Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 4606, del 17 settembre 2013
Urbanistica.Legittimità diniego ristrutturazione edilizia di capannoni esistenti, con cambio di destinazione d’uso da agricola ad artigianale
Non è consentito avviare ex novo attività produttive o artigianali su aree a destinazione agricola per il solo fatto che gli edifici insistenti su di esse siano in tutto o in parte dismessi o abbandonati, infatti, ciò può dipendere anche semplicemente dal fallimento dell’imprenditore agricolo e dal successivo acquisto dell’immobile da parte di chi tale qualità non rivesta. In caso affermativo tale operazione si risolverebbe in un sostanziale stravolgimento dell’impianto generale del P.R.G., che alle attività artigianali e produttive ha specificamente destinato altre aree. Inoltre, un intervento di trasformazione del tipo di quello richiesto nella specie, implicante il frazionamento di due capannoni in cinque distinte unità immobiliari da destinare a magazzini, comporta certamente un aumento del carico urbanistico sull’area interessata, ciò che, del resto, è dimostrato anche dalla contestuale previsione di nuove aree a standard da destinare a parcheggi, sull’evidente presupposto di un diverso e più consistente afflusso umano in loco. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)
N. 04606/2013REG.PROV.COLL.
N. 02803/2006 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello nr. 2803 del 2006, proposto da P.P. di PIGNATTA & C. S.n.c, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv. Pierluigi Pomero, Alberto Romano e Carlo Emanuele Gallo, con domicilio eletto presso il secondo in Roma, Lungotevere Sanzio, 1,
contro
il COMUNE DI SALUZZO, in persona del Sindaco pro tempore, non costituito,
per la riforma
della sentenza pronunciata dal Tribunale amministrativo regionale del Piemonte, Sezione Prima, in data 23 novembre 2005, nr. 3747, non notificata, che ha respinto il ricorso nr. 282/05 proposto dalla società appellante nei confronti del Comune di Saluzzo per l’annullamento del provvedimento in data 14 dicembre 2005, prot. 30357, con il quale il Dirigente tecnico del medesimo Comune ha respinto l’istanza con la quale la società ricorrente aveva chiesto che le fosse consentito di realizzare un intervento di ristrutturazione edilizia con cambio di destinazione d’uso in capannoni esistenti siti in Saluzzo, via della Croce, nonché degli atti tutti antecedenti, preordinati, consequenziali e comunque connessi per l’avvio al procedimento e per ogni consequenziale statuizione.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Vista la memoria prodotta dalla società appellante in data 7 giugno 2013 a sostegno delle proprie difese;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, all’udienza pubblica del giorno 9 luglio 2013, il Consigliere Raffaele Greco;
Udito l’avv. Romano per la parte appellante;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
La società P.P. di Pignatta & C. S.n.c. ha impugnato, chiedendone la riforma, la sentenza con la quale il T.A.R. del Piemonte ha respinto il ricorso dalla stessa proposto avverso il diniego opposto dal Comune di Saluzzo all’istanza intesa a ottenere l’autorizzazione a un intervento di ristrutturazione edilizia di capannoni esistenti, con cambio di destinazione d’uso da agricola ad artigianale.
A sostegno dell’appello, ha dedotto l’erroneità della sentenza:
- nella parte in cui ha dichiarato inammissibile la doglianza incentrata sulla ritenuta originaria destinazione non agricola dei capannoni de quibus;
- nella parte in cui ha ritenuto ostativa all’intervento la ricomprensione dei capannoni nella fascia di rispetto di un limitrofo impianto di depurazione, sulla base di un erroneo calcolo dell’estensione di detta fascia;
- nella parte in cui ha ritenuto che l’intervento richiesto comportasse un incremento di carico urbanistico per il solo fatto che era prevista la suddivisione dei capannoni in magazzini.
