta la prova del danno risarcibile.
Nulla
infatti è stato indicato dalla società appellante in merito alle possibili
voci di un eventuale danno emergente, quali per esempio le spese sostenute per
la predisposizione dell'istanza di autorizzazione o gli impegni assunti per
l’approntamento del cantiere.
Quanto,
invece, al danno effettivamente
richiesto, rapportato al mancato conseguimento del bene finale, l’accoglimento
della domanda presuppone, come rilevato, la valutazione circa la spettanza
dell’utilità finale cui aspira nel caso di specie l’appellante incidentale.
Si
tratta, come è noto, di compito particolarmente delicato nel cui espletamento
appare di ineludibile rilievo distinguere a seconda della tipologia
dell’attività amministrativa dal cui concreto esercizio dipende il
conseguimento del bene della vita: in concreto, il giudizio prognostico pone
problemi diversi e si atteggia in modo differenziato a seconda che il
soddisfacimento della pretesa sia correlato ad attività vincolata,
tecnico-discrezionale o discrezionale pura.
Il
rischio che il giudice abbia a sostituirsi all’amministrazione, sia pure in
modo virtuale e nella sola prospettiva risarcitoria, diventa tanto più
consistente quanto più sono intensi i margini di valutazione rimessi alla
seconda nel riconoscere al privato, asseritamente leso, il bene della vita.
L’ipotesi più problematica resta, tuttavia, quella, ricorrente nel
caso di specie, connotata dal riconoscimento in capo all’amministrazione di
margini di discrezionalità amministrativa pura, anziché solo tecnica: si
prospetta, quindi, il rischio di un’ingerenza del giudice - chiamato a
formulare il giudizio prognostico sulla spettanza del bene non ottenuto con la
determinazione illegittima ed annullata- nella sfera davvero esclusiva
dell’amministrazione, quella afferente il merito amministrativo e le
valutazioni di pura opportunità e convenienza alla stessa spettanti nella
prospettiva del più ottimale perseguimento dell’interesse pubblico.
Come è noto, si sono registrate sul punto differenti posizioni.
Alla stregua di una prima impostazione, andrebbe riconosciuta in ogni
caso al privato la possibilità di seguire la via del solo giudizio risarcitorio,
concentrando in tale sede la esplicitazione da parte della p.a. degli eventuali
motivi ostanti al rilascio del provvedimento che avrebbe potuto esternare in
sede di riesame dell’istanza.
Il giudizio risarcitorio diverrebbe così la sede nella quale
l’Amministrazione è chiamata ai fini processuali ad una riedizione
dell’attività amministrativa, con la conseguenza che, laddove i motivi
eventualmente esposti di fronte al giudice al fine di giustificare il diniego
risultassero illegittimi, il giudice potrà concludere in senso positivo il
giudizio prognostico per non essere stata la p.a., né in sede di risposta
all’istanza dell’interessato, né in sede giudiziale, capace di prospettare
motivi legittimi contrari all’attribuzione del bene richiesto dal privato.
La tesi, da apprezzare per l’attenzione mostrata all’esigenza di
assicurare l’effetto utile dell’affermata risarcibilità del danno, non pare
per vero convincere attesa la difficoltà di imporre all’Amministrazione
l’esercizio, in sede processuale ed in via solo virtuale, dei propri poteri
discrezionali, da attivare e distintamente esercitare, poi, in modo questa volta
reale, nella distinta sede procedimentale.
Non può in concreto accogliersi, del resto, nel caso di specie, neanche
quella che intende valorizzare, con
specifico riguardo alle ipotesi connotate da residua discrezionalità
amministrativa, il ricorso alla teoria della chance.
Si tratta dell’indirizzo secondo cui il giudizio prognostico andrebbe
effettuato tenendo conto delle chances
di realizzazione dell’interesse materiale del cittadino, riconoscendosi il
risarcimento allorché si dimostri che il ricorrente avrebbe avuto chances
sérieuses di conseguire il bene sperato.