Inoltre, la appellante ha riproposto i motivi di censura articolati in primo grado, e rimasti assorbiti dalla sentenza impugnata, con riferimento:
- alla inapplicabilità all’intervento per cui è causa del vincolo di inedificabilità imposto dalla fascia di rispetto;
- alle erronee argomentazioni spese dall’Amministrazione anche quanto all’individuazione delle aree a standard da destinare a parcheggi;
- all’erronea applicazione delle previsioni del P.R.G. in ordine ai cambi di destinazione d’uso ammessi nelle aree a destinazione agricola;
- al richiamo ai pareri negativi espressi dalla competente commissione consiliare e dalla A.S.L. territorialmente competenti;
- all’omessa considerazione di una possibile assentibilità parziale dell’intervento richiesto.
Il Comune di Saluzzo non si è costituito nel presente grado.
All’udienza del 9 luglio 2013, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. L’odierna appellante, società P.P. di Pignatta & C. S.n.c., ha impugnato dinanzi al T.A.R. del Piemonte il diniego opposto dal Comune di Saluzzo a una sua istanza intesa all’ottenimento dell’autorizzazione a un intervento di ristrutturazione edilizia su due capannoni, in precedenza di proprietà di un’impresa agricola e acquistati ad un’asta pubblica, dei quali era stata prevista la suddivisione in più unità con mutamento di destinazione d’uso a magazzini.
Con l’appello oggi all’esame della Sezione, essa censura la sentenza con la quale il T.A.R. adito ha respinto il ricorso proposto avverso il suddetto diniego.
2. L’appello è però complessivamente infondato, apparendo la sentenza gravata meritevole di conferma.
3. Con un primo motivo di doglianza, parte appellante lamenta l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha dichiarato inammissibile la censura introduttiva articolata in ricorso, con la quale si contestava in limine che i capannoni per cui è causa avessero effettivamente destinazione urbanistica; secondo la prospettazione attorea, spetta al giudice la corretta qualificazione giuridica delle istanze e dei provvedimenti portati alla sua attenzione, a prescindere dai nomina impiegati dalle parti.
L’impostazione è indubbiamente contraddittoria rispetto ad avere la stessa società istante, nella propria istanza ad aedificandum, affermato la natura agricola degli immobili in questione, e, sebbene se ne comprenda la ratio, consistente nel negare in radice la destinazione agricola dei capannoni per sostenere che essi avessero già ab initio vocazione produttiva, ciò non può che indurre a chiedersi perché mai, se così fosse, la società odierna appellante si fosse risolta a formulare all’Amministrazione una richiesta di mutamento di destinazione d’uso (mutamento che, a quel punto, sarebbe stato urbanisticamente e giuridicamente del tutto irrilevante).
Al di là di ciò, in ogni caso, la prospettazione di parte appellante è chiaramente non condivisibile siccome basata sull’apodittica affermazione che l’attività precedentemente svolta nei capannoni, di allevamento di polli in batteria, aveva carattere industriale e non agricolo.
Al contrario, in giurisprudenza si è affermato - nel regime anteriore alla modifica dell’art. 2135 cod. civ. operata col decreto legislativo 18 maggio 2001, nr. 228 - che l’allevamento intensivo in batteria di polli, anche se finalizzato a una successiva commercializzazione, non è sempre necessariamente attività commerciale, ben potendo rientrare nella nozione di impresa agricola a condizione che sia strettamente connessa alla sfruttamento del fondo e all’utilizzazione della terra (cfr. Cass. civ., sez. III, 21 giugno 1979, nr. 3444).
Nel caso di specie, non solo parte appellante non adduce alcun concreto elemento a sostegno dell’asserito carattere commerciale dell’attività precedentemente svolta nei capannoni de quibus (tale non potendo considerarsi il mero dato dimensionale dell’attività medesima), ma dagli atti risultano indizi di segno opposto.
In primo luogo, è la stessa appellante a precisare che la società in precedenza proprietaria degli immobili era certamente impresa agricola; ma, anche al di là di tale dato formale, nella specie si specifica anche che i capannoni erano attrezzati “per galline ovaiole”, e che dunque ivi i polli non venissero soltanto allevati e cresciuti per essere poi destinati alla vendita, ma anche fatti nascere in loco con la deposizione e la cova delle uova: ciò che manifestamente depone nel senso di una attività rientrante a pieno titolo nella nozione di impresa agricola ex art. 2135 cod. civ.