Ciò evidentemente sull’assunto secondo cui “connotato intrinseco
della chance, intesa come concreta
possibilità di conseguire un risultato utile è l’indimostrabilità della
futura realizzazione della medesima: un fatto determina l’interruzione di una
successione di eventi potenzialmente idonei a consentire il conseguimento di un
vantaggio, producendo una situazione che ha carattere di assoluta
immodificabilità, consolidata in tutti gli elementi che concorrono a
determinarla, in modo tale che risulta impossibile verificare compiutamente se
le probabilità di realizzazione del risultato si sarebbe poi tradotta o meno
nel conseguimento dello stesso”.
Come già sostenuto dalla Sezione, il risarcimento del danno da perdita
di chance presuppone che sussista una
consistente probabilità di successo, onde evitare che diventino ristorabili
anche mere possibilità statisticamente non significative.
In particolare, “la concretezza della probabilità deve essere
statisticamente valutabile con un giudizio sintetico che ammetta – con un
giudizio ex ante, secondo l’id quod plerumque accidit, sulla base degli elementi di fatto
forniti dal danneggiato – che il pericolo di non verificazione dell’evento
favorevole, indipendentemente dalla condotta illecita, sarebbe stato inferiore
al cinquanta per cento” (Cons. Stato,
sez. VI, n. 686 del 2002).
Orbene, tale concretezza non sussiste nel caso di specie atteso quanto
rilevato a proposito dei margini valutativi di cui l’amministrazione regionale
dispone nella comparazione degli interessi antagonisti che è chiamata ad
effettuare in sede di definizione di istanze di autorizzazione all’apertura di
cave.
Nel caso di specie, quindi, la pretesa risarcitoria non può essere
accolta neanche ricorrendo alla tecnica della chance
attesa la mancata emersione di concreti elementi attestanti la rilevanza del
grado di probabilità del conseguimento del bene finale.
Il Collegio ritiene, pertanto di dover aderire, anche in considerazione
delle esposte peculiarità del caso concreto, alla tesi che, in ipotesi
connotate dalla persistenza in capo all’amministrazione di significativi spazi
di discrezionalità amministrativa pura, esclude l’indagine del giudice sulla
spettanza del bene della vita, ammettendo il risarcimento solo dopo e a
condizione che l’Amministrazione, riesercitato il proprio potere, come le
compete per effetto del giudicato, abbia riconosciuto
all’istante il bene della vita: nel qual caso, il danno ristorabile non potrà
che ridursi al solo pregiudizio determinato dal ritardo nel conseguimento del
bene anelato.
Si tratta, certo, di ricostruzione avente risvolti applicativi non sempre
convincenti, soprattutto laddove impone al privato di chiedere
all’amministrazione un provvedimento tardivo anche nei casi in cui per il
decorso del tempo il bene della vita non sia più perseguibile o non interessi
più.
La non condivisibilità, per le ragioni esposte, delle tesi alternative,
in uno alla constatazione della sicura persistenza in capo alla società
appellante incidentale di un interesse attuale al conseguimento, ancora
possibile, del bene della vita, induce tuttavia il Collegio ad aderire a
siffatta impostazione.
Il Collegio respinge il primo motivo dell’appello incidentale e, quanto
al secondo, relativo alla domanda risarcitoria, lo dichiara inammissibile.
Sussistono giustificate ragioni per compensare tra le parti le spese del
doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, riunisce e respinge gli appelli
principali.
Respinge l’appello
incidentale.
Sospende il processo in
relazione alla domanda risarcitoria in attesa della rideterminazione del potere.
Spese compensate.
Ordina che la presente
decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma,
il 20 dicembre 2002 dal Consiglio
di Stato in sede giurisdizionale - Sez.VI - nella Camera di Consiglio, con
l'intervento dei Signori:
Giovanni RUOPPOLO
Presidente
Alessandro PAJNO
Consigliere
Luigi MARUOTTI
Consigliere
Chiarenza MILLEMAGGI COGLIANI
Consigliere
Roberto GAROFOLI Articolo precedente: Edilizia e Urbanistica. PRG Articolo successivo: Urbanistica. Annullamento variante concessione edil.