4. Superato questo primo passaggio logico, può poi rilevarsi che le motivazioni addotte dal primo giudice a sostegno della legittimità del diniego impugnato appaiono immuni da censure con riferimento sia all’incompatibilità dell’intervento con le prescrizioni urbanistiche vigenti in zona, sia al carattere ostativo della fascia di rispetto del depuratore di acque confinante (potendo quindi confermarsi anche l’assorbimento dei residui motivi di censura qui riproposti con l’appello).
4.1. Con riguardo al primo profilo, la tesi attorea si fonda su una non condivisibile lettura delle prescrizioni del P.R.G. del Comune di Saluzzo, pur di non agevolissima interpretazione (e solo parzialmente chiarite dalla determina dirigenziale nr. 7 del 2004, richiamata negli scritti difensivi di prime cure dell’Amministrazione).
In particolare, giova premettere che il suolo interessato dall’intervento per cui è causa ricade in area destinata dalle N.T.A. ad attività agricola del settore primario (“EH”), alla quale si applica innanzi tutto la generalissima prescrizione per cui: “…Le aree destinate o confermate ad attività produttive agricole del settore primario sono adibite agli usi produttivi, abitativi e di servizio, atti a soddisfare le esigenze economiche e sociali dei produttori e dei lavoratori rurali” (art. 17.1.1 delle N.T.A.).
Inoltre, che gli usi di queste aree non possano prescindere dalla connessione con l’attività agricola è confermato dal successivo art. 17.2.1, che per le zone a destinazione EH qualifica l’attività agricola come “prescrizione d’uso prevalente”.
Ciò premesso, come chiarito con la già citata determina nr. 7 del 2004, l’unica possibilità di adibire un suolo con destinazione EH ad uso esclusivo di attività produttive svincolate dall’agricoltura è quella prevista dal nr. 6 dell’art. 17.2.7, laddove ammette gli “usi non connessi ad attività del settore primario, in consistenze fabbricative preesistenti, tipologicamente preordinate ad essi”: con ciò chiaramente consentendosi la “stabilizzazione” di attività incompatibili con la destinazione agricola prevalente delle aree in questione, che comunque si fossero sviluppate de facto anteriormente all’entrata in vigore del P.R.G.
Al di là di tale ipotesi – e concentrando l’attenzione sulle disposizioni del P.R.G. invocate dall’odierna appellante – sia la fattispecie di cui al nr. 7 dell’art. 17.2.7 (relativa alla destinazione ad attività del settore secondario a carattere artigianale delle “consistenze fabbricative abbandonate”) sia quelle di cui al successivo art. 17.2.8 (che disciplina la destinazione degli “edifici rurali” già destinati ad abitazione dell’imprenditore agricolo e dei suoi familiari) devono ritenersi logicamente ammissibili fermo restando l’asservimento delle attività produttive da svolgere alle esigenze del fondo, e quindi strumentali all’attività di un proprietario che sia imprenditore agricolo.
Una diversa interpretazione, consentendo che si possa indiscriminatamente avviare ex novo attività produttive o artigianali su aree a destinazione agricola per il solo fatto che gli edifici insistenti su di esse siano in tutto o in parte dismessi o abbandonati (ciò che, come dimostra il caso che qui occupa, può dipendere anche semplicemente dal fallimento dell’imprenditore agricolo e dal successivo acquisto dell’immobile da parte di chi tale qualità non rivesta), si risolverebbe in un sostanziale stravolgimento dell’impianto generale del P.R.G., che alle attività artigianali e produttive ha specificamente destinato altre aree.
4.2. Per quanto attiene al secondo aspetto, in questo caso viene in rilievo l’interpretazione dell’art. 24.3.3 delle N.T.A., che impone un vincolo di inedificabilità in una fascia di rispetto di mt 150 dal “perimetro degli impianti pubblici di depurazione di acque luride e di discariche controllate”.
Al riguardo parte appellante, al fine di sostenere che i capannoni per cui è causa si troverebbero, in tutto o per la loro maggior parte, al di fuori della predetta fascia di rispetto, assume che la stessa andrebbe calcolata a partire non già dal limite esterno dell’intera area ospitante l’impianto di depurazione, ma dalle pareti del singolo, specifico edificio adibito a depuratore.
Per meglio comprendere l’inaccettabilità di tale lettura, occorre tener presente che la richiamata prescrizione del P.R.G. è attuativa della prescrizione tecnica contenuta nell’Allegato 4 alla Deliberazione del Comitato dei Ministri per la tutela delle acque dall’inquinamento del 4 gennaio 1977, laddove:
- la necessità di garantire una distanza minima degli impianti di depurazione dall’abitato è ricondotta alla esigenza di “evitare che microrganismi patogeni o sostanze particolarmente pericolose raggiungano (…) zone abitate, residenziali o commerciali o di traffico notevole” (par. 1.2);
- conseguentemente, viene demandata alla “autorità competente in sede di definizione degli strumenti urbanistici” la fissazione di una fascia di rispetto di almeno mt 100, con specifico riferimento alla “area destinata allo impianto” (par. 1.2);
- tale ultima area è espressamente definita come quella “sufficiente per tutte le necessità connesse con il funzionamento ottimale dell’impianto stesso: deposito per materiale di consumo e di risulta, edifici ausiliari, parcheggi e quant’altro occorre per il corretto funzionamento dell’impianto” (par. 1.5).
Alla luce dei dati testuali sopra richiamati, risulta evidente che la pretesa di parte appellante di ancorare la misurazione della fascia di rispetto al perimetro del singolo edificio, anziché a quello dell’area ospitante l’impianto nella sua globalità, oltre che con la lettera delle prescrizioni tecniche, contrasta anche con la loro ratio: è evidente infatti che la previsione di una fascia di rispetto con connesso vincolo di inedificabilità mira non già a tutelare l’impianto di depurazione in quanto immobile considerato nella sua realtà “statica”, ma ad assicurarne la piena funzionalità, in rapporto alle esigenze di tutela della salute umana (e, quindi, anche in una prospettiva “dinamica” di possibile espansione e sviluppo dell’impianto medesimo).
5. I rilievi fin qui svolti, come già accennato, sono sufficienti per pervenire a integrale conferma della sentenza di primo grado, e pertanto esonerano il Collegio dall’esame delle ulteriori censure riproposte nell’appello (già assorbite nella sentenza impugnata).
Tuttavia, non è fuori luogo precisare che, quand’anche fosse dimostrato che una parte dei capannoni ricade al di fuori della fascia di rispetto, non può trovare alcuno spazio la pretesa della società istante a che l’Amministrazione comunale esaminasse l’istanza ad aedificandum nella prospettiva di una sua assentibilità parziale, limitata alla sola porzione degli immobili formalmente non interessata dal vincolo di inedificabilità.
Ed invero, il Comune è tenuto a esaminare il progetto di intervento edilizio presentato nello stato in cui gli è sottoposto, senza poter compiere su di esso delle operazioni di “ortopedia” che implicherebbero, oltre a modifiche tecniche non necessariamente semplici, anche un riesame dell’incidenza urbanistica complessiva dell’intervento medesimo.
Infatti, contrariamente a quanto sostenuto dalla appellante, un intervento di trasformazione del tipo di quello richiesto nella specie, implicante il frazionamento di due capannoni in cinque distinte unità immobiliari da destinare a magazzini, comporta certamente un aumento del carico urbanistico sull’area interessata (ciò che, del resto, è dimostrato anche dalla contestuale previsione di nuove aree a standard da destinare a parcheggi, sull’evidente presupposto di un diverso e più consistente afflusso umano in loco).
6. Non essendovi costituzione di controparte, non vi è luogo ad assumere alcuna determinazione in ordine alle spese del grado.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Nulla per le spese .
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 luglio 2013 con l’intervento dei magistrati:
Giorgio Giaccardi, Presidente
Nicola Russo, Consigliere
Raffaele Greco, Consigliere, Estensore
Francesca Quadri, Consigliere
Oberdan Forlenza, Consigliere
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L'ESTENSORE |
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IL PRESIDENTE |
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 17/09/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